Le recenti critiche mosse dagli esponenti di Forza Italia all’amministrazione regionale sulla gestione del Pipol (Piano integrato delle politiche per l’occupazione e il lavoro) offrono l’opportunità di riprendere alcune riflessioni in materia. Dico subito che l’analisi di Novelli e Ziberna appare un po’ ingenua (e persino strumentale) quando avanza una stima dei costi a carico dei cittadini per la creazione di ogni singolo posto di lavoro: il Piano in questione è appena entrato nel vivo e il suo reale livello di efficienza si potrà misurare soltanto al termine dello stesso. Altrettanto debole mi sembra la loro proposta alternativa di impegnare i 38 milioni disponibili in incentivi alle assunzioni: è opinione condivisa che tali strumenti incidono solo marginalmente sulle dinamiche di crescita dell’occupazione, a favore delle quali, peraltro, sono già attivi gli istituti dell’apprendistato e del contratto a tutele crescenti. Ritengo che la vera critica da muovere alla gestione del Pipol sia un’altra: stiamo assistendo all’ennesima occasione persa dall’amministrazione regionale nella costruzione di un sistema di politiche attive del lavoro moderno ed europeo. L’assessore Panariti, nel dibattito politico sulla stampa, enumera esclusivamente la quantità degli interventi realizzati, ma tace sulla loro qualità: quanti degli avviamenti da lei citati sono rappresentati da contratti lavorativi e quanti, invece, da tirocini formativi? E perché l’assessore Panariti, nelle sue risposte sui giornali, non cita il numero di accordi stipulati dai Centri per l’impiego con le singole aziende in periodi antecedenti o contestuali all’avvio dei percorsi formativi finanziati dalla Regione? Semplicemente perché, in concreto, “a monte” non c’è, se non occasionalmente (come nel caso dei tirocini), la condivisione con l’universo produttivo dei suddetti percorsi, gran parte dei quali è pensata a tavolino dai Centri per l’impiego e destinata, di conseguenza, a rimanere scollegata dal mondo reale. Probabilmente l’assessore ritiene che, come all’università, l’importante è imparare qualcosa, ché poi si vedrà. Il mondo del lavoro, però, è un’altra cosa. Lì non possono funzionare i sistemi e i metodi della formazione calata dall’alto e, prima di far partire qualsiasi iniziativa pubblica di aggiornamento e riqualificazione, è indispensabile un preciso accordo con gli operatori economici sugli obiettivi e sui contenuti formativi, altrimenti si buttano soltanto via i soldi per produrre numeri senza senso. Insisto: la parte più innovativa del progetto Pipol non è tuttora avviata. Vedremo tra sei mesi o un anno, al riguardo, quanti soggetti ricollocati potremo ricondurre all’efficacia di quel progetto. Resto tuttavia dell’opinione che la Regione Friuli Venezia Giulia continui a perpetuare un modello inefficace e culturalmente sbagliato di politica attiva del lavoro. Di recente l’assessore Panariti ha inserito, tra i vari numeri che esibisce, le 8.500 persone disoccupate convocate dai Centri per l’impiego per la fase di accoglienza che precede l’elaborazione dei piani personalizzati dei servizi da erogare a ciascuna di loro. Si tratta di dati che non dicono nulla ed eludono il punto di fondo: gli operatori dei Cpi, per quanto volonterosi, svolgono un lavoro essenzialmente impiegatizio, cioè non “esplorano” a sufficienza il territorio regionale con visite costanti presso le sedi delle imprese; non sono perciò in grado di rilevare, in modo capillare e dettagliato, i fabbisogni reali del mondo produttivo. E senza una puntuale analisi di tali fabbisogni – che dovrebbe anticipare l’accordo con le stesse imprese sul percorso di reinserimento lavorativo – non può esistere nessuna valida personalizzazione, se non quella appiattita sul mero ascolto dei desideri della persona senza lavoro. Manca, in altre parole, un forte collegamento con la domanda occupazionale, mentre permane uno sbilanciamento sulla sola offerta. E sarebbe questa la collaborazione sistemica di cui parla l’assessore regionale?