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GIORNALI2016

Formiche.net, 28 maggio 2016 – Perché difendo la riforma Renzi-Boschi della Costituzione

L’intervento di Alessandro Maran, senatore del Partito Democratico

Giorgio Napolitano, ospite domenica scorsa della trasmissione di Rai3 Che tempo che fa, è tornato a ribadire la sua posizione: “Ci vuole libertà per tutti, ma nessuno però può dire: io difendo la Costituzione votando no e gli altri non lo fanno. Dire questo offende anche me. Mi reca un’offesa profonda“.

L’antifascismo e la guerra partigiana non hanno nulla a che vedere con la riforma del Senato. “Ed è allora comprensibile, persino ovvio – ha scritto Il Foglio – che l’antifascista Napolitano, che sul patriottismo costituzionale ha imperniato la sua presidenza della Repubblica, ora si senta insultato, offeso, lui che le riforme le ha sempre sostenute, e da molto prima che Renzi nascesse (non solo politicamente)“. Specie se si considera, come ha scritto Pietro Ichino nella lettera aperta che ha indirizzato al presidente dell’ANPI, Carlo Smuraglia, che “il contenuto essenziale di questa riforma – dipendenza del Governo dalla fiducia della sola Camera dei Deputati e Senato come rappresentanza delle Autonomie locali – è quello che da decenni è stato indicato come necessario da numerosi grandi personaggi che hanno dato vita e voce alla democrazia nel nostro Paese, da Berlinguer a Zaccagnini, da Zanone a Ingrao, da Iotti a Pannella: potrai sostenere che il modo in cui questo mutamento essenziale è stato concretato nella legge di riforma è imperfetto, ma non che proporlo sia intrinsecamente contrario agli intendimenti fondamentali e immutabili della Carta“.

Non per caso, Giorgio Napolitano, intervenendo alla Scuola di politiche di Enrico Letta, è tornato sul punto citando la testimonianza di Giuseppe Dossetti. La “sindrome dell’ipergarantismo” che animò Dc e Pci durante l’Assemblea costituente all’indomani della rottura tra i due partiti legata all’inizio della guerra fredda, ha spiegato il Presidente emerito della Repubblica, generò “le due debolezze fatali della seconda parte della Costituzione repubblicana: la posizione di minorità dell’esecutivo nell’equilibrio dei poteri” e “il bicameralismo paritario su cui si cominciò a discutere il giorno stesso in cui terminarono i lavori dell’Assembela costituente“. In pratica, in vista delle elezioni del 1948, “di fronte al timore di perdere quella sfida, presente tanto nella Democrazia cristiana, quanto nella sinistra (comunisti e socialisti), scattò la sindrome di quello che Dossetti chiamò l’ipergarantismo. Sapendo che può vincere anche l’altro, bisogna garantirsi il più possibile che non abbia la possibilità di fare danni irreparabili“. La preoccupazione fu dunque quella di “garantirsi che non si determinassero situazioni in cui il vincitore potesse con poche cautele, con poche garanzie, esercitare il potere che gli avrebbe garantito il risultato elettorale“.

Nella dichiarazione di voto finale che ho svolto in aula al Senato nella seduta del 8 agosto 2014  ero partito, appunto, da qui: “È dalla scomparsa della divisione del mondo in due blocchi che il Muro ha simboleggiato – dunque, da almeno venticinque anni – che sono venute meno le ragioni del bicameralismo ripetitivo voluto dai Costituenti, in un processo segnato, più che negli altri Paesi, dalla Guerra fredda. Non è un mistero per nessuno, infatti, che fu voluto dalla Costituente un sistema di Governo debole perché nessuno schieramento politico potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere tagliato fuori del tutto dal Governo; un Parlamento lento e ripetitivo sarebbe stato utile freno, volto espressamente a sfiancare qualunque maggioranza uscita dalle urne (…) e la presenza di due Camere investite degli stessi poteri di indirizzo politico e degli stessi poteri legislativi è la contraddizione più vistosa, che non ha eguali in altre democrazie parlamentari“.

Sul bicameralismo come strumento volutamente “di blocco” della decisione politica, rimando al volume “A colloquio con Dossetti e Lazzati” curato da Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, il Mulino editore. Rimando anche alle pagine del programma di governo del PDS del 1994 riapparse su Facebook in questi giorni con la nota: “Ringraziamo il governo Renzi per aver attuato in larga parte il programma di governo del PDS del 1994“. Tanto per ricordare.

Formiche.net, 28 maggio 2016

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Perché difendo la riforma Renzi-Boschi della Costituzione – Formiche.net, 28 maggio 2016

Formiche.net, 28 maggio 2016

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TANTO PER RICORDARE…

Giorgio Napolitano domenica sera, ospite della trasmissione di Rai3 Che tempo che fa, condotta da Fabio Fazio, è tornato a ribadire la sua posizione: «Ci vuole libertà per tutti, ma nessuno però può dire: io difendo la Costituzione votando no e gli altri non lo fanno». Dire questo «offende anche me. Mi reca un’offesa profonda» (Il video di Giorgio Napolitano a Che tempo che fa – Il Post).

L’antifascismo e la guerra partigiana non hanno nulla a che vedere con la riforma del Senato. «Ed è allora comprensibile, persino ovvio – ha scritto Il Foglio – che l’antifascista Napolitano, che sul patriottismo costituzionale ha imperniato la sua presidenza della Repubblica, ora si senta insultato, offeso, lui che le riforme le ha sempre sostenute, e da molto prima che Renzi nascesse (non solo politicamente)» (La giusta resistenza di Napolitano).

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Vince Van der Bellen, c’è da festeggiare. O forse no – LIBERTÀeguale Magazine, 25 maggio 2016

Alexander Van der Bellen, un professore di economia di 72 anni già leader dei verdi, in un testa a testa ricco di suspense, ha vinto le elezioni presidenziali austriache, sconfiggendo il suo rivale dell’estrema destra, Norbert Hofer, con un margine risicatissimo. Van der Bellen, il primo presidente verde della storia europea, ha vinto con il 50,3 per cento dei voti e Hofer ha ottenuto il 49,7 per cento: una differenza di circa 30mila voti.

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LIBERTÀeguale Magazine, 25 maggio 2016 – Vince Van der Bellen, c’è da festeggiare. O forse no

Alexander Van der Bellen, un professore di economia di 72 anni già leader dei verdi, in un testa a testa ricco di suspense, ha vinto le elezioni presidenziali austriache, sconfiggendo il suo rivale dell’estrema destra, Norbert Hofer, con un margine risicatissimo. Van der Bellen, il primo presidente verde della storia europea, ha vinto con il 50,3 per cento dei voti e Hofer ha ottenuto il 49,7 per cento: una differenza di circa 30mila voti.
C’è di che festeggiare. Il risultato ha scongiurato la prospettiva di un populista di estrema destra che diventa capo dello Stato in seguito ad un’elezione democratica e permette all’Unione europea di tirare “un sospiro di sollievo”, come ha detto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. L’Austria, una delle culle dell’estrema destra continentale, un paese in prima linea nella crisi dei profughi, ha votato un progressista, pro-rifugiati, figlio di immigrati estoni, al vertice dello Stato. E il candidato che ha fatto, di quella che ha definito “l’invasione musulmana”, la sua bandiera  nel corso della campagna elettorale, ha perso.

Eppure la vittoria di Van der Bellen è troppo risicata per tranquillizzare. Il risultato ha mostrato quanto l’Austria sia profondamente divisa e quanto le élite centriste che hanno governato il Paese dal 1945 siano cadute in disgrazia. La (quasi) metà esatta del paese, sia di destra che di sinistra, ha votato per un cosmopolita pro-immigrazione. E la (quasi) metà esatta  (trascendendo allo stesso modo il tradizionale discrimine tra destra e sinistra) ha votato per un nativista anti-immigrazione. L’Austria di oggi è un’istantanea del futuro politico dell’Europa. Un’Europa nella quale le differenze culturali tra città progressiste e aree rurali conservatrici spezzettano e mettono in discussione il vecchio asse destra-sinistra.

E’ facile puntare il dito su Bruxelles e Berlino per le oscillazioni nella gestione dei rifugiati che, inavvertitamente, hanno sospinto Hofer ad un’incollatura dalla presidenza del paese. E’ anche vero che il successo della FPÖ è parte di uno schema europeo. In Austria, Polonia, Germania, Paesi Bassi e Scandinavia, la crisi dei rifugiati, combinata agli attacchi terroristici degli estremisti islamici a Parigi e Bruxelles, sta spingendo gli elettori già a disagio con una prospettiva multiculturale verso i partiti dell’estrema destra che, cogliendo l’opportunità, hanno gettato alle ortiche le loro proposte più odiose, indossato il vestito buono e, nella maggior parte dei casi, rivolto un appello all’elettorato conservatore più soft. E non c’è dubbio che il margine molto risicato della vittoria riflette anche i grandi progressi nell’opinione corrente che l’estrema destra ha compiuto non solo in Austria, ma in gran parte dell’Europa – dalle confinanti Ungheria e Polonia, dove già dominano, alla Francia e alla Germania, dove i movimenti di estrema destra  vanno forte nei sondaggi in vista delle elezioni politiche del prossimo anno. In Gran Bretagna, gli elettori sono chiamati a decidere il mese prossimo se il loro paese rimarrà nell’Unione europea. E anche in quel voto questioni come gli immigrati e il rifiuto dell’unità europea e delle élite centriste del Continente, centrali nel voto austriaco, potrebbero imporsi come motivo dominante.

Tuttavia, il fatto che Hofer sia andato così vicino a diventare capo dello Stato ha anche (e specificatamente) a che fare con i partiti austriaci storici. Il centro-sinistra (SPÖ) ed il centro-destra (ÖVP) – che sono stati annientati al primo turno delle elezioni presidenziali del mese scorso, quando Hofer ha scioccato i rivali raccogliendo il 35,1 per cento – hanno dominato il paese per decenni e governato in coalizione. Il sistema consociativo nato dalle esigenze di governo consensuale, nei primi anni della  seconda Repubblica austriaca, denominato Proporz, attraverso il quale ciascuno sistemava i propri sostenitori, è clientelismo della peggior specie. Non solo SPÖ e ÖVP hanno creato le condizioni nelle quali Hofer (e Heinz-Christian Strache, il dinamico leader del FPÖ), potessero prosperare, ma hanno anche cercato di assecondare il FPÖ appena hanno cominciato a perdere terreno. Sul tema dei rifugiati, tanto per fare un esempio, il governo ha assunto posizioni contraddittorie, dapprima adottando una politica di accoglienza come ha fatto la Germania nel corso del 2015, per poi rivedere le proprie posizioni durante l’inverno, alla luce della crescita nei sondaggi del FPÖ e del consistente afflusso di migranti e richiedenti asilo, annunciando perfino nuovi controlli e recinzioni al passo del Brennero.

Nel suo primo discorso in neo eletto presidente ha messo in risalto il suo atteggiamento pro-europeo, accogliendo i reporter stranieri in inglese, e ha tuttavia promesso agli elettori di Hofer che le loro lamentele e le loro opinioni saranno prese in considerazione. “Abbiamo chiaramente un sacco di lavoro da fare” ha detto Van der Bellen. “Evidentemente, la gente non si sente considerata o ascoltata, o entrambe, a sufficienza”. Gli esperti dicono che Van der Bellen ha vinto le elezioni con il sostegno degli abitanti delle città – specialmente a Vienna, dove ha ottenuto il 61 per cento dei voti -, delle donne e delle persone più istruite. Ha promesso che cercherà di sanare le fratture che si sono aperte lungo queste ed altre linee mentre la “vecchia politica” ristagnava e si inaridiva. Con il piazzamento di Hofer, per la prima volta il Partito della Libertà (che ha le sue radici negli anni ’50, quando fu fondato da nazionalisti teutonici ed ex nazisti), ha ottenuto quasi il 50 per cento dei voti. E ovviamente bisognerà tenerne conto, proprio mentre l’Austria – un paese prospero di 8 milioni e mezzo di abitanti- lotta per trovare il suo posto in un mondo globalizzato e in un’Europa la cui unità è oggi in discussione.

Le turbolenze della globalizzazione e l’ondata di un milione di immigrati dello scorso anno (la maggior parte dei quali è passata attraverso l’Austria in rotta per la Germania e la Svezia) sono stati i temi centrali delle elezioni. Nonostante l’apparente e diffuso benessere dell’Austria, ha scritto Rainer Nowak, il direttore di Die Presse, il principale quotidiano del centrodestra, “la gente ha paura che le cose non andranno così bene ancora per molto”. Inoltre, ha aggiunto Nowak, “siamo diventati certamente una cultura appagata, che reprime o trascura le questioni vere, ed è riluttante semplicemente ad accettare il più piccolo compromesso quando si tratta di riforme o cambiamenti”. La sfiducia per chi sta al governo è cresciuta dappertutto, si sa. Una sfiducia che, secondo Der Spiegel, può essere riassunta in tre lamentele onnicomprensive: la globalizzazione ci ha asfaltato; nessuno ci ascolta; l’economia di mercato beneficia gli altri. Ma, scrive il settimanale tedesco, “il  FPÖ sta ad ascoltare ed è rapido ad offrire soluzioni semplici: chiudi la porta. Lascia fuori gli immigrati”. Perfino i cosiddetti gastarbeiter (i lavoratori immigrati) ed i loro discendenti lodano il FPÖ. “Sono troppi, vengono a frotte – racconta Alì allo Spiegel – e ottengono tutto facilmente mentre io ho dovuto lavorare duro per anni”. Ma sia la SPÖ che la ÖVP, prosegue il giornale, “hanno dovuto constatare che non serve a nulla ripetere a pappagallo quelle risposte. Quel che aiuta e che serve davvero è ascoltare gli elettori, anche quelli perduti, prendere seriamente le loro preoccupazioni e fornire le proprie risposte che sono più intelligenti di quelle che vengono dal FPÖ”.

Col voto di domenica “cambierà molto poco nel mondo reale” ha detto Charles Grant del Center for Europen Reform, un think tank di Londra. In ogni caso, ha detto, è stato chiaramente un voto di protesta, ora che “il libero scambio, gli immigrati e la globalizzazione sono sempre più impopolari” e “la disuguaglianza sta crescendo” in tutta Europa e negli Stati Uniti. Grant ha paragonato il risultato a quello del UKIP, che ha ricevuto quasi il 28 per cento alle elezioni europee nel 2014, ma solo il 12,6 per cento nelle elezioni inglesi dello scorso anno. La mancata vittoria di Hofer potrebbe restituire fiducia ai partiti tradizionali, incoraggiandoli  ad affrontare le necessarie riforme e a riconquistare il loro elettorato. Poi c’è l’Europa. In Francia, il quotidiano di centrodestra Le Figaro ha scritto lunedì che “i leader dell’Europa non dovrebbero essere troppo felici se Van der Bellen risparmia loro lo shock di un presidente anti-europeo a Vienna”.  Il risultato,  di stretta misura, contiene una lezione, ha aggiunto il quotidiano francese: “In tutto il continente, la gente esprime più o meno lo stesso rifiuto per un’Europa che manca sia di un progetto che di una testa”.

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«Fusione, riunire le forze è diventata una necessità» – Il Piccolo, 25 maggio 2016

Tra il 1990 e il 1992, Fantelli & Partners ha curato, per l’allora Direzione regionale per le Autonomie locali, una ricerca, poi pubblicata con il titolo: «Valutazione del territorio per la determinazione dei vincoli allo sviluppo socio-economico». «Questa analisi – concludevano in modo tranciante i ricercatori – dimostra che i comuni al di sotto dei 6000 abitanti non offrono oggettivamente condizioni operative tali da giustificare il costo di struttura». In altre parole, «i comuni che hanno una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti non sono strutturalmente in grado di erogare servizi oltre a quelli delegati dallo Stato.

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Il Piccolo, 25 maggio 2016 – Fusione, riunire le forze è diventata una necessità

L’INTERVENTO
di Alessandro Maran*
Tra il 1990 e il 1992, Fantelli & Partners ha curato, per l’allora Direzione regionale per le Autonomie locali, una ricerca, poi pubblicata con il titolo: “Valutazione del territorio per la determinazione dei vincoli allo sviluppo socio-economico”. “Questa analisi – concludevano in modo tranciante i ricercatori – dimostra che i comuni al di sotto dei 6000 abitanti non offrono oggettivamente condizioni operative tali da giustificare il costo di struttura”. In altre parole, “i comuni che hanno una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti non sono strutturalmente in grado di erogare servizi oltre a quelli delegati dallo Stato. Mentre per i comuni con popolazione tra i 5 e i 10.000 abitanti nonostante l’organico molti servizi non vengono correttamente erogati; ciò è dovuto per alcune funzioni e servizi, alla limitata capacità degli enti di interagire con il territorio. Si pensi ad esempio agli aspetti che riguardano lo sviluppo economico nel comune, alla gestione dell’ambiente (parchi, inquinamento, cultura ambientale, ecc.), in tutti due i casi le piccole dimensioni condizionano fortemente gli amministratori locali”. Le cose, da allora, non sono cambiate. E l’esigenza di “unire le forze”, già evidente più di vent’anni fa (basterebbe ricordare il progetto della Città Mandamento), è diventata più impellente. Dappertutto. In Italia, solo negli ultimi due anni, le fusioni di comuni sono state 31, per un totale di 74 comuni soppressi. E, per fare un esempio, la proposta di fusione di 58 comuni dell’Anfiteatro Morenico di Ivrea (dei quali solo tre superano i 5mila residenti) in un’unica realtà da 100 mila abitanti, viene riassunta così: “per uscire dalla crisi, occorre investire molto in innovazione e infrastrutture che generano occupazione. Occorre disporre quindi di istituzioni forti, in grado di gestire un piano di sviluppo di un’area sufficientemente grande in termini di cittadini, conoscenze e superficie (…) una gestione amministrativa forte e unitaria, capace di concepire, promuovere e realizzare un piano di sviluppo che possa attrarre investimenti nazionali ed europei in grado di rimettere in moto l’economia”. Infatti, comunque la si pensi, non c’è dubbio che il Progetto Città Comune consentirebbe di rendere più coerente la struttura amministrativa con i fenomeni socio-economici da governare. Gli effetti più rilevanti e certi della “fusione” (ed il principale vantaggio rispetto ad altre forme associative), sono proprio la maggior capacità strategica ed economie di gamma. Si tratta di maggior capacità nell’affrontare progetti e problemi complessi, di miglior utilizzo delle risorse complessivamente disponibili, di maggior capacità di rappresentanza locale presso i livelli superiori di governo. Aspetti che possono anche attrarre professionalità elevate e sviluppare leadership politiche più forti. Ne trarrebbe vantaggio anche la democrazia locale: nel caso di territori istituzionalmente frammentati, una maggior dimensione può portare ad una più chiara articolazione ed espressione degli interessi locali e pertanto ad una migliore considerazione degli stessi. Del resto, anche le identità territoriali mutano nel tempo, di pari passo con l’evoluzione dei sistemi insediativi, delle modalità della produzione e della tecnologia di comunicazione e trasporto. Buona parte delle divisioni amministrative storiche, proprio perché derivanti da un passato lontano, non hanno più senso ai fini dell’organizzazione dei servizi di uso quotidiano, in quanto non sono più coerenti con lo sviluppo socio-economico territoriale, con i bacini in cui la popolazione reale compie le scelte di localizzazione residenziale e di svolgimento delle attività di produzione e consumo. E proprio l’eccesso di frammentazione amministrativa rispetto ai fenomeni socio-economici da governare impone alla collettività dei costi, che si riflettono in una riduzione dei livelli di benessere presenti e futuri. Ma sono costi che, volendo, si possono evitare. *Senatore della Repubblica
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Strade-Il Magazine, 18 maggio 2016 – Populismo a stelle e strisce. Trump e Sanders, specchi dell’angoscia americana

di Alessandro Maran

Mentre democratici e repubblicani cambiano pelle e si assestano su nuove basi sociali e culturali, il vento antipolitico ha preso a spirare forte anche negli Stati Uniti. Il voto delle primarie fotografa un Paese diviso e smarrito, con un senso profondo di precarietà e insicurezza. Ma il fenomeno che ha investito la politica americana, accomunandola a quella europea, è un’eccezione o una nuova normalità?

Le primarie democratiche e repubblicane sono avviate alla conclusione e Hillary Clinton e Donald Trump, mentre Strade va in stampa, stanno per conquistare la maggioranza dei delegati necessari per la nomination. Resta da verificare come le spaccature profonde apertesi in entrambi i partiti possano essere ricomposte dai due candidati, che dalle primarie sono usciti vincenti ma non pienamente rappresentativi dei rispettivi elettorati.

A deep well of dissatisfaction

La campagna per le primarie, trasformata da Trump e da Sanders in una competizione anomala e radicale, ha rivelato “un pozzo profondo” di insoddisfazione, di sofferenza e di esasperazione tra gli elettori americani, nonostante i sette anni di ripresa economica sotto Obama. Un mix di precarietà esistenziale, paura del domani, impoverimento di massa, frustrazione politica indotta dalla sensazione di non avere voce in capitolo nelle decisioni che riguardano la propria vita, che alimenta il populismo. Non diversamente da quel che accade in Europa, sia chiaro.

Che Donald Trump abbia sfruttato lo scontento della “pancia” dell’elettorato americano, promettendo, a gente sfiduciata e ormai allergica alla politica, di rivoltare il paese come un calzino, non è un mistero per nessuno. Ma i supporter di Trump non sono gli unici a desiderare un grande ribaltone. Un sondaggio della Quinnipiac University del mese scorso ha squadernato quanto sia diffuso il malcontento e smisurato il “deep well of dissatisfaction”. (“The April 5 National Poll found deep dissatisfaction among U.S. voters”)

Stando all’inchiesta, la maggioranza degli elettori ritiene che il paese abbia “perso la sua identità”, che i suoi valori e le sue tradizioni siano “sotto attacco” e che i suoi leader “non siano interessati a quel che pensa la gente”. Questi sentimenti sono più forti tra gli elettori propensi a votare repubblicano che tra i democratici: un dato prevedibile in un anno elettorale divisivo, dopo otto anni di presidenza Obama. I sostenitori di Trump avvertono la minaccia più intensamente: l’85% ritiene che l’America sia un paese smarrito, mentre il 91% ritiene che i suoi principi fondamentali siano “presi di mira”.

Naturalmente, le cose cambiano in fretta. Nell’intervallo di tempo trascorso tra le rilevazioni e la loro diffusione, diversi avvenimenti stanno rimodellando la competizione: gli attentati a Bruxelles, il capitombolo di Trump sull’aborto e la politica estera, etc. Ma anche un’istantanea è comunque interessante in una stagione elettorale senza dubbio inconsueta. I dati possono, infatti, indicare tendenze elettorali più ampie.

Per capirci: il 2016 rappresenta una deviazione dalla norma, un’eccezione, o la nuova “normalità”? Ovviamente, le preoccupazioni economiche – al centro degli affanni degli elettori, sia repubblicani che democratici, che lamentano una ripresa troppo lenta dalla recessione – hanno alimentato l’ascesa sia di Trump che di Sanders. Non è un caso che entrambi promettano maggiore aiuto per quelli lasciati indietro e meno compromessi tra il processo politico e i “big-money interests”.

Secondo il sondaggio, il 57% degli americani ritiene di star “regredendo sempre di più dal punto di vista economico”. Lo pensa il 48% degli elettori democratici, il 67% degli elettori repubblicani ed il 78% dei sostenitori di Trump.

Va detto che, in America, tanto i benefici dello straordinario dinamismo dell’economia che i contraccolpi della crisi economica (di due guerre interminabili e, più in generale, dell’ “appiattimento” del mondo) si avvertono con una intensità sconosciuta a noi europei. E, per quanto Trump prometta di aumentare le barriere tariffarie per proteggere l’economia USA, non riuscirà a far rinascere la manifattura in America. Senza contare che non solo molti posti di lavoro dell’industria manifatturiera si sono spostati in Cina, ma anche l’industria della conoscenza ha esternalizzato parecchi servizi. Thomas Friedman ha descritto i fattori principali (grande disponibilità di fibra ottica, competenze adeguate, conoscenza dell’inglese) che hanno determinato, tanto per fare un esempio, l’attrattività dell’India per le aziende americane, che vi hanno trasferito la contabilità, lo sviluppo dei software, i servizi radiologici, ecc. Da un giorno all’altro.

Tra gli intervistati, inoltre, sono in molti a sospettare che non stiano soltanto regredendo loro, ma che “altri stiano ottenendo più aiuto di quanto meritino”. Il 72% dei repubblicani e il 18% dei democratici si dicono d’accordo con l’affermazione “il governo si è spinto troppo oltre nel sostenere i gruppi minoritari”. E tra i sostenitori di Trump l’adesione raggiunge l’80%. Va da sé che quest’alta percentuale di repubblicani non fa che confermare l’impressione di un partito che manca di apertura: dato che il GOP ha pubblicamente caldeggiato l’ingresso tra le sue fila di un numero maggiore di elettori delle minoranze, questo è un problema per un partito che di problemi ne ha già parecchi.

La soluzione? Il 64% degli intervistati invoca un “cambiamento radicale”. Il sostegno più forte viene dagli elettori di Trump e Sanders, che nella stragrande maggioranza dei casi ritengono che il loro candidato “stia guidando un movimento e non soltanto una campagna”. E la maggioranza degli elettori propensi a votare repubblicano dicono che ciò di cui il loro paese ha bisogno è un leader “disposto a dire o a fare qualunque cosa per risolvere i problemi dell’America”. Manco a dirlo, l’adesione più entusiasta (l’84%) viene dai sostenitori di Trump.

Un assaggio della politica europea?

L’inaspettata popolarità di Donald Trump e di Bernie Sanders dipende anche dal fatto che hanno completamente ribaltato le idee degli americani su quel che i loro partiti politici rappresentano. Lo strano cocktail di idee politiche servito da Trump ha “rottamato” le posizioni dei repubblicani (costate anni di lavoro) su questioni cruciali come le tasse e la religione, mentre Sanders, con le sue filippiche contro il denaro e il potere, semplicemente se ne infischia dello spostamento verso il centro duramente ottenuto dai democratici, nel corso di (almeno) una generazione. Al punto che Gareth Harding, su Politico, si è chiesto: e se fosse un assaggio della politica europea?

Il fatto che Trump unisca la difesa del sistema di protezione sociale con la xenofobia ed il protezionismo può anche non essere familiare agli elettori americani, che sono abituati ad avere a che fare con politici conservatori rigorosamente anti-welfare, sostenitori del libero scambio e della diminuzione delle tasse, ma è una mistura immediatamente riconoscibile ai sostenitori della marea di partiti di destra in testa nei sondaggi di mezza Europa. Allo stesso modo, l’aperta adesione al socialismo da parte di Sanders può forse scioccare gli americani, ma difficilmente può impressionare qualcuno in Europa, dove i partiti socialisti sono al governo o costituiscono la principale opposizione.

Persino i due personaggi principali della contesa politica in corso sono familiari agli europei. “Un arrogante uomo d’affari miliardario con una politica populista, un linguaggio volgare e un talento nel promuoversi, che entra nell’arena politica e travolge rivali esperti garantendo che saprà far rinascere il suo paese?”, si è chiesto Harding. “Questo nome non mi è nuovo!” direbbe Totò… Di più: questa “versione più pettinata e altrettanto rozza di Berlusconi” può anche essere sprezzante nei confronti dell’Europa (di recente ha descritto Bruxelles come un “buco infernale” e ha predetto il collasso del vecchio continente), ma non c’è dubbio che la sua politica “nativista” potrebbe scaturire direttamente da uno dei tanti partiti populisti europei oggi in voga.

Sanders si presta meno ad essere ridicolizzato, ma agli occhi degli europei anche la sua ascesa ha qualcosa di familiare. “L’anno scorso – scrive Harding – Jeremy Corbyn, un militante della sinistra radicale di 65 anni, privo di trascorsi politici di primo piano, con la capacità mediatica di un monaco trappista e una filosofia politica che la maggior parte di noi pensava fosse crollata assieme al Muro di Berlino, è diventato leader del Labour Party, il principale partito d’opposizione del Regno Unito”. E come nel caso di Sanders, la maggior parte degli opinionisti aveva liquidato Corbyn come “ineleggibile”, prima che, puntualmente, venisse eletto.

Non diversamente da quel che accade in Europa, gli elettori americani si stanno peraltro orientando verso candidati che hanno un attaccamento molto debole nei confronti dei loro partiti. Trump era registrato come democratico; Sanders, un senatore indipendente del Vermont, una volta ha descritto il Partito democratico, cui ha aderito di recente, come “moralmente in bancarotta”. Quando il 70% degli elettori americani ritiene, come rilevano i sondaggisti, che il paese stia andando nella direzione sbagliata, non è sorprendente che i candidati che rappresentano la continuità, come Hillary Clinton, debbano faticare per persuadere gli elettori ad appoggiarla.

Senza contare che la Clinton, come osserva Harding, “non si sta semplicemente difendendo da Sanders alla sua sinistra; anche Trump è un protezionista, come moltissimi colletti blu democratici, e uno strenuo difensore di Medicare. Negli Stati Uniti, Sanders è considerato una specie di sovversivo perché sostiene l’istruzione universitaria gratuita e la sanità pubblica finanziata con l’aumento delle tasse. Ma in Europa, queste idee lo collocherebbero semplicemente nella corrente principale di un partito cristiano democratico. Non è stata forse la cancelliera di centro-destra, Angela Merkel, che, nel 2014, ha introdotto il salario minimo in Germania e che lo stesso anno ha abolito le tasse universitarie?”. (“Dear American voters: Welcome to Europe”)

Trumpismo vs. Clintonismo?

C’è chi ritiene che, comunque vadano le cose, Trump rappresenti il futuro dei repubblicani e Hillary Clinton il futuro dei democratici. Quelli che considerano il populismo nazionalista di Trump come un’anomalia passeggera in un partito che tra non molto tornerà all’ortodossia del libero mercato e del governo limitato, tuttavia, si sbagliano di grosso. E stanno sbagliando anche quanti ritengono che l’appeal del senatore Sanders nei confronti dei giovani rappresenti una sorta di rigetto della sintesi di centrosinistra rappresentata da Bill Clinton, Barack Obama, e adesso da Hillary Clinton.

Secondo Michael Lind, della New America Foundation, in un modo o nell’altro, Trumpismo e Clintonismo finiranno per definire il conservatorismo e il progressismo in America.

L’elezione presidenziale nel 1968, un anno elettorale altrettanto turbolento, è stata una tappa fondamentale per l’identificazione degli elettori nei partiti politici americani ed ha determinato il rimescolamento dei blocchi elettorali tra i due partiti. Oggi stiamo assistendo invece ad un riallineamento di tipo diverso, all’aggiustamento di quel che ciascun partito rappresenta per la propria attuale base elettorale. “Tanto per semplificare – sostiene Lind – la base democratica è oggi, un’alleanza tra bianchi del Nord, del Mid-West e della West Coast della vecchia Rockefeller Republican tradition con neri e ispanici. Un partito che assomiglia ormai molto lontanamente ai democratici del New Deal. Da parte loro, invece, i repubblicani di oggi contano sul voto dei bianchi del Sud e della classe operaia bianca delle constituency del Nord che una volta erano i bastioni dei democratici”. Ora è cominciato un nuovo riallineamento politico, per “colmare il divario tra il vecchio programma ricevuto in eredità dal partito e i valori e gli interessi dei loro elettori di oggi”. (“Trumpism and Clintonism are the Future”)

Insomma, Donald Trump è salito in groppa al cavallo del populismo conservatore, ma il cavallo era già uscito dalla stalla da un pezzo. Prima di Trump, gli stessi temi populisti erano stati cavalcati da Mike Huckabee, Rick Santorum e Patrick Buchanan. Per un po’, la forza della destra religiosa ha consentito all’élite repubblicana di barattare il taglio delle tasse (per i ricchi) con il sostegno al divieto dell’aborto e dei matrimoni gay. Ma, con il declino del conservatorismo religioso, sta crescendo una sorta di populismo nazionale di stile europeo, per il quale il protezionismo e le restrizioni all’immigrazione sono questioni centrali e non preoccupazioni di poco conto.

Molto prima che Trump si gettasse nella mischia, i liberisti (in economia), che sono sovrarappresentati tra i finanziatori, le riviste e i think tank del partito, stavano già perdendo terreno a favore dei populisti. L’opposizione all’immigrazione illegale, da una questione marginale associata con Patrick Buchanan nel 1990, è diventata ora un test centrale per distinguere tra un “vero conservatore” e un repubblicano solo di facciata.

Nel 2007, e poi di nuovo nel 2013, l’opposizione dei repubblicani populisti ha bloccato la riforma dell’immigrazione al Congresso. Allo stesso modo, l’opposizione dei loro stessi elettori ha forzato i repubblicani, che controllavano entrambe le Camere, a sventare l’ipotesi di una parziale privatizzazione della sicurezza sociale proposta da George Bush. Ora, qualunque cosa dovesse capitare alla sua corsa per la presidenza, “Trump ha reso evidente a tutti il divario tra le proposte dei repubblicani conservatori ortodossi e quello che oggi vuole davvero la maggioranza degli elettori repubblicani”. Vale a dire, più diritti per la classe media e pugno di ferro sugli immigrati illegali, i musulmani, i rivali nel commercio estero e gli alleati “scrocconi”.

È probabile, insomma, che il futuro dei democratici sarà il clintonismo, e cioè una versione leggermente più progressista del tradizionale liberalismo, svincolata dalle concessioni strategiche agli elettori della classe operaia bianca associate all’esperienza di Bill Clinton. Nell’altro schieramento è probabile che sia solo una questione di tempo prima che il conflitto tra l’approccio libertario dell’elite e il populismo degli elettori del Partito repubblicano si risolva (più o meno) in favore degli elettori, attraverso una nuova ortodossia che si sposta a sinistra sui diritti e a destra sull’immigrazione. Nella più ampia prospettiva storica, sostiene Lind, “il 2016 testimonia che i Roosevelt Democrats e i Rockfeller Republicans sono ormai scomparsi”. Ed è probabile che i democratici clintoniani e i repubblicani alla Trump siano qui per restare.

Del resto, il populismo si è insediato come un attore stabile anche all’interno dei sistemi democratici europei. E, anche in Europa, nessuno ha messo ancora a punto una strategia per fermare la sua avanzata trionfale.

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IN PRIMO PIANO

Populismo a stelle e strisce. Trump e Sanders, specchi dell’angoscia americana – Strade – Il Magazine, 18 Maggio 2016

di Alessandro Maran

Mentre democratici e repubblicani cambiano pelle e si assestano su nuove basi sociali e culturali, il vento antipolitico ha preso a spirare forte anche negli Stati Uniti. Il voto delle primarie fotografa un Paese diviso e smarrito, con un senso profondo di precarietà e insicurezza. Ma il fenomeno che ha investito la politica americana, accomunandola a quella europea, è un’eccezione o una nuova normalità?

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Le primarie democratiche e repubblicane sono avviate alla conclusione e Hillary Clinton e Donald Trump, mentre Strade va in stampa, stanno per conquistare la maggioranza dei delegati necessari per la nomination. Resta da verificare come le spaccature profonde apertesi in entrambi i partiti possano essere ricomposte dai due candidati, che dalle primarie sono usciti vincenti ma non pienamente rappresentativi dei rispettivi elettorati.

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Dibattito: “La libertà di stampa negli ultimi 40 anni in Italia”

DIBATTITO | Turriaco (GO) – 20:00. Durata: 1 ora 37 min

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