Il Terzo Polo sarà pure archiviato, ma il Paese ha ancora bisogno di un partito in grado di presidiare il terreno dell’apertura e della modernità. Serve un progetto che guardi al futuro. L’alternativa è lasciare campo libero al bipopulismo
«Oiga, joven, ¿no sabe usted que los caballeros sólo defendemos causas perdidas?». Pare che Jorge Luis Borges, già vecchio e cieco, invitato a tenere una conferenza all’Università di San Marcos a Lima, abbia risposto così a uno studente che gli chiedeva come fosse possibile che un uomo come lui si ostinasse a mantenere posizioni antistoriche e totalmente impopolari.
Insomma, le elezioni regionali sono andate come sono andate, dalle comunali, parzialissime, di domenica scorsa non c’è modo di ricavare indicazioni generali e la prospettiva di un polo liberal-democratico in grado di unire i riformisti, che nonostante tutto siamo in parecchi a ritenere ancora necessaria, sembra sia definitivamente naufragata tra urla, insulti e piatti rotti (una parentesi: al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori, i litigi tra Matteo Renzi e Carlo Calenda non li capisce nessuno. Anzi, non faranno che confermare pregiudizi e stereotipi: chi pensa che Calenda sia uno scombinato avrà trovato in quel che è successo una conferma e lo stesso dirà chi ha sempre pensato che di Renzi non ci si possa fidare. Mesi fa, venuto a conoscenza della mia intenzione di candidarmi in Friuli Venezia Giulia, un noto studioso mi ha detto: «Si va bene, ma quei due?»).
Che costruire uno spazio alternativo ai due populismi non fosse facile, si sapeva. E si sa anche che si tratta di una strada che andrebbe percorsa con pazienza (ci vorrà tempo) e tenacia.
Ma continuo a pensare che il nostro Paese di quello spazio abbia bisogno.
Una volta avremmo detto che se si tratta davvero di una necessità storica, troverà i suoi interpreti. Oggi non sono così sicuro. Non c’è mai un solo sbocco possibile. Non c’è mai un solo possibile domani come esito dell’oggi. Ma ritengo che l’esigenza di una casa riformista più larga, più solida e nettamente alternativa ai populisti sia più urgente che mai. Proprio perché la destra è quella che è, e la sinistra è quella che è.
Certo, come ricorda Claudio Cerasa, l’Italia oggi non è un Paese dominato dagli estremisti, e dirsi antipopulisti «non è più sufficiente per costituire un’identità politica forte, robusta, capace di proiettarsi verso il futuro». Vero. Ed è vero che, come sottolinea Giuliano Ferrara, la nostra Repubblica parlamentare «trasformista» ha digerito e integrato tutto (confessionalismi, laicismi, comunismi, socialismi, populismi, postfascismi) e oggi ci regala addirittura «una destra euroatlantica, che sta dalla parte giusta nell’unico teatro che conta oggi, quello della guerra e della pace».
Tutto vero (e se il partito di Meloni evolverà verso qualcosa di diverso e troverà un’intesa in Europa con il Ppe, stappo anche lo spumante). Ma tutto ciò ha un prezzo. Se si trattano gli italiani come eterni bambini, si comporteranno da bambini. Si comporteranno cioè come persone molto autocentrate, sempre pronte a chiedere, a «prendere», a criticare in maniera distruttiva e che, per giunta, non si considerano responsabili delle conseguenze delle loro azioni e delle loro scelte.
È sempre colpa di qualcun altro: della perfida Albione, dei francesi, della Germania, del destino cinico e baro, delle cavallette. Per un po’ può anche funzionare (a patto che si faccia finta di credere davvero che a Piazza Venezia non c’era nessuno). Ma alla fine arriva il conto. Salato. Non è un caso che il peronismo sia ormai diventato l’ideologia della nazione (per Eva, il peronismo prima che un partito era infatti «un movimento y un sentimiento»).
Nella destra italiana il peronismo è ideologia egemonica da un pezzo. E con la radicalizzazione del Partito democratico il peronismo si è impadronito anche della sinistra. Le catene (della destra e della sinistra) che oggi tengono bloccata l’Italia descritte proprio da Claudio Cerasa (un ambientalismo giacobino che tende a bloccare tutto e che considera ogni forma di progresso come una minaccia per l’ambiente, la politica guidata da un complottismo irreversibile, una cultura politica che tende ad affrontare i problemi dell’Italia creando continuamente capri espiatori utili a spostare l’attenzione dai veri guai del Paese, una cultura che diffida dell’impresa e che tende a scaricare regolarmente sulle casse dello Stato l’incapacità della politica italiana di rendere il nostro Paese un luogo più accogliente per gli investitori stranieri, ecc.) hanno infatti la stessa radice culturale.
Siamo alle prese, per capirci, con due peronismi che si muovono su strade parallele, come accadeva con Perón e Eva. Nella sua bella biografia politica di Eva Perón, lo storico bolognese Loris Zanatta ha ricordato che l’Argentina è stato un Paese «con dos presidentes», una «automóbil con dos motores», Perón e Eva. Ormai è così anche dalle nostre parti. Per dirla in soldoni, il populismo di Giorgia Meloni (adesso che sta al governo) è il peronismo di Perón: la coerenza non è il suo forte, ma non disdegna la politica e i suoi compromessi; detesta il capitalismo, ma sa perfettamente che con esso bisogna fare i conti; maledice la globalizzazione, ma è cosciente che l’autarchia è controproducente: è un peronismo cinico, ma pragmatico.
Il populismo di Elly Schlein (adesso che il Partito democratico è all’opposizione) è il peronismo di Evita, la «Jefa Espiritual de la Nación»: millenaristico, manicheo, redentore; è una comunità di fedeli ansiosa di lanciare una nuova crociata; considera la politica come un campo di battaglia e la cultura come arma di conversione e antepone l’ideologia all’economia, la fede alla ragione.
Ma i ruoli potrebbero anche invertirsi. È infatti da un pezzo che destra e sinistra indossano l’uno o l’altro cappello a seconda che si collochino al governo o all’opposizione. È da un pezzo che, a turno, «tutti chilli che stanno a prora, vann’a poppa e chilli che stann’a poppa vann’a prora; chilli che stann’a dritta vann’a sinistra e chilli che stann’a sinistra vann’a dritta». Il guaio è che entrambi i peronismi offrono beni preziosi di cui i loro seguaci sono avidi e bisognosi: protezione, senso di appartenenza e capri espiatori. Hanno cominciato disputandosi spazio e potere e proseguiranno – come ha spiegato, a proposito dell’Argentina, Loris Zanatta – lottando per la preda più ambita: la fede, l’eredità del «vero» peronismo (del populismo autentico, della «vera» sinistra, dell’italiano «vero», ecc.).
L’Italia, ovviamente, non è il Sudamerica. Ormai non sono solo i Cinquestelle a condividere molti dei tratti dei movimenti sudamericani dello stesso segno (peronisti, apristi, chavisti, ecc.): l’antiliberalismo, l’anticapitalismo, l’anti-istituzionalismo, l’ostilità nei confronti della democrazia parlamentare e il favore per quella plebiscitaria, la difficoltà a distinguere tra morale e politica e l’ostilità nei confronti del libero mercato e della ricchezza, a tutto vantaggio di uno stato sempre più pervasivo. Ma la struttura economica e sociale dell’Italia (e dunque la realtà dei rapporti umani) è, in modo predominante, quella di un Paese moderno.
Eppure, se l’Italia riformista non si decide a battere un colpo, sarà come scegliere tra la padella e la brace. Perché l’Italia è diventata un paese immobile, impaurito, sempre più vecchio. Viviamo in una società che guarda al passato invece che al futuro e in cui il passato pesa più di quanto sia mai accaduto. Come ha scritto Andrea Graziosi, le società occidentali sono infatti società spontaneamente «reazionarie», così come lo sono i nostri tempi per il ruolo che vi svolgono il mito del passato (di un passato straordinario, quello dei miracoli del secondo dopoguerra) e il rimpianto per quello che per tantissime persone era il tempo della gioventù. E, in un’epoca di aspettative decrescenti, i mutamenti rapidi e radicali degli ultimi decenni (gli immigrati, i nuovi stili di vita, l’evoluzione dei ruoli di genere, l’aumento delle conoscenze necessarie per vivere nelle società moderne, il declino della religione, ecc.) che hanno sconquassato società, come le nostre, sempre più orientate al passato non hanno fatto che alimentare l’avversione al nuovo e alle riforme.
Torno sul Friuli Venezia Giulia perché, come nei frattali, presenta, a scala più piccola, la stessa struttura e gli stessi problemi che possiamo osservare a scala più grande. Ovviamente, nel trionfo di Massimiliano Fedriga (che, per capirci, doppia il centrosinistra e ottiene la stessa percentuale raggiunta da Mussolini nel 1924) e nel risultato deludente del Terzo Polo hanno contato tante cose – in particolare, per quest’ultimo, certamente le modalità della competizione, la mancanza di radicamento territoriale e di appeal, le incertezze circa la prospettiva politica, le candidature, la campagna corta, le risorse, ecc. Ma c’è dell’altro.
Si sa che, grazie al cielo, nella crisi pandemica l’Italia ha dimostrato una inattesa reattività e resilienza strutturale: nell’ultimo biennio, il Pil italiano a consuntivo ha sempre superato le previsioni di crescita rilasciate dal FMI, nel 2022 l’export ha toccato il record storico (seicentoventicinque miliardi di euro, crescita del venti per cento rispetto al 2020) e l’occupazione è tornata a crescere.
Ma, come ha sottolineato lo studio del Forum Ambrosetti anche di recente, negli ultimi vent’anni l’economia italiana non è cresciuta, con il più basso dinamismo del Pil in Europa e con una riduzione dei salari e del potere d’acquisto dei cittadini, anche a causa di un forte gap di produttività a confronto con altri Stati europei. Manco a dirlo, anche le cosiddette «Energie del Sistema», intese come produttività multifattoriale (formazione, allocazione del capitale umano, digitalizzazione, attenzione per la sostenibilità, efficienza della Pubblica amministrazione, ecc.) hanno dato un contributo negativo alla crescita del Paese.
Anche il Friuli Venezia Giulia ha recuperato velocemente i livelli prepandemici (-7,5 per cento il calo del Pil nel 2020, il più contenuto fra tutte le regioni italiane, crescita del sette per cento lo scorso anno), mostrando una capacità di recupero che non si era verificata nelle precedenti crisi. Ma le prospettive economiche appaiono ora meno favorevoli.
Il Friuli Venezia Giulia, si sa, è una regione civile e laboriosa, piena di persone di talento, capaci di competere con chiunque nel mondo. Ma non cresce da venti anni e, come l’Italia, è diventata una regione immobile e impaurita. Il calo drastico delle nascite unito al continuo invecchiamento, alla bassa occupazione femminile, alla scarsa immigrazione, alla fuga dei cervelli, rappresenta un disastro demografico, economico e sociale. E stando alla Fondazione Nord Est, negli ultimi vent’anni, mentre il Pil del Trentino Alto Adige è cresciuto del venti per cento, quello della Lombardia del dodici per cento, quello dell’Emilia del dieci per cento e quello del Lazio del sette, il Pil del Friuli Venezia Giulia è cresciuto solo dello 0,6 per cento. Perché? Perché il terziario avanzato, quella parte dell’economia ad alta intensità di conoscenza, è debole.
Per reagire al declino del Pil e dei redditi bisogna puntare anzitutto sull’innovazione. Come ha fatto, ad esempio, l’Olanda, un paese grande meno della somma di Lombardia ed Emilia Romagna con un clima non proprio favorevole, che è incredibilmente il primo esportatore mondiale di pomodori e il secondo esportatore mondiale di cibo (dopo gli Stati Uniti, 236 volte più grandi). Perché ha puntato sull’innovazione tecnologica (ad esempio, le coltivazioni idroponiche), che significa inoltre usare meno acqua, meno energia e meno pesticidi. Solo la ricerca abbinata al mercato può infatti consentirci di affrontare le sfide del futuro. Non per caso il preside di scienze agrarie dell’Università di Waningen è anche responsabile di diverse unità coinvolte nella ricerca commerciale a contratto. E non serve andare lontano: a Pordenone un’azienda innovativa sviluppa sistemi di agricoltura intensiva e sostenibile senza l’utilizzo del suolo.
In secondo luogo, bisogna trattenere e attrarre i giovani e valorizzare le loro capacità. Come fa la Nuova Zelanda che ad una giovane ricercatrice dell’Ogs di Trieste a poco più di milleduecento euro al mese ha proposto il triplo dello stipendio attuale e benefit per l’avvicinamento dei familiari. La madre di tutte le battaglie riguarda il futuro dei giovani. L’Italia, come ha rilevato la Fondazione Nord Est, ha perso più di centomila laureati nel periodo 2011-19, con un’emorragia di capitale umano equivalente a 3,8 miliardi nell’ultimo anno pre-pandemico e 29,3 miliardi nell’intero periodo qui considerato. Di fatto, un trasferimento di competitività ad altri sistemi produttivi, che intrappola il Paese in una spirale viziosa di bassi salari-fuga di cervelli-bassa produttività. E visto che la capacità di attrarre laureati da parte dei territori si traduce in enormi vantaggi economici e in un impoverimento per quelli abbandonati, ai giovani talenti di qualsiasi luogo dobbiamo dire venite da noi perché il futuro è già qui ed è qui che investiremo sulle vostre capacità, valorizzandole.
Anche perché è normale che in un enorme mercato europeo di mezzo miliardo di persone ci si sposti per cogliere le migliori opportunità di lavoro o di studio, come si fa, ad esempio, negli Stati Uniti andando da New York a San Francisco. Anche i giovani tedeschi, molti dei quali con un livello di istruzione elevato, lasciano la Germania. Ma in Germania sono molti anche gli arrivi. Come mai da noi non viene nessuno? Questa è la vera domanda.
Bisogna inoltre scommettere sul futuro e lottare contro quella che a Trieste viene definita la cultura del «No se pol». Non sarà l’intervento massiccio dello stato a sistemare le cose. La ricchezza si crea nel settore privato e si crea nell’impresa. Dipenderà come sempre da quei «matti» che scommettono sul futuro, puntano sul quel che credono di vedere e altri non vedono, investono, rischiano e producono, riuscendo a sfuggire alle trappole del «No se pol». Dipenderà dal loro entusiasmo e dal loro ottimismo. E dobbiamo aiutarli.
Bisogna, infine, puntare sull’immigrazione. L’immigrazione è una patata bollente e nessuno vuole scottarsi le mani. Ma la popolazione invecchia in tutti i Paesi avanzati e dappertutto c’è bisogno di una forte infusione di lavoratori stranieri nel tessuto economico.
L’Italia non fa eccezione: abbiamo bisogno di immigrazione regolare. Per questa ragione, la Germania, ad esempio, ha deciso di «aprirsi al mondo». Il governo tedesco prevede di introdurre un nuovo «sistema a punti» sul modello del sistema di immigrazione canadese per facilitare l’ingresso di lavoratori qualificati. Si tratta di una politica (sperimentata anche in Australia, Nuova Zelanda e nel Regno Unito) basata sulla valutazione dei candidati secondo un «punteggio» assegnato loro valutando la loro funzionalità alla società canadese. Ne ho parlato anche nel corso della campagna elettorale regionale. Tredici anni fa, sulla base dei lavori del demografo Massimo Livi Bacci, avevo infatti proposto di abbracciare una strategia di questo tipo anche in Italia. Sul tema avevo messo a punto un ordine del giorno che avevo poi proposto all’assemblea del Pd di Varese nel 2010. Maria Teresa Meli aveva riassunto i contenuti del documento sul Corriere della Sera. Naturalmente, non se n’è fatto nulla (qualche anno fa, sul Foglio, ho raccontato come sono andate le cose: «No agli estremismi: per la sinistra c’è una terza via sull’immigrazione», era 5 agosto 2020).
Le ho elencate perché si tratta di cose perfino banali. Il guaio è che lo squilibrio demografico e la crescente prevalenza della popolazione anziana incidono ormai anche sulla capacità di far fronte ai cambiamenti in modo razionale, sfruttando, appunto, nel miglior modo possibile le opportunità offerte dall’immigrazione, riformando in modo efficace il welfare e trovando le risorse per risanare i sistemi di istruzione e di ricerca. Perché si tratta di obiettivi che stentano a trovare il sostegno popolare necessario per poterli conseguire. Meglio perciò limitarsi ai bonus a pioggia. In fondo, c’è sempre più gente disposta a votare chi promette di tenere a bada le forze del cambiamento culturale e sociale. C’è anche questo nell’esito elettorale in Friuli Venezia Giulia.
Ma come si fa a non vedere che in questo modo si restringono progressivamente orizzonti, scelte e speranze (la perdita di centralità dei giovani é evidente) e che, per dirla con Fitzgerald, «così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato»?
Senza contare che il concretizzarsi delle prospettive di crescita per l’Italia dipenderà in gran parte dall’implementazione di tre fattori chiave per il Paese: l’attuazione del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (realizzando le sessantatré riforme, dalla riforma orizzontale della giustizia alle undici riforme settoriali volte a riformare il sistema scolastico nel suo complesso, da cui dipendono gli impatti a medio termine del Pnrr); l’efficienza della twin transition, ovvero digitale e green; la partita strategica dell’approvvigionamento delle materie prime critiche.
Siamo ovviamente tutti «Open to Meraviglia», ma serve qualcos’altro. Dobbiamo uscire dalla trappola del doppio peronismo (di destra e di sinistra). E c’è bisogno di un partito in grado di presidiare il terreno dell’apertura e della modernità con un progetto che guardi al futuro (scommettendo sull’innovazione, sugli investimenti privati, i capitali stranieri, la ricerca, la produttività, la concorrenza, il commercio internazionale, la lotta per avere salari più alti) e che punti a recuperare quel cinquanta per cento di italiani che ha smesso di andare a votare. Per questo non dobbiamo gettare la spugna. La spirale distruttiva in cui è caduto il Terzo Polo, alla vigila di una grottesca scissione in Parlamento, ha causato indubbiamente una perdita di credibilità. Da dove possiamo ricominciare?
Bisogna anzitutto mantenere le reti territoriali. Ma il programma liberale ha bisogno, come suggerisce Andrea Graziosi, anche di una nuova narrazione, capace di leggere il mondo in cui viviamo e di ridare incisività agli ideali del liberalismo progressista. Bisogna costruire un nuovo discorso liberal-democratico capace di mobilitare per il futuro le energie che esistono. Nel corso della campagna elettorale regionale mi hanno avvicinato in parecchi per dirmi: «Siete i più bravi, ma io sono di destra (o di sinistra)». Ecco, gli elettori devono poter dire con orgoglio: «Sono un progressista liberale».
In tutta Europa, l’antidoto contro la demagogia xenofoba e peronista si sta concretizzando sulla base di un obiettivo: rivitalizzare e rimodellare l’Unione europea, l’esperienza collettiva di costruzione democratica più importante della storia del continente. È in ballo il sogno europeo e la possibilità di creare «un’alternativa dell’apertura». Ed è tempo che, anche in Italia, i progressisti liberali espongano apertamente la loro prospettiva e oppongano ai populisti di ogni genere un manifesto del «polo europeista». Servirà certamente un «federatore». Ma non c’è svolta storica sul piano materiale che non sia preceduta da una rivoluzione ideale. E resto persuaso che le idee, come scriveva un grande economista, così quelle giuste come quelle sbagliate, siano «più potenti di quanto comunemente si ritenga» e che il mondo sia governato «da poche cose all’infuori di quelle».
Insomma, il futuro non è predeterminato, è aperto. Tutti noi contribuiamo a determinarlo in base a quello che facciamo. Tutti noi siamo ugualmente responsabili di quello che succederà. È per questo che le cause che vale la pena difendere sono quelle perse (le altre hanno già qualcuno che le sostiene e non hanno bisogno di essere difese). Per far vivere una speranza, per mantenere aperta una prospettiva, per non tradire se stessi, per un’idea.
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