Il presidente bielorusso Alexander Lukashenko, l’uomo conosciuto come «l’ultimo dittatore in Europa», si è meritato un marchio d’infamia per la risposta noncurante e strafottente al Covid-19. La Bielorussia è stata probabilmente l’unico paese al mondo a comportarsi come se la pandemia non esistesse. Il governo, infatti, si è rifiutato di assumere misure di contenimento e ha trattato il Covid-19 come se fosse poco più di un’influenza, arrivando a sostenere che il coronavirus «si ammazza bevendo vodka, 40-50 millilitri al giorno, ma non al lavoro, e facendo la sauna tre volte alla settimana».
Il primo luglio la Germania assumerà la presidenza di turno della Ue per un semestre che come priorità assoluta avrà, ovviamente, quella di trovare un accordo sul Recovery Fund, un pacchetto senza precedenti, in termini di portata finanziaria e politica, ma sui cui dettagli (a cominciare dal suo ammontare complessivo di 750 miliardi di euro, di cui 500 miliardi di sovvenzioni) i 27 paesi membri sono ancora profondamente divisi.
Le donne hanno gestito la pandemia meglio dei loro colleghi uomini? Pare di sì. La prima a notare che i paesi guidati da una donna se la sono cavata meglio, è stata Avivah Wittenberg-Cox, esperta di leadership e gender balance, con un articolo sulla rivista economica Forbes, poi ripreso anche da Cnn e da molti altri. Sull’argomento è tornato la settimana scorsa anche Nicolas Kristof che, nella sua rubrica sul New York Times, si è chiesto: “Come mai i tassi di mortalità del coronavirus sono di gran lunga inferiori nei paesi governati dalle donne?”. Confrontando i tassi di mortalità del coronavirus in 21diversi paesi,13 dei quali guidati da uomini e 8 guidati da donne, si osserva infatti che mentre i primi hanno patito una media di 214 decessi da coronavirus per milione di abitanti, quelli guidati da donne hanno registrato solo un quinto di quei decessi, 36 per milione. Il che fa dire a Kristof che se gli Stati Uniti avessero avuto il tasso di mortalità medio di uno dei paesi con una donna a capo del governo, si sarebbero potute salvare le vite di 102.000 dei 114.000 americani deceduti.
In America, i cronisti si stanno preparando per le rivelazioni di John Bolton, l’ex insider di Trump che è stato consigliere per la sicurezza nazionale (poi licenziato dallo stesso Trump il 10 settembre 2019). Si prevede che nel suo libro (che uscirà martedì prossimo, a meno che un’azione legale non riesca ad impedirne la pubblicazione), Bolton renderà noto ogni dettaglio del disordine trumpiano di cui è stato testimone privilegiato all’interno della Casa Bianca. Il libro si intitola, infatti, «The Room Where it Happened: A White House Memoir», la stanza dove è successo.
Il G-7 è un’organizzazione intergovernativa che comprende sette delle prime dieci economie del mondo: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America. Si tratta di un ristretto club nato nel 1975 e formato da sette democrazie avanzate il cui peso politico, economico, industriale e militare è (o meglio, era) considerato di centrale importanza su scala globale. Ma che cosa fa veramente? Non molto, secondo l’ex diplomatico indiano Jayant Prasad che ha scritto un saggio sul «disfacimento del gruppo dei sette» apparso su The Hindu qualche giorno fa.
Nel 2008, il National Intelligence Council ha pubblicato «Global Trends 2025: A Trasformed World», il quarto rapporto (non-classificato) della serie Global Trends.
George Floyd è morto a Minneapolis e le proteste si sono sviluppate soprattutto in America, ma la reazione, come ha sottolineato Ishaan Tharoor sul Washington Post, è stata globale. Si sa che mentre le vicende degli altri paesi solo di rado riescono a penetrare nel circuito americano delle notizie, le tragedie dell’unica superpotenza mondiale catturano il pubblico di tutto il mondo. Ma il diffondersi per ogni dove di manifestazioni di solidarietà con i manifestanti di Black Lives Matter rispecchia anche la particolare presa che l’America continua ad avere sull’immaginario globale.
Più che sul fronte economico, il vero “decoupling” tra Cina e Stati Uniti potrebbe avvenire su quello tecnologico. E per l’Europa sarà il momento di scegliere con chi stare
Ahmet Altan è uno degli autori più noti e popolari della Turchia. I suoi romanzi e i suoi saggi hanno venduto milioni di copie, e sono stati premiati in Turchia e all’estero.
La morte di George Floyd e le proteste e i disordini che l’hanno seguita (da sei giorni le strade americane sono tutte un ribollire di collera e di sdegno) stanno suscitando molte discussioni sulla razza e la giustizia in America.