Al direttore – Il tribunale penale di Gorizia ha disposto il sequestro su alcune aree dello stabilimento Fincantieri di Monfalcone. Di conseguenza, la prestigiosa azienda italiana ha dovuto bloccare i lavori. Risultato: da martedì, il più grande cantiere navale italiano ha chiuso i cancelli lasciando a casa oltre 4.500 lavoratori e un intero indotto in ginocchio. La questione sembra essere questa: le imprese subappaltatrici non sarebbero state in possesso dei requisiti normativi per eliminare gli scarti delle lavorazioni delle navi, configurando un’ipotesi di reato di gestione di rifiuti non autorizzata. Lo smaltimento dei rifiuti è disciplinato dal dlgs 152 del 2006 che prescrive, infatti,
apposite autorizzazioni. La stessa nozione di rifiuto è sempre molto dibattuta in sede giudiziale, nonostante lo stratificarsi normativo sul tema, ma nel caso specifico, più che di rifiuto vero e proprio (da intendersi come materiale che debba essere prontamente rimosso al fine di non deturpare l’ambiente), il materiale incriminato deriverebbe da semplici “scarti di produzione” come moquette, teli di plastica, tubi di ferro, depositati in stoccaggio in prossimità delle aree di lavorazione in attesa del trasporto in discarica. Insomma, niente di radioattivo, né alcuna fonte di inquinamento atmosferico o delle acque. E il problema sollevato dalla procura, che si era vista più volte bocciare la misura cautelare già nel 2013, prima dal gip e poi dal tribunale, a causa della carenza dei presupposti necessari a giustificare una situazione di pericolo ambientale, non riguarderebbe il mancato smaltimento dei rifiuti stessi (che pare siano stati sempre trattati secondo le disposizioni di legge), ma il soggetto che doveva operare lo smaltimento. Tutte le grandi imprese, infatti, utilizzano una serie di aziende a cui subappaltano singole operazioni del processo di produzione. Sarebbero state queste ultime a non disporre delle autorizzazioni per lo smaltimento, sebbene il materiale sia stato prontamente smaltito dall’azienda appaltante, Fincantieri appunto. Questo il motivo del sequestro delle aree destinate alla cernita e allo stoccaggio di scarti e della conseguente chiusura dello stabilimento di Monfalcone. Ma, se così stanno le cose, mi chiedo: dove sarebbe il danno ambientale se il materiale è stato legittimamente rimosso? E’ possibile bloccare una intera produzione, con tutti i danni che inevitabilmente deriveranno all’azienda per il ritardo (sine die) nei lavori, per un tale “cavillo” interpretativo? E poi perché sequestrare le aree? Non bastano i rilievi dei Carabinieri? Poi si andrà a giudizio e vedremo chi ha ragione. E se, come spesso accade, tra qualche anno dovessimo accertare che non c’erano rischi (come pare già accertato) e non c’erano neppure reati? Chi pagherà il risarcimento del danno che legittimamente Fincantieri potrebbe chiedere? Il magistrato che ha disposto il sequestro? Di una cosa sono certo: che i costi saranno, ancora una volta, a carico della collettività.
Alessandro Maran, senatore del Pd