Al direttore – Nei giorni scorsi Claudio Cerasa è tornato, giustamente, sulla “battaglia culturale” che si combatte attorno alla giustizia. Una concezione della giustizia premoderna e una casta di magistrati “che si è autocertificata come elemento salvifico di un tessuto sociale in sé corrotto”, da amministrare perciò in nome di superiori valori, é infatti uno degli elementi strutturali dell’odierno paesaggio italiano, del “liberale che non c’è”, per dirla con Corrado Ocone. Senza contare che fra le ragioni della “penalizzazione” crescente della nostra società, c’è anche la richiesta di capri espiatori alimentata continuamente dai mezzi di comunicazione di massa.
Ora, non è un mistero per nessuno che la nostra magistratura ha progressivamente accumulato una notevole dose di poteri. Le sue garanzie di indipendenza sono oggi fra le più elevate nell’ambito dei regimi democratici. Il fatto poi di esercitare anche le funzioni di accusa ne ha accresciuto ulteriormente la capacità di incidere sul sistema politico (specie se si considera che il principio di obbligatorietà rende di fatto irresponsabile il pubblico ministero). Ma nonostante questa posizione di forza, la magistratura presenta anche molti punti deboli. Il primo – quello che interessa più da vicino ai cittadini – è la cattiva qualità del servizio che rende. Il che si riflette nel basso tasso di fiducia (e di gradimento) degli italiani nei confronti del nostro sistema giudiziario.
Il paradosso è che, stando così le cose, la magistratura richiede di continuo sostegno e legittimazione proprio alla politica. La delibera con la quale il Csm criticava (2003) alcune dichiarazioni roventi del presidente del Consiglio, faceva appello a tutte le istituzioni perché “sia ripristinato il rispetto dei singoli magistrati e dell’intera magistratura”. E ne ha bisogno perché svolge funzioni di forte impatto politico, senza disporre di un adeguato sostengo nella società. Infatti, come ha rilevato il prof. Carlo Guarnieri, “numerose analisi hanno messo in luce che una magistratura può essere realmente indipendente non solo quando dispone di adeguate garanzie ma soprattutto quando gode di un forte sostegno nella società, sia in generale sia presso specifici gruppi di interesse” (il riferimento è all’avvocatura e ai gruppi che, specie negli Stati Uniti, operano a difesa dei diritti civili). Ma “da questo punto di vista la nostra magistratura è ancora un corpo separato, che non ha relazioni istituzionali con la società – né con un corpo così importante come l’avvocatura – e le cui basi di consenso fanno sostanzialmente capo alla classe politica, oltre che ai mezzi di comunicazione di massa”. Per questo è difficile “separare le carriere” tra magistrati e giornalisti. Per questo, secondo Guarnieri, anche in Italia, il punto fondamentale della riforma è il reclutamento dei giudici: “E’ necessario superare progressivamente il reclutamento burocratico e creare canali che siano in grado non solo di selezionare i migliori ma anche di attirare verso la magistratura professionisti di qualità, aprendo così un canale di collegamento con l’avvocatura e l’università”. La magistratura inglese, ad esempio, può essere considerata un’emanazione dell’avvocatura e in particolare dei barristers. In questo modo, i valori predominanti nella magistratura sono sostanzialmente quelli dell’intera professione forense.
Insomma, i limiti dell’assetto che abbiamo ereditato dal passato sono sotto gli occhi di tutti. Perché stupirsi, allora, dei tagli alle ferie, del tetto agli “stipendi d’oro”, e ora, della riforma della responsabilità civile? La magistratura fa inevitabilmente parte del processo politico. E nel paese c’è un clima di diffidenza, quando non di aperta disapprovazione, nei confronti di chiunque occupi un ruolo pubblico. Renzi ha colto l’aria che tira (si pretendono regole e pene più severe per tutti) e vuole “cambiare verso” anche in questo campo. Ma per migliorare il funzionamento della nostra giustizia quel che davvero conta, insiste Guarnieri, è “curare meglio la professionalità – e l’etica – dei magistrati e, soprattutto, dare maggiori poteri e responsabilità ai capi degli uffici”. Di esempi ne potrei fare una montagna. Ne faccio uno solo: è trascorso un anno e mezzo dalla sentenza pronunciata il 15 ottobre 2013 dal tribunale di Gorizia, dopo 3 anni e mezzo e 89 udienze, in ordine alla vicenda dell’ex Italcantieri (ora Fincantieri), che ha inflitto ai vertici aziendali una pena complessiva di oltre 55 anni di reclusione per la morte causata dall’esposizione all’amianto di 85 operai del cantiere di Monfalcone. Ad oggi il giudice non ha ancora depositato la motivazione della sentenza. Il che comporta anche l’allungamento dei termini della presentazione del ricorso in appello da parte degli imputati. E l’imminente prescrizione potrebbe ledere il diritto processuale delle parti, nonché il diritto ad una giusta riparazione.
Che cosa aspetta il ministro ad attivare i poteri di ispezione di cui dispone per accertare per quali ragioni, ad oggi inspiegabili, le motivazioni della sentenza non siano state ancora depositate e, qualora ne ravvisi i presupposti e nei limiti di propria competenza, avviare la richiesta di indagini al procuratore generale?
Le recenti critiche mosse dagli esponenti di Forza Italia all’amministrazione regionale sulla gestione del Pipol (Piano integrato delle politiche per l’occupazione e il lavoro) offrono l’opportunità di riprendere alcune riflessioni in materia. Dico subito che l’analisi di Novelli e Ziberna appare un po’ ingenua (e persino strumentale) quando avanza una stima dei costi a carico dei cittadini per la creazione di ogni singolo posto di lavoro: il Piano in questione è appena entrato nel vivo e il suo reale livello di efficienza si potrà misurare soltanto al termine dello stesso. Altrettanto debole mi sembra la loro proposta alternativa di impegnare i 38 milioni disponibili in incentivi alle assunzioni: è opinione condivisa che tali strumenti incidono solo marginalmente sulle dinamiche di crescita dell’occupazione, a favore delle quali, peraltro, sono già attivi gli istituti dell’apprendistato e del contratto a tutele crescenti. Ritengo che la vera critica da muovere alla gestione del Pipol sia un’altra: stiamo assistendo all’ennesima occasione persa dall’amministrazione regionale nella costruzione di un sistema di politiche attive del lavoro moderno ed europeo. L’assessore Panariti, nel dibattito politico sulla stampa, enumera esclusivamente la quantità degli interventi realizzati, ma tace sulla loro qualità: quanti degli avviamenti da lei citati sono rappresentati da contratti lavorativi e quanti, invece, da tirocini formativi? E perché l’assessore Panariti, nelle sue risposte sui giornali, non cita il numero di accordi stipulati dai Centri per l’impiego con le singole aziende in periodi antecedenti o contestuali all’avvio dei percorsi formativi finanziati dalla Regione? Semplicemente perché, in concreto, “a monte” non c’è, se non occasionalmente (come nel caso dei tirocini), la condivisione con l’universo produttivo dei suddetti percorsi, gran parte dei quali è pensata a tavolino dai Centri per l’impiego e destinata, di conseguenza, a rimanere scollegata dal mondo reale. Probabilmente l’assessore ritiene che, come all’università, l’importante è imparare qualcosa, ché poi si vedrà. Il mondo del lavoro, però, è un’altra cosa. Lì non possono funzionare i sistemi e i metodi della formazione calata dall’alto e, prima di far partire qualsiasi iniziativa pubblica di aggiornamento e riqualificazione, è indispensabile un preciso accordo con gli operatori economici sugli obiettivi e sui contenuti formativi, altrimenti si buttano soltanto via i soldi per produrre numeri senza senso. Insisto: la parte più innovativa del progetto Pipol non è tuttora avviata. Vedremo tra sei mesi o un anno, al riguardo, quanti soggetti ricollocati potremo ricondurre all’efficacia di quel progetto. Resto tuttavia dell’opinione che la Regione Friuli Venezia Giulia continui a perpetuare un modello inefficace e culturalmente sbagliato di politica attiva del lavoro. Di recente l’assessore Panariti ha inserito, tra i vari numeri che esibisce, le 8.500 persone disoccupate convocate dai Centri per l’impiego per la fase di accoglienza che precede l’elaborazione dei piani personalizzati dei servizi da erogare a ciascuna di loro. Si tratta di dati che non dicono nulla ed eludono il punto di fondo: gli operatori dei Cpi, per quanto volonterosi, svolgono un lavoro essenzialmente impiegatizio, cioè non “esplorano” a sufficienza il territorio regionale con visite costanti presso le sedi delle imprese; non sono perciò in grado di rilevare, in modo capillare e dettagliato, i fabbisogni reali del mondo produttivo. E senza una puntuale analisi di tali fabbisogni – che dovrebbe anticipare l’accordo con le stesse imprese sul percorso di reinserimento lavorativo – non può esistere nessuna valida personalizzazione, se non quella appiattita sul mero ascolto dei desideri della persona senza lavoro. Manca, in altre parole, un forte collegamento con la domanda occupazionale, mentre permane uno sbilanciamento sulla sola offerta. E sarebbe questa la collaborazione sistemica di cui parla l’assessore regionale?