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stradeonline.it, 21 dicembre 2017 – LA TASSA SUI FIGLI: ARRIVA LA RIFORMA FISCALE (IN DEFICIT) DI DONALD TRUMP

Ieri la Camera dei rappresentanti ha approvato rapidamente la versione finale della riforma fiscale di 1.5 trilioni di dollari. L’approvazione del provvedimento permetterà al presidente Trump di apporre, entro Natale, la sua firma sulla più ampia revisione fiscale degli ultimi decenni. Il mio articolo su stradeonline.it:

I Repubblicani stanno per cogliere il loro primo significativo successo legislativo da quando hanno assunto il controllo del Congresso. In questi giorni, la Camera dei rappresentanti ed il Senato hanno approvato la più radicale riscrittura della legislazione fiscale degli ultimi decenni.

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Il Foglio, 30 novembre 2017 – L’importanza del compromesso politico spiegata con la lezione tedesca

In Germania i liberal-democratici e la SPD devono trovare il coraggio di spiegare alla gente perché l’accordo in cui ciascuna parte rinuncia a qualcosa in favore dell’altra è vitale per la democrazia

Quello che Anna Sauerbrey, sul New York Times, ha definito “il più assurdo ‘mic drop’ nella storia della Germania”, non è che un altro esempio del “pericoloso assolutismo politico”, l’atteggiamento cioè di chi vuole imporre la propria volontà “immacolata” senza accettare opposizioni, che sta travolgendo le democrazie del mondo.

In un certo senso, la Germania sta diventando un po’ più normale. Del resto, la polarizzazione del sistema politico, lo scontro permanente, non sono un’esclusiva dell’Italia (la hyper-partisanship, si sa, ha paralizzato Washington e polarizzato l’America) e sono anche il prodotto di forze profonde (economiche, sociali, tecnologiche) che stanno rimodellando le nostre società. E sarebbe sbagliato forzare l’interpretazione di quel che è successo. La Repubblica federale tedesca non è Weimar e resta uno dei sistemi politici più stabili del mondo. Angela Merkel è più debole ma è ancora in sella e la Germania è ancora molto lontana dalle cose che vediamo intorno a noi. Niente a che vedere, per capirci, con Trump o con la Brexit. Ci potrà essere una fase di sbandamento, ma alla fine qualcuno disposto ad accogliere l’appello del presidente Frank-Walter Steinmeier a “riconsiderare il proprio atteggiamento” si troverà, altrimenti ci saranno nuove elezioni che potrebbero rimescolare le carte. In fondo, Alternative für Deutschland (AfD), che ha ottenuto il 12,6% dei voti a settembre, potrebbe aver sfruttato al massimo le sue potenzialità elettorali.

Il punto è che il sistema politico tedesco è basato sulla disponibilità al dialogo e sulla disposizione a raggiungere un compromesso, un accordo. Tutti governi tedeschi dal 1949 sono stati governi di coalizione e finora il sistema ha sempre funzionato. L’ascesa del populismo ha però complicato le cose e non solo in termini aritmetici. La decisione di Christian Lindner, leader del Partito Liberale Democratico (FDP), di rovesciare il tavolo del negoziato, dimostra che la AfD ha alterato in modo determinante il gioco politico: è riuscita a screditare il compromesso come valore fondamentale della democrazia. Insomma, anche in Germania l’accordo è diventato “inciucio”.

Quando, durante la conferenza stampa, gli è stato chiesto perché avesse abbandonato i negoziati, Lindner ha elencato una serie di temi rispetto ai quali il suo partito non è riuscito ad ottenere quel che voleva. Gli altri partiti, ad esempio, avrebbero raggiunto un accordo (solo) sull’eliminazione graduale della “Soli” (una tassa addizionale istituita nei primi anni ‘90 come misura temporanea per sostenere l’economia delle regioni della ex Germania Est; stando ai sondaggi, più dell’80% dei tedeschi ritengono di aver pagato abbastanza per questo scopo) e non sulla sua immediata abolizione. Il FDP ha anche tentato di porre dei limiti all’immigrazione, ma i Verdi hanno insistito su una serie di deroghe per ragioni umanitarie. Si tratta, ovviamente, di compromessi assolutamente normali e necessari, ma i liberal-democratici temono, a quanto pare, che l’AfD vada a dire ai loro elettori che il partito li ha svenduti pur di andare al governo. Va da sè che l’improvvisa interruzione dei negoziati è una sfida per il nuovo ruolo della Germania nel mondo e un colpo serio alla sua immagine di potenza stabile e responsabile. E non c’è dubbio che, paragonata alla posta in gioco a livello globale, la discussione su quando eliminare del tutto la “Soli” sembra davvero poca cosa.

 

 

 

 

 

 

Ma, come ha rimarcato giustamente Anna Sauerbrey, è proprio questo il punto. Non è anzitutto il disprezzo per quelle che sembrano preoccupazioni di poco conto, in nome del compromesso, dell’accomodamento, che ha nutrito l’ascesa del populismo? Lindner (che ha ricostruito i liberal-democratici dal nulla dopo la disfatta del 2013 che li ha lasciati fuori dal Bundestag) e gli altri (trovo che per una forza filoeuropea come la SPD la scelta di contenere i danni elettorali prendendosi una vacanza sia irresponsabile) devono trovare il coraggio (il libro di Kennedy sul «coraggio politico» resta un intramontabile long seller) non solo per raggiungere un’intesa, ma anzitutto per spiegare alla gente perché il compromesso, l’accordo in cui ciascuna parte rinuncia qualcosa in favore dell’altra, è vitale per la democrazia tedesca (e per ogni democrazia). Ma non è affatto detto che in Germania (come dappertutto) la paura di nuove elezioni o di un governo di minoranza, con tanto di echi weimariani, sia più forte dell’attuale ripugnanza per il compromesso politico.

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Messaggero Veneto, 26 novembre 2017 – LA RIPRESA DEL CENTRODESTRA MA LA COALIZIONE È DESTINATA A FRANTUMARSI DOPO IL VOTO

Alle regionali, a differenza di quel che accadrà a livello nazionale, dove investitura diretta di leader e programma di governo ce li siamo giocati col referendum e gli interventi della Corte costituzionale, vince le elezioni chi arriva primo. I cittadini possono, infatti, scegliere un leader e la sua maggioranza. Per questo sono necessarie coalizioni “larghe” (che non vuol dire aggiungere al PD di oggi un frammento del PD dell’anno scorso, quello degli scissionisti: saremmo sempre e solo al PD) ed è “cruciale” coinvolgere l’area centrista e moderata che rischia di essere risucchiata da Berlusconi. Il risultato in Sicilia conferma, infatti, la ripresa del centrodestra unito dopo una fase di offuscamento. Ma resta il fatto che si tratta di una “coalizione innaturale” che è destinata a scomporsi un secondo dopo il voto delle politiche. Lo vediamo ogni giorno. Per stare unito il centro destra deve parlare il meno possibile; e alla fine rischia di sembrare la vecchia Unione (di Prodi) con un unico collante a disposizione: l’antirenzismo. Ovviamente, nelle elezioni regionali temi come la collocazione internazionale, la moneta, il rapporto con l’Europa, essenziali per una coalizione di governo nazionale, finiscono in secondo piano. Ma non è naturale che Berlusconi prometta di essere “l’unico argine al populismo” alleandosi con Salvini. Non è naturale che un partito come Forza Italia, che rappresenta in Italia la grande famiglia del Ppe, scelga di presentarsi con un partito, la Lega, che vede Angela Merkel (che del Ppe incarna i valori) come il fumo negli occhi e vuole portare in Italia le idee di Marine Le Pen. Non è naturale che un partito che reputa l’euro una risorsa, la globalizzazione una cosa positiva (di cui mitigare semmai rischi e lati negativi), il protezionismo una sciagura e la Brexit un grave errore, si allei con un partito che ritiene l’euro una disgrazia, il protezionismo la ricetta giusta per combattere la globalizzazione e la Brexit (che ha condannato il Regno Unito all’irrilevanza) una scelta vincente. Vale anche per il PD, ovviamente. Non è naturale che il PD si proponga come argine al conservatorismo di sinistra alleandosi con quanti hanno osteggiato la rottamazione del conservatorismo di sinistra. Non è naturale che un partito che considera il Jobs Act l’elemento distintivo di una sinistra moderna, si allei con una sinistra che considera l’introduzione del Jobs Act un atto eversivo. Non è naturale che chi considera gli accordi commerciali il futuro dell’economia mondiale, Macron la guida dei progressisti europei, il grillismo e lo squilibrio tra politica e magistratura un pericolo per la democrazia, si allei con chi si oppone agli accordi commerciali, considera Macron un nemico, vede in Grillo un possibile alleato e vagheggia una Repubblica giudiziaria. Ci sono certo i livori personali, ma è un fatto che, come dimostrano le decisioni parlamentari più importanti (dal Ceta alla missione in supporto alla Guardia costiera libica), coalizioni alternative (ragionevolmente) omogenee di centrodestra e centrosinistra, semplicemente non esistono. Sappiamo, del resto, che oggi il vecchio spartiacque tra destra e sinistra è entrato in crisi e che la divisione è tra chi intende contrastare la globalizzazione ripristinando sovranità e frontiere nazionali e chi invece ne accetta la sfida attrezzando il proprio Paese per trarre dalla globalizzazione il massimo beneficio e indennizzando chi nella sfida perde qualcosa; sappiamo che (in tutta Europa) le elezioni locali tendono a ricomporre le vecchie alleanze, mentre quelle nazionali tendono a scomporre i vecchi schieramenti per crearne di nuovi, ma sappiamo anche che alle elezioni deve arrivare (a Roma come in Friuli) una coalizione ristrutturata e non un pantano. Deve arrivarci un centrosinistra che ha in mente qualcosa che va oltre i giochi di nomenclatura; in grado di offrire una proposta di governo responsabile, fondata su una visione (dello sviluppo economico e della società) al passo con i tempi; in grado di sollecitare l’adesione di quanti sono (apparentemente) lontani ma condividono priorità e senso di responsabilità e sanno che bisogna rispondere insieme alle grandi sfide della nostra epoca. La scommessa, anche in Friuli, non è quella di conquistare i voti dell’Italia che dice no (sanno già dove andare) ma quelli dell’Italia che dice sì, che sa che non si tratta di sfasciare tutto ma di continuare a costruire e che il percorso imboccato in questi anni non va rovesciato ma semplicemente migliorato. Come sempre.
Alessandro Maran
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Formiche, 21 ottobre 2017 – “Vi racconto il Sogno cinese di Xi Jinping”

Conversazione con il senatore Alessandro Maran, membro delle commissioni Affari Costituzionali e Politiche europee di Palazzo Madama, nonché presidente dell’Istituto di cultura cinese di Roma.

di Marco Orioles

A Pechino si sta celebrando il 19mo congresso del Partito Comunista Cinese (Pcc), che incoronerà Xi Jinping per la seconda volta segretario generale e presidente della Repubblica, cariche che potrebbe conservare anche per un inedito terzo mandato, che proietterebbe il potere di Xi fino al 2027. Ma chi è Xi, che molti definiscono il “nuovo Mao”, e che idea ha della Cina, seconda potenza economica del pianeta, autocrazia socialista in salsa orientale e potenziale guida alternativa del mondo rispetto agli Stati Uniti sempre più defilati, dopo l’era dell’Obama riluttante e con un Donald Trump schiacciato su posizioni nazionaliste?

L’Economist della settimana scorsa ha definito Xi “l’uomo più potente del mondo”. Lo è certamente nella rigida gerarchia cinese, nella quale Xi ha imposto il suo controllo accumulando svariate posizioni apicali e purgando, nella sua feroce campagna anti-corruzione, migliaia di dirigenti. Ma alla leadership di Xi guardano anche svariati Paesi, preoccupati per la deriva isolazionista degli Usa di Trump e desiderosi di entrare nelle grazie dell’Impero di mezzo, che elargisce somme colossali destinate a ambiziosi progetti infrastrutturali come la “One Belt, One Road Initiative”, le nuove vie della seta che collegheranno Asia, Medio Oriente ed Europa. Ma rimanere impigliati nelle trame globali di un regime a partito unico, che all’interno controlla ogni cosa e all’esterno proietta le sue mire revisioniste, può rappresentare una trappola, e certamente costituisce una sfida per l’ordine internazionale liberale cesellato dall’Occidente dopo la seconda guerra mondiale. È un dilemma di cui deve tenere conto anche il nostro Paese, che è uno dei terminali della nuova via della Seta e che coltiva relazioni quanto mai cordiali con la Cina, come dimostrato dalla lunga visita alcuni mesi fa del presidente Mattarella.

Di queste ed altre cose abbiamo parlato con il senatore Alessandro Maran, membro delle commissioni Affari Costituzionali e Politiche europee di Palazzo Madama, nonché presidente dell’Istituto di cultura cinese di Roma. Nella lunga conversazione con Formiche.net, Maran entra nei dettagli di una parabola di potere, quella di Xi Jinping, che coincide con quella di un Paese sempre più influente negli affari globali, dei quali è ormai un attivo “stakeholder”, ma anche un fattore destabilizzante, almeno nell’ottica di chi, in Occidente, ha a cuore i valori della democrazia e del liberalismo e guarda con preoccupazione all’accrescimento della potenza militare della Cina, che quest’anno ha aperto la sua prima base militare all’estero, a Gibuti.

Senatore Maran, il 19mo Congresso del Pcc incoronerà il presidente Xi per i prossimi cinque anni, ma già si parla di una deroga alle convenzioni che limitano a dieci anni il mandato del segretario, con una proiezione di potere al 2027. Xi, il cui pensiero sarà probabilmente iscritto nella Costituzione cinese, si impone come il nuovo Mao. Chi è Xi e cosa rappresenta per la seconda potenza mondiale?

Dai tempi di Deng Xiaoping (e forse dai tempi di Mao Zedong), nessun leader cinese ha mai inaugurato un Congresso nazionale con un così grande potere. Al punto che il diciannovesimo Congresso del Partito comunista cinese è più una incoronazione che una transizione istituzionale verso il secondo mandato. Potrebbe essere definito il Congresso di Xi. Da quando ha preso le redini del partito, Xi Jinping ha infatti accumulato un considerevole potere (è già stato soprannominato “il presidente di tutto”) e ci si aspetta che all’appuntamento congressuale, consolidi ulteriormente il proprio ruolo. L’idea che il sessantaquattrenne Xi si ritiri tranquillamente tra cinque anni mi sembra molto remota. Se otterrà dal Congresso la “canonizzazione ideologica” che lo pone allo stesso livello di Mao, sarà un chiaro segno che Xi vestirà i panni di Vladimir Putin e cercherà il prolungare il suo mandato oltre i limite del 2022. Specie se nessuno dei membri under 55 del Politburo emergerà come un suo possibile successore. Ma la concentrazione del potere nelle sue mani ha consentito a Xi di prendere decisioni impensabili per i suoi predecessori. Come Xi, anche altri leader, ad esempio, hanno riconosciuto che l’acerbo capitalismo cinese ha lasciato molte persone alle prese con un vuoto spirituale; e anche loro, hanno riconosciuto che la cultura e le credenze tradizionali hanno un ruolo nei fornire alla gente un sistema di valori. Ma Xi ha abbracciato la tradizione come nessun altro leader da quando l’ultimo imperatore ha abdicato nel 1912. La sua amministrazione ha sostenuto quasi tutte le forme della tradizione cinese, naturalmente nella misura in cui è utile al partito.

Uno degli slogan preferiti di Xi è “sogno cinese”, che non coincide affatto con quello americano. Come lo si potrebbe caratterizzare?

Come ha detto il segretario del partito aprendo il Congresso, la Cina progetta di diventare una società “moderatamente prospera” per il 2020, un paese socialista moderno per il 2035 ed un paese potente per il 2050. Molte delle realizzazioni di Xi e dei suoi piani per il futuro sono puntellati da una visione ideale: il declino della Cina che dura da 200 anni sta per finire, e la sua missione è quella di guidare una Cina severamente disciplinata di nuovo al centro della scena mondiale. Insomma, mentre Mao ha promosso la lotta di classe e Deng Xiaoping ha abbracciato un capitalismo pragmatico, la visione di Xi del ruolo del partito è centrata sul ripristino della grandezza della Cina, quella che chiama il “sogno cinese”, e attinge sia alla fervente dedizione dell’era di Mao, sia alle glorie della cultura tradizionale cinese che Mao ha cercato di distruggere. In pratica, si è tradotto in una campagna per imporre una più stretta disciplina nei ranghi del partito e repressione politica al di fuori del partito, compresa una più rigida censura sui media, inclusa Internet. Per gli stranieri, questo significa abituarsi ad una Cina più forte e più assertiva (ed anche più fragile) del passato. Se Xi avrà successo, la sua Cina potrebbe diventare un modello per i regimi autoritari “digitali” in giro per il mondo. Il suo fallimento potrebbe portare a riconsiderare se sia saggio cercare di condurre, a tappe forzate, un paese verso la modernità.

Nel suo discorso al congresso del Pcc, Xi ha parlato della Cina come di una “potenza mondiale”, che deve comportarsi come tale. Che ruolo nello specifico può ritagliarsi la Cina nel sistema internazionale, tenendo soprattutto conto del presunto ritiro dell’America di Trump dall’agone? Si consideri in questo senso che il mondo sembra guardare con speranza al ruolo di Pechino come campione della globalizzazione, come dimostra l’attenzione riservata al discorso di Xi a Davos lo scorso gennaio. 

Il nuovo ruolo della Cina nella politica estera è difficile da eludere. Per decenni, Washington ha sollecitato la Cina a partecipare di più alle cose del mondo. Di solito, questo voleva dire chiedere alla Cina di aiutare a risolvere le crisi internazionali, e diventare uno “stakeholder”, nel gergo della politica estera. Una nozione che in molti in Cina vedevano come la richiesta di unirsi all’ordine disegnato dagli Usa. Ma ora, dopo anni in cui ha giocato un ruolo passivo negli affari mondiali, la Cina ha assunto un approccio più energico. Nello spazio vicino si è mossa aggressivamente per rafforzare le proprie rivendicazioni (storicamente dubbie) sulle acque internazionali e su isole lontane dalle sue coste ed ha cominciato ad attrarre nella sua orbita i piccoli paesi della sua periferia attraverso un ambizioso piano infrastrutturale denominato “One Belt, One Road Initiative”, puntellando i regimi che si stanno allontanando dalla democrazia in Thailandia, Birmania, Cambogia. In questo modo, la Cina sta diventando rapidamente l’impero commerciale più esteso al mondo. Per capirci, il piano Marshall, dopo la seconda guerra mondiale, ha fornito l’equivalente di 800 miliardi di dollari (attuali) in fondi per la ricostruzione dell’Europa. Ora la portata della “Belt and Road Initiative” è sbalorditiva. Le stime variano, ma più di 300 miliardi di dollari sono già stati spesi e la Cina programma di spendere altri 1.000 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni. Un esempio: la città pakistana di Gwadar non era che uno sperduto villaggio di pescatori. Ora è uno dei pezzi forti della “Belt and Road Initiative” e Cina e Pakistan vogliono farla diventare una nuova Dubai in grado di ospitare 2 milioni di persone. Inoltre, già nel 2015 la Cina è diventata il più importante partner commerciale di 92 paesi (gli Stati Uniti lo sono di 52). E quel che più impressiona è la velocità con la quale ha raggiunto questi risultati. Negli anni ‘80 e ‘90 la Cina era il principale destinatario dei prestiti della Word Bank e della Asia Development Bank. Ora la Cina presta da sola ai paesi in via di sviluppo più di quanto riesca a fare la World Bank. Se la spinta geopolitica della Cina dovesse continuare, avrà un profondo impatto sul mondo, e non necessariamente negativo. Visto che l’Occidente non ha 1.000 miliardi da dedicare alle infrastrutture dei paesi in via di sviluppo in un nuovo “grande gioco”, la scelta più sensata potrebbe essere proprio quella di “cooptare” e “modellare” questo gigante. Se la “One Road, One Belt Initiative” avrà successo, la logistica correrà più veloce e paesi che erano tagliati fuori dai mercati mondiali saranno capaci di commerciare di più. Il che potrebbe ridurre i conflitti tra Stati. Il presidente Xi ha infatti ripetuto, nel corso delle sue visite negli Stati Uniti nel 2015 e nel 2017, e anche a Davos, che la Cina vuole un sistema internazionale più equo, ma non vuole distruggere l’ordine internazionale. E il mondo avrà solo da guadagnare se incoraggerà la Cina ad accrescere la tutela del lavoro, dei diritti umani e gli standard ambientali dei loro progetti.

Secondo le stime di Bloomberg, la Cina quest’anno crescerà del 6,4%, il livello più basso dell’ultimo quarto di secolo, e le proiezioni dei prossimi due anni sono ancora più basse. Come reagirà il Partito, considerando che la crescita economica è l’ingrediente essenziale del suo patto coi cittadini perché rimanga in piedi il Moloch dello stato autoritario? 

Senza dubbio il futuro sarà caratterizzato da una crescita economica più modesta. I leader della Cina vogliono i benefici di una economia moderna, ma non sono disposti a creare uno dei prerequisiti: una società più aperta. Certo, una più aggressiva politica estera potrebbe fornire loro una nuova sorgente di legittimazione politica, mettendo però a rischio le opportunità di commercio e di investimento. Il modo in cui i leader cinesi gestiranno questo dilemma sarà la cosa più importante per la Cina e per il mondo dei prossimi anni. Nel suo discorso Xi si è ripetutamente riferito alle tensioni sociali che originano dalla disuguaglianza economica, dall’inquinamento, dall’inadeguato accesso alla sanità, alla scuola e alle abitazioni. I leader del partito sono consapevoli del pericolo, e Xi in modo particolare, ma per lui questa linea dura, questo stile centralizzato di governo è la soluzione al problema e deve essere consolidato. Lo scenario trionfante del Congresso non deve trarre in inganno: Xi resta guidato dalla paura che il governo comunista possa collassare in Cina così come è accaduto in Unione Sovietica, a meno che il partito non riesca a mantenere un saldo controllo su una società sempre più ricca e più diversa, che ora comprende più di un terzo dei miliardari del mondo. Per fare questo, Xi ha stretto il controllo sui possibili centri alternativi di potere, compresi quelli dei miliardari e dei loro affari, Internet, le forze armate, e le altre articolazioni del potere statale e gli altri 89 milioni di iscritti al partito. Infatti, il discorso di apertura di mercoledì mattina è suonato come un severo monito rivolto al partito: non si può abbassare la guardia. Trattare lo sviluppo e la sicurezza insieme, restando vigili in tempo di pace, resta un punto fermo. E quando Xi si riferisce alla necessità di riforme, queste non hanno niente a che vedere con le precedenti liberalizzazioni economiche che Deng e gli altri leader hanno approvato negli anni ‘80 e ‘90. Allora il partito aveva abbracciato le forze di mercato e il capitalismo, ritirandosi da molti settori dell’economia. La “riforma” di Xi va nella direzione opposta: accrescere il controllo del partito.

Parafrasando Graham Allison, Cina e Stati Uniti sono destinati allo scontro militare? Come evitare la trappola di Tucidide? 

Per dirla con Shakespeare, “non è nelle stelle che è conservato il nostro destino, ma in noi stessi”. Pochissimo nella storia è inevitabile. E a fare la differenza (e la storia) sono le scelte dei governi, delle organizzazioni e della gente. Lo stesso Allison, nel suo libro, sostiene che i leader americani dovrebbero concentrarsi su quattro idee centrali: chiarire i loro interessi vitali, comprendere che cosa la Cina sta cercando di fare, darsi una strategia e fare delle sfide interne il punto centrale. Anche la Cina, infatti, ha un sacco di problemi interni. La tecnologia sta rendendo il suo sistema di governo obsoleto. E non c’è modo per burocrati di Pechino di “governare” i giovani con gli smartphone delle metropoli. C’è chi, ad esempio, identifica un insieme di handicap che la Cina non riuscirà a superare facilmente: l’assenza dello stato di diritto, il controllo eccessivo dal centro, abitudini culturali che limitano l’immaginazione e la creatività, un linguaggio che forma il pensiero attraverso epigrammi e 4.000 anni di testi che suggeriscono che ogni cosa che vale la pena dire è stata già detta e, ovviamente, detta meglio, dagli scrittori precedenti (ne sappiamo qualcosa), e l’incapacità di attrarre ed assimilare i talenti che provengono da altre società del mondo. E forse, un leader forte e il nazionalismo centrato sul recupero dei valori (e delle virtù) tradizionali di Xi, potrebbe aiutare a restaurare l’integrità del “sistema operativo” cinese sfiancato dal materialismo. E per estendere la metafora digitale, entrambi i rivali dovrebbero riconsiderare l’idoneità delle loro app per il 21º secolo.

Il mondo guarda con speranza e preoccupazione al ruolo cinese nella crisi nucleare coreana. La Cina eserciterà la massima pressione su Pyongyang? O manterrà una posizione ambigua e riluttante, considerata anche l’indesiderabilità ai suoi occhi dello scenario di una caduta del regime di Kim e di una possibile riunificazione della penisola coreana? 

Il governo della Corea del Nord è certamente un vassallo di Pechino, ma è un vassallo scomodo per i cinesi, che spesso esce dal seminato e assume posizioni difficili da gestire. Ma Pechino ha ancora interessi a mantenerlo in piedi. Come spiega proprio su Formiche.net il generale Camporini, uno dei timori che i cinesi hanno è un collasso incontrollato del regime, che metterebbe 26 milioni di disperati nella posizione di chiedere rifugio appena oltre confine, creando una destabilizzazione all’interno della regione meridionale cinese. Ma rispetto al passato qualcosa è cambiato. Vedremo.

Come sono oggi i rapporti tra Italia e Cina? Quale il ruolo del nostro paese nella proiezione economica di Pechino, anche in funzione della One Belt, One Road Initiative?

Gli investimenti cinesi sul territorio italiano sono aumentati considerevolmente negli ultimi anni, in concomitanza con il lancio della nuova Via della Seta. L’Italia resta, infatti, uno dei terminali più significativi della proiezione cinese verso la regione euro-mediterranea, un orizzonte strategico per Pechino sia in chiave politica, sia in termini economico-commerciali e di sicurezza (anzitutto energetica), anche alla luce possibili aggiustamenti della politica commerciale americana in senso protezionista. E sarebbe il caso di approfittarne. Anche perché, come sostiene Parag Khanna, stiamo costruendo un nuovo ordine mondiale che muove da una struttura territoriale ad una relazionale caratterizzata dalla connettività. E, appunto, “la competizione per la connettività sarà la corsa agli armamenti del XXI secolo”.

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Democratica, 27 settembre 2017 – La Cina si avvicina, ed è positivo

Pechino segue una linea opposta a quella di Donald Trump

Non è un mistero per nessuno che il progresso della Cina ha avuto e continuerà ad avere un impatto formidabile sul resto del mondo; e va da sé che la comunità internazionale è sempre più interessata a conoscere quali cambiamenti avverranno in Cina e quale sarà l’influenza che la Cina eserciterà sul resto del mondo.

Per dirla con le parole di Xi Jinping, “la Cina ha bisogno di conoscere meglio il mondo ed il mondo ha bisogno di conoscere meglio la Cina». Capire la Cina è di enorme importanza. Anche per il nostro Paese. Specie se si considera che l’Italia resta uno dei terminali più significativi della proiezione cinese verso la regione euro-mediterranea, un orizzonte strategico per Pechino sia in chiave politica, sia in termini economico-commerciali e di sicurezza (anzitutto energetica), anche alla luce possibili aggiustamenti della politica commerciale americana in senso protezionista.

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stradeonline.it, 25 Settembre 2017 – IL ‘PROBLEMA REFERENDUM’ E IL RITORNO DEL FEDERALISMO

Una delle componenti del pensiero federalista è sempre stata la ricerca di spazi di autonomia e libertà per i cittadini attraverso forme di contenimento e di distribuzione articolata del potere pubblico. Il compito di riportare lattenzione sul federalismo come progetto riformista (e cioè su pochi principi guida: responsabilità, flessibilità-adattabilità, autonomia fiscale, funzionalità) spetta a chi, nonostante tutto, si ostina a credere sulla sua utilità per l’intero Paese.

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Messaggero Veneto, 13 settembre 2017 – La presidente se ne va a Roma ma non faccia come il Re d’Italia

l’intervento
DI ALESSANDRO MARAN
Leggo che, com’è naturale, il gruppo dirigente regionale del Pd stia ragionando sul da farsi, ma bisogna partire da un punto fermo: c’è l’elezione diretta del presidente. Il che implica alcune cose. Prima della riforma del ’93, nei Comuni e dell’elezione diretta del presidente in Regione, il mandato amministrativo rappresentava una sorta di intermezzo tra una crisi e un’altra. Oggi i cittadini scelgono col voto un leader e la sua maggioranza. Abbiamo dato, per così dire, «un volto alla democrazia». Il presidente è dunque la figura su cui si concentra la responsabilità politica. E, di norma, si ricandida. Ora, non è un mistero per nessuno che Serracchiani se ne voglia andare. Il punto è come. Non può semplicemente dire me ne vado, vedetevela voi. Si tratta di evitare la fuga precipitosa alla volta di Brindisi da parte del Re, del Governo e dei vertici militari. E bisogna evitare che nel Pd si continui ancora ad “aspettare Godot” (e non si sa neppure chi sia, Godot).Lo stato d’attesa in cui il Pd sembra precipitato da mesi, si tradurrebbe, per restare a Beckett, in una rappresentazione dell’assurdo. L’elezione diretta, poi, ha altre implicazioni. La Regione è una sorta di grande collegio uninominale. E gli elettori scelgono il governo con il loro voto. Dunque, le alleanze si fanno prima del voto e non dopo. E l’ampiezza (e, ovviamente, la qualità) dell’alleanza è decisiva. Anche perché si vince al primo turno. Qui però ci sono due problemi. Il Pd, alle amministrative, ha mostrato una capacità coalizionale molto scarsa. Al contrario del centrodestra.Seconda questione. Il «centro» di Alfano in Friuli sta con il centrodestra. Ma com’è possibile? Alfano governa con la sinistra da 5 anni e se si guarda la cosa dal livello nazionale, verrebbe da chiedersi: alle posizioni della sinistra riformista risulta più affine Alfano o Mdp? Messa in termini politici generali: perché sarebbe “naturale” allearsi con chi ha promosso una scissione solo due mesi fa e “innaturale” allearsi con un partito di centro che sostiene lealmente il Governo da 5 anni? Terzo punto. Con l’elezione diretta, il candidato è il programma. Debora è stata un candidato “populista”. Il populismo non ha solo un’accezione negativa.Da sempre, si propone di “rigenerare” la democrazia, per tornare ai “veri” principi e valori. Serracchiani è stata scelta, fin dalle Europee, per incanalare il diffuso malcontento contro il gruppo dirigente del Pd. Un candidato radicale, antiberlusconiano che incarnava la voglia di cambiamento riassunta nello slogan della “rottamazione”. Era il frutto di quella stagione. Ma se Debora se ne va, se ne va anche quella formula. Che peraltro è ormai esaurita. O si pensa a una riedizione del Pd bersaniano senza Bersani? Ma sostituirla con un candidato “riformista” (senza peraltro lo stesso appeal televisivo) ha una serie di implicazioni che riguardano il «frame», come dicono gli americani, cioè la confezione, e ovviamente il profilo, l’alleanza, le necessarie discontinuità.
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www.formiche.net, 9 settembre 2017 – Vi racconto l’essenza dello scontro nella sinistra su Minniti, ong e migranti

L’intervento di Alessandro Maran, senatore del Partito democratico

 

In Italia (come dappertutto e non da oggi) ci sono due sinistre, una riformista (e probabilmente minoritaria), l’altra passatista (e probabilmente maggioritaria), si sa. Anzi, per usare la bella espressione di Loris Zanatta “hay diferentes tipos de izquierdas: la hay reformista y redentiva”. Non per caso, Gianfranco Carbone osserva: “Lo scontro fra Minniti e la sinistra antagonista mi ricordano la contrapposizione fra gli spatachisti e il ministro socialdemocratico Noske nella Repubblica di Weimar“.

Tanto per capirci, non è vero che la sinistra (tutta la sinistra) sull’immigrazione sia cieca; che non voglia vedere il problema (e quindi non lo veda); che le posizioni di Minniti di contrasto al disordine migratorio e la tesi, contenuta nel libro Avanti, di mettere un numero chiuso agli ingressi dei migranti e di “aiutarli a casa loro” siano una novità assoluta; che la sinistra (tutta la sinistra) abbia un approccio ideologico sul tema dell’immigrazione. Anche su questo tema, nella cultura della sinistra ci sono (nettamente distinte, anzi contrapposte) due anime. E non è un caso che dopo un lungo silenzio riemerga Gino Strada, medico e fondatore, con la moglie, di Emergency, e accusi Minniti di avere una biografia da sbirro. Solo per aver riportato un po’ di ordine nel caos delle Ong e degli sbarchi.

Sarà che sto invecchiando e che mi tornano in mente un sacco di cose, ma ricordo bene lo scontro che andò in scena all’Assemblea Nazionale del Partito Democratico che si svolse l’8 e 9 ottobre 2010 in provincia di Varese, a Malpensa Fiere a Busto Arsizio.

Tanto per la cronaca, all’Assemblea nazionale di Varese, avevo messo a punto e avevamo poi presentato un documento sull’immigrazione che, per usare le parole del Corriere della Sera, “non ricalca le parole d’ordine care alla sinistra, ma affronta il problema in maniera del tutto inedita per una forza politica come il Pd“. L’articolo di Maria Teresa Meli del 9 ottobre 2010 ne riassume i contenuti. Avevo illustrato la questione in un articolo sul Foglio e in una intervista (di poche battute) su l’Unità ed ero tornato sull’argomento ancora su Unità. Da qualche parte devo avere anche il documento integrale.

“Oggi – concludeva Maria Teresa Meli – dopo una nottata di trattative in un’apposita commissione di lavoro, si saprà se il gruppo dirigente del Pd è disposto ad accettare la sfida sull’immigrazione lanciatagli dalla minoranza di Veltroni (tanto più che il documento è piaciuto anche a una parte della maggioranza interna e a una fetta degli amministratori locali del Nord), o se preferirà attestarsi sul documento elaborato da Livia Turco, in linea con i temi e gli slogan tradizionali della sinistra”.

Sappiamo come è andata a finire. Ma sappiamo anche che non bisogna mai disperare: dai e dai…

 

(Tratto dal profilo Facebook di Alessandro Maran)

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GIORNALI2017

Messaggero Veneto, 2 agosto 2017- L’ACCORDO ECONOMICO CON IL CANADA È UN PILASTRO DELLA POLITICA EUROPEA

Sul trattato di libero scambio con il Canada (Ceta) è in atto una gigantesca campagna di falsificazione. Il punto al centro delle contestazioni è il settore agroalimentare, con obiezioni surreali e spesso completamente false (invasioni di multinazionali, pesticidi, carne agli ormoni e Ogm, eccetera). Non è vero, ad esempio, che l’accordo potrebbe consentire la vendita in Italia di prodotti alterati con sostanze chimiche proibite da tempo nell’Unione europea: il testo non incide sulle restrizioni vigenti in Europa, in particolare sulla carne agli ormoni o sugli Ogm, e tali divieti, continueranno ad essere in vigore. Eppure, gli elementi positivi per il nostro settore agroalimentare sono tanti (non per caso Confagricoltura e i Consorzi degli Igp si sono espressi a favore) e il Ceta apre grandissime opportunità, finora precluse, proprio ai prodotti di qualità del made in Italy. Vengono abbattuti, ad esempio, i dazi (fino a 7 centesimi al litro) sul vino, che da solo vale 300 milioni di euro, la principale voce dell’export agroalimentare. Ma ci sono novità importanti anche sul fronte della tutela delle indicazioni geografiche. I detrattori del Ceta sostengono che non vengono tutelati i prodotti tipici, ma non è vero. Anzi, l’assenza di ogni tutela è la condizione attuale, mentre il Ceta, al contrario, riconosce 143 certificazioni tipiche europee, di cui 41 italiane. Certo, non sono tutte, e quelle che rimangono fuori potrebbero essere teoricamente imitate. Ma va detto che in Italia l’80 per cento della produzione e oltre il 90 per cento dell’export agroalimentare Dop/Igp sono composti da 10 prodotti, tutti tutelati dal Ceta. Inoltre, l’accordo non si occupa solo di agricoltura ma anche di commercio, edilizia, industria. E non sarebbe male tenere a mente che l’Italia è una potenza manifatturiera con un settore dei servizi molto sviluppato, come ogni economia avanzata. L’interscambio commerciale bilaterale è in costante crescita e nel 2015 l’Italia è stata l’ottavo maggior paese fornitore con esportazioni verso il Canada per oltre 5 miliardi di euro. E non esportiamo lenticchie e patate, ma macchinari, automobili, navi, aerei, piastrelle, calzature, farmaci, mobili, rubinetti, valvole, pompe e compressori. Il Ceta liberalizza il mercato delle merci con un abbattimento del 99 per cento dei dazi, offrendo quindi enormi possibilità di espansione all’industria manifatturiera italiana e prevede anche un’ampia liberalizzazione dei servizi finanziari e postali, dei servizi marittimi, delle telecomunicazioni e dell’e-commerce, oltre al reciproco riconoscimento delle qualifiche professionali e all’apertura nel campo degli appalti pubblici. E l’Italia esporta verso il Canada anche 1,4 miliardi di euro di servizi: assicurazioni, telecomunicazioni, ingegneria, ecc. Insomma, i vantaggi economici di un trattato di libero scambio con il Canada (l’undicesima economia del mondo) sono indiscutibili, e ovviamente aumentare l’interscambio e le esportazioni vuol dire rafforzare le imprese che si internazionalizzano e creare nuovi posti di lavoro e meglio remunerati. Ma c’è di più. Gli accordi di libero scambio non sono mai solo una questione economica. Sono anzitutto uno strumento diplomatico: un modo per consolidare vecchie alleanze e forgiarne di nuove. Quando gli attuali focolai di crisi saranno solo un ricordo, il fenomeno più importante del nostro tempo rimarrà l’ascesa dell’Asia. E i negoziati in corso sono forse l’ultima grande occasione politica per l’Occidente per riuscire a influenzare in modo determinante regole e principi di funzionamento dell’economia globale. Il Ceta è, infatti, un tassello di quell’enorme mosaico di trattati in materia economica che si sta organizzando, sempre più, in macro-aree regionali; e quella di siglare ampi trattati regionali è una scelta che permette di governare proprio gli squilibri e le perdite di benessere e competitività che una politica globale rischia di comportare. Insomma, si sta ridisegnando l’ordine mondiale e il mondo sta andando verso la formazione di blocchi regionali che svolgeranno il ruolo degli Stati nel sistema vestafaliano (motivo in più per spingere l’Europa a unirsi sul serio). L’accordo commerciale con il Canada è pertanto un pilastro fondamentale della politica europea. Si tratta, infatti, di un “trattato di nuova generazione” che definisce in modo onnicomprensivo e dettagliato i rapporti economici tra Ue e Canada e regola sia le barriere al commercio che gli investimenti esteri. Questo tipo di accordi bilaterali a carattere preferenziale si è sviluppato proprio come “risposta” alla paralisi della strategia multilaterale del commercio internazionale perseguita fin dal secondo dopoguerra (che è stata per decenni uno dei motori principali di crescita e di progresso sia nei paesi sviluppati che in quelli emergenti) e alla necessità di accordare agli investitori stranieri diversi e più estesi meccanismi di protezione (infatti, è profondamente innovativo anche dal punto di vista della tutela giurisdizionale dei diritti fissati dal trattato). La contrapposizione sul Ceta è qualcosa di più dello scontro sul contenuto di un accordo commerciale, è una battaglia culturale sull’idea di sviluppo del paese e sulla sua collocazione nel mondo.Alessandro Maran

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GIORNALI2017

www.stradeonline.it, 17 luglio 2017 – Europa, è il momento di unire le forze

Strade, Luglio/agosto 2017 / Monografica

Un’America sempre più incerta e schizofrenica, una Cina che non sembra avere molta voglia di rilevare la carica di “gendarme del mondo”, un contesto sempre più multipolare: ora è il momento, per l’Europa, di accreditarsi nel campo della difesa come vera potenza regionale. Ecco quel che si è fatto e quel che resta ancora da fare.

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