Torno, all’indomani del primo dibattito presidenziale (nel quale, sotto ogni punto di vista, Hillary Clinton ha sbaragliato Donald Trump), sul discorso (l’ultimo) che il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha tenuto, la scorsa settimana, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York.
Ci torno per diverse ragioni. È stato, anzitutto, uno dei suoi discorsi migliori sulla politica mondiale. Inoltre, come sappiamo, l’8 novembre negli Stati Uniti si sceglierà il suo successore. Ma le scelte che stanno di fronte agli Stati Uniti non sono diverse dalle scelte che stanno di fronte al mondo. A tutti noi. Come ha detto Obama, «tutti noi affrontiamo una scelta in questo momento. Possiamo scegliere di proseguire con un modello migliore di cooperazione e di integrazione. O ci possiamo ritirare in un mondo diviso nettamente e alla fine in conflitto lungo le linee annose della nazione e della tribù e della razza e della religione. E vi dico oggi che dobbiamo andare avanti e non tornare indietro». Torno, infine, sul discorso del presidente Obama perché fare le scelte sbagliate – o non avere neppure riconosciuto la natura delle scelte che stanno di fronte a noi – può avere conseguenze catastrofiche.
Sono ormai passati 27 anni dalla caduta del Muro di Berlino. È da allora che sono venute meno le ragioni del bicameralismo ripetitivo voluto dai Costituenti, in un processo segnato, più che negli altri Paesi, dalla Guerra fredda. Fu voluto dalla Costituente, infatti, un sistema di Governo debole perché nessuno schieramento politico potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere tagliato fuori del tutto dal Governo; e un Parlamento lento e ripetitivo sarebbe stato un freno utile a sfiancare qualunque maggioranza uscita dalle urne.
Sono ormai passati 27 anni dalla caduta del Muro di Berlino. È da allora che sono venute meno le ragioni del bicameralismo ripetitivo voluto dai Costituenti, in un processo segnato, più che negli altri Paesi, dalla Guerra fredda. Fu voluto dalla Costituente, infatti, un sistema di Governo debole perché nessuno schieramento politico potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere tagliato fuori del tutto dal Governo; e un Parlamento lento e ripetitivo sarebbe stato un freno utile a sfiancare qualunque maggioranza uscita dalle urne. Difatti, la presenza di due Camere che fanno esattamente le stesse cose non ha eguali in altre democrazie parlamentari. Come dimostrano i lavori della Commissione di esperti del Governo Letta, è quasi impossibile trovare argomenti a difesa dello status quo. Ma per i critici della riforma, una seconda Camera eletta dai Consigli regionali e non dai cittadini sarebbe un’istituzione non democratica; eppure in Europa quella dell’elettività diretta non è affatto una regola ma tutto l’opposto: la maggioranza dei Paesi dell’Unione (15 su 28) non hanno una seconda Camera; tra i 13 che hanno una seconda Camera solo in cinque Paesi i suoi membri sono direttamente eletti dai cittadini e tra questi cinque Paesi solo in Italia, Polonia e Romania la seconda Camera ha dei poteri rilevanti e solo in Italia il Senato ha gli stessi poteri della Camera. La combinazione di premio di maggioranza e Senato non elettivo sarebbe poi un attentato alla democrazia, come se solo una Camera eletta con un sistema proporzionale fosse compatibile con un Senato non eletto direttamente dal popolo. Con questo metro di giudizio il Regno Unito sarebbe un sistema ben poco democratico: Toni Blair ha vinto il suo terzo mandato con il 35 per cento dei voti e con questa percentuale il Labour ha ottenuto il 55 per cento dei seggi. La stessa cosa in Francia, dove, con il 29 per cento dei voti ottenuti al primo turno, il partito socialista di Hollande ha conquistato il 53 per cento dei seggi. Le soluzioni individuate dal Parlamento per il Senato delle Autonomie possono non piacere, ma perché mai innalzare Regioni e governi locali al piano delle istituzioni parlamentari sarebbe inadeguato e perfino sacrilego? Si tratta di autorità democratiche elette dai cittadini e dall’azione di Regioni e Comuni dipende la gran parte dell’erogazione dei servizi sociali, dell’attuazione delle leggi, delle politiche statali, della spesa pubblica. Inoltre, proprio la mancanza del luogo parlamentare di coordinamento tra la legislazione dello Stato e la sua attuazione nei territori, è il principale punto critico della riforma del Titolo V che, nel 2001, ha modificato la parte della Costituzione che regola i rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali. Certo, non basta riformare la Costituzione per risolvere i nostri problemi. E il Governo deve affrontare la riforma della giustizia e della burocrazia, con la stessa determinazione con la quale ha affrontato la riforma del Senato. Ma non c’è da una parte la democrazia e dall’altra un tentativo autoritario. Sono a confronto due concezioni della democrazia: l’una è assembleare, fondata sulla cosiddetta centralità del Parlamento; l’altra è fondata sulla responsabilità degli esecutivi. Con i due referendum del 1991 e del 1993 abbiamo messo in discussione il proporzionalismo e le forme assembleari del nostro Parlamento. È da allora che abbiamo superato la democrazia consociativa per affermare un modello di democrazia governante. È da allora che è iniziata una transizione che, a 27 anni dal crollo del Muro di Berlino, è tempo di portare a compimento.