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GIORNALI2015

Messaggero Veneto, 8 febbraio 2015 – «MARAN IL RENZIANO E I ROSICONI DEL PD»

di TOMMASO CERNO

Sono rimasto molto colpito dalle critiche piovute da una parte del Pd al rientro di Alessandro Maran, primo renziano democratico del Friuli Venezia Giulia a essersi manifestato quando dire la parola Renzi era come dire una parolaccia, quando chi lo contesta oggi appellava il futuro segretario del partito democratico – all’epoca sindaco rottamatore di Firenze – con nomignoli tipo “Gianburrasca”. Non è per difendere Maran, ma ci si aspettava da un partito di governo, che ha la presunzione di guidare un processo di riforma della Regione e del Paese, qualcosa in più della classica “rosicata”, per dirla proprio con Renzi. E se c’è un mea culpa che il Pd – all’epoca schierato con Bersani – dovrebbe fare è quello di avere spinto Maran verso l’uscita dal partito che ha contribuito a fondare, con la solita scusa delle primarie che non è certo la ragione per cui le sue posizioni sul sindacato e sul lavoro furono censurate. Qui come a Roma. Bene, chi oggi contesta il suo ritorno parta da un presupposto politico che vale molto più di queste piccole vendette private: se Maran torna nel Pd con il lasciapassare di Matteo Renzi è perché il Pd ha cambiato le sue posizioni proprio sui temi del lavoro e del sindacato. Sarebbe ben strano che il nuovo Pd di Renzi lasciasse oggi fuori dal suo steccato proprio i socialdemocratici naturali, per elevare alla dirigenza i convertiti dell’ultima ora. Il 31 ottobre 2012, quando nel Pd si inneggiava alla Ditta D’Alema-Bersani, quando Rosy Bindi puntava al Quirinale, quando Gianburrasca Renzi era considerato un nemico da abbattere Alessandro Maran scriveva un fondo su questo giornale dal titolo: “Ragioni della scelta di votare Renzi”. Un fondo che fu accolto dalle stesse critiche che oggi i presunti renziani (di corrente governativa, così come di area civatian-orfiniana) rivolgono proprio all’autore del testo. Scriveva Maran: «Voterò per Matteo Renzi. Sono dell’opinione che il centrosinistra abbia bisogno di una rigenerazione, sia pure al prezzo di qualche scossa» E aggiungeva: «Si può pensare quello che si vuole di Matteo Renzi, ma non c’è dubbio che nei suoi discorsi (e nel suo programma) abbia ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale; e non c’è dubbio che è con queste idee che prova a sfidare la maggioranza del Pd. Diciamoci la verità: il più delle volte, le riforme che sarebbero necessarie (per trasformare un sistema giudiziario bizantino, un governo locale sciupone, un sistema sanitario scricchiolante ecc.) sono impopolari e rischiare l’impopolarità nei punti di forza tradizionali (il pubblico impiego, per esempio), puntando sulla riconoscenza delle generazioni che verranno, esige un coraggio che gli attuali leader del Pd non hanno. Il punto irrisolto è sempre lo stesso». E scriveva infine: «Dovesse prevalere Renzi alle primarie, non finiremmo nell’anarchia, ma il Pd diventerebbe un partito un po’ più simile a quelli (di sinistra) europei. Mentre le sinistre europee rompono anche simbolicamente con il loro passato perché sono obbligate a considerare nuovi problemi e traguardi, il Pd si auto-confina nel recinto della sinistra tradizionale». Tralascio per buon gusto di riportare ciò che in quegli stessi mesi scrivevano di Renzi i dirigenti che oggi contestano Maran chiamandolo «opportunista». A chi segue la politica, viene difficile immaginare che l’ex segretario dei Ds, fra i promotori dell’operazione Illy del 2003, fra gli ideatori del referendum che ha portato anche in Friuli Venezia Giulia l’elezione diretta del governatore, possa essere considerato un “opportunista”, perché dopo avere lavorato per i democratici sulla riforma della giustizia alla Camera, un paio di capibastone friulani con due-tremila voti di tessere Pd hanno scelto i nuovi deputati alle primarie, gridando a un’iniezione di democrazia partecipativa, quando tutti sappiamo che se si volesse un parlamento eletto dai cittadini si farebbe una legge elettorale dove i cittadini possano scegliere chi eleggere. Detto questo, credo che la natura stessa del Pd renziano sia quella di allargarsi. E di crescere dentro una società italiana che finora non aveva votato a sinistra. Sta qui il fulcro della novità dei Dem rispetto al passato. E passa attraverso scontri di idee che possono lasciare anche delle ferite. Quella lasciata da Maran, il giorno del difficile addio, era una ferita politica. Che va sanata con il dibattito, con il confronto sulle idee, con lo scontro anche duro. Ma non con le argomentazioni della “casta” usate contro la “casta” dalla stessa “casta”. Non dicendo, dopo tre legislature nel Palazzo, che gli altri fanno tutto per una poltrona mentre noi che critichiamo siamo la “politica pura”. Dopo avere cambiato magari casacche e correnti di partito a ogni elezione di segretario.

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Il Piccolo, 7 febbraio 2015 – Maran: mi ha convinto il Jobs Act

Il senatore gradese: «Non chiedo poltrone. La mia è una scelta sul programma. Il Pd sul lavoro ha dato ragione a Ichino»

di Marco Ballico – TRIESTE Renziano della prima ora, lui sì. Nel 2012, primarie del Pd, Alessandro Maran affermava: «Voterò per Renzi: il centrosinistra ha bisogno di una rigenerazione». Un anno dopo entrava in rotta di collisione con il Pd e se ne andava un attimo prima della chiusura delle liste per le politiche. Oggi, il ritorno a casa. Il senatore di Grado è uno degli otto parlamentari montiani che lasciano Scelta civica e si siedono nel gruppo dem. Debora Serracchiani, ieri all’inaugurazione dell’anno accademico, ha incrociato Maran e gli ha detto, semplicemente, «bentornato». Anche con la presidente della Regione c’era stato attrito nel gennaio di due anni fa, ma era tutto un altro mondo: Renzi faceva il sindaco di Firenze e l’europarlamentare Serracchiani appoggiava Pier Luigi Bersani. «La politica è lo spazio della scelta», diceva allora.

Ha scelto il dietrofront per una questione politica?

Ho scelto, abbiamo scelto, perché era arrivato il momento di farlo. Convinti soprattutto dal programma, si può finalmente voltare pagina rispetto ai partiti e alle ideologie del passato. Dopo di che, in queste ore, è arrivato anche l’invito, che abbiamo colto, del presidente del Consiglio a un percorso e a un approdo comune.

Improvvisamente comune?

No, già da tempo. Anzi, rivendichiamo di avere anticipato, prima con le nostre battaglie da riformisti nel Pd, poi con il programma elettorale di Scelta civica e con i progetti che ne sono seguiti, la parte più innovativa del programma di riforme del governo: dal lavoro all’amministrazione pubblica, dal sistema elettorale a quelle del Parlamento, fino alla politica industriale.

Il Pd ha copiato l’agenda?

Diciamo che, assieme al governo, l’ha fatta propria. Parlo anche di quell’area del partito che aveva marginalizzato alcuni di noi.

Ma qual è il motivo per cui lasciate Scelta civica?

Posto che le nostre idee sono diventate le idee del Pd, è venuta meno la ragion d’essere del movimento. Continuiamo a essere orgogliosi delle battaglie fatte. L’esempio più eclatante è il Jobs Act. Tutti in Italia sanno che, se si parla di riforma del lavoro, lo si deve a Pietro Ichino. Renzi stesso ci ha dato atto di avere dato un contributo decisivo per avviare il cambiamento. Non si tratta solo di numeri, ma di progettualità, partecipazione, battaglia politica.

Perché non continuare allora con il gruppo in cui siete stati eletti? Perché siamo consapevoli che nessuno dei passi avanti sulla via delle riforme necessarie per l’integrazione dell’Italia in Europa sarebbe stato possibile se non nel quadro dell’iniziativa politica promossa e guidata da Renzi, che ha profondamente modificato la configurazione dell’area di centrosinistra e al tempo stesso dell’intero sistema politico nazionale.

Che ne sarà di Scelta civica?

Corre il rischio di ridursi a piccolo partitino con tutte le ragioni del distinguo. Non è la nostra idea.

Che cosa farete nel gruppo Pd?

Concorreremo allo sforzo per determinare i cambiamenti di cui il Paese ha bisogno.

E come lo spiegherete ai cittadini che hanno votato Scelta civica e non Pd?

I cittadini sono arrivati prima di noi. Quell’elettorato alle scorse europee si è trasferito direzione Pd. Perché il Pd renziano ha di fatto assorbito la basa sociale ed elettorale di Scelta civica.

Che cosa resta del voto 2013?

Il grande merito di avere impedito a Berlusconi di vincere le elezioni. E pure che la sinistra rimanesse imprigionata nella cornice identitaria di Bersani e di Vendola. Grazie a quei due stop imposti anche grazie a Scelta civica, l’Italia ha potuto conoscere il cambiamento di Renzi.

Chiedete poltrone?

Proprio nessuna. Il quadro del governo resta immutato.

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Messaggero Veneto, 7 febbraio 2015 – Maran: il Pd è cambiato. Ora posso tornare a casa

Maran: il Pd è cambiato
Ora posso tornare a casa

Il senatore: mi isolarono perché stavo con Renzi, oggi sono tutti schierati con lui
«Io ho votato la legge elettorale, a differenza dei colleghi Sonego e Pegorer»

di Domenico Pecile – UDINE «Sono uno dei fondatori del Pd. Del resto, sono sempre stato un riformista, un socialista liberale. Per questo posso dire che tutto ciò che oggi sta accadendo nel Partito democratico è in perfetta linea con quello che ho sempre pensato». Parola di Alessandro Maran, il senatore Fvg di Scelta civica che ha deciso di chiudere quell’esperienza per tornare nel Pd. Non è un semplice ritorno all’ovile, ma un processo pressochè ineludibile? «Sono andato via dal Pd di Bersani e Vendola e siamo tornati nel Pd che sognavamo all’inizio come ci ha detto Renzi». E cosa vi ha detto Renzi? «Riferendosi a Scelta civica ci ha chiesto “cosa ci fate ancora lì? Voi dovete tornare qui perché siete di un’altra pasta”». Lei concorda di essere di un’altra pasta? «Io ero semplicemente distante dal Pd, anzi, da quel Pd che perse le elezioni del 2013. L’anno precedente c’erano state le primarie e io ero già decisamente filo-renziano. Ma eravamo davvero in pochi». In quanti? Quella volta tra Camera e Senato eravamo in otto. Sì, soltanto in otto. Oggi, a distanza di un anno e mezzo sono tutti renziani». Lo dice con un po’ di acredine o sbaglio? «No, assolutamente nessun rancore. Però sono piccole soddisfazioni». Lei dunque lasciò il Pd proprio alla vigilia delle elezioni del 2013. Perché? «Perché tutta la corrente riformista era stata espulsa, cacciata. Posta ai margini. La linea politica era quella di un partito identitario vecchio». E Scelta civica? «Serviva per affermare la nostra identità. E da lì guardavo con un certo orgoglio all’ascesa di Renzi». Per quale motivo si sentiva orgoglioso? «Per avere anticipato proprio in Scelta civica la parte più innovativa del Governo Renzi». Ad esempio? «Su lavoro, riforme istituzionali e della pubblica amministrazione. Le nostre idee sono diventate le idee del Pd. Credo sia vero che abbiamo fornito un contributo decisivo alle riforme. Dopodiché…». Dopodichè? «Siamo anche consapevoli che nessun passo avanti sarebbe stato possibile se non ci fosse stato Renzi. Senza Renzi non ci sarebbero riforme. E questo dev’essere ben chiaro a tutti». Ritiene davvero che Renzi sia così essenziale per le riforme? «Prendiamo il Job act. Tutti sanno che si chiama di fatto Pietro Ichino. Ma tutti sanno anche che senza Renzi quella riforma non avrebbe fatto un solo passo avanti. Oggi la nostra agenda di allora è quella del Pd. Anche di quelli che ci avevano messo ai margini del partito». Ed è per questo che adesso stare in Scelta civica non ha più senso? «Sì, ora tutto si è rimesso a posto. Renzi è finalmente saldo in sella». Come la vedono quelli del Pd adesso che è rientrato? «Non lo so e non è un mio problema. Mi batto per le mie idee». E chi ripete che lei se ne andò dai democratici per essere sicuro di avere un seggio “garantito” che cosa si sente di rispondere? «Che se quello era l’obiettivo sarebbe bastato stare con Bersani. Per essere candidati era sufficiente fare i bravi». Dei colleghi regionali del Pd con chi ha buoni rapporti? «Con tutti. La mia priorità, lo ripeto, sono le battaglie politiche. E su questo mi confronto». Certamente, ma i bersaniani nel Pd del Fvg ci sono ancora, eccome… «Un paio di settimane fa Scelta civica ha votato la legge elettorale di Renzi, mentre una parte della minoranza del Pd, tra cui Sonego e Pegorer, non l’ha votata. Anche in quella circostanza ho preso atto che la politica del Pd era la mia». Quando in questi giorni la Serracchiani ha tuonato contro il patto del Nazareno, a suo avviso lo ha fatto forte della consapevolezza del vostro imminente arrivo? «Non lo so. Non credo. Noi ci siamo preoccupati soltanto di consolidare la prospettiva delle riforme». Ma lei su questo aveva sentito Serracchiani? «No, avevo parlato con Renzi e alcuni senatori». Quando pensa di incontrare Serracchiani? «In qualsiasi occasione utile. La incontravo anche quando ero in Scelta civica. Erano rapporti formali, o meglio, istituzionali. Ma non c’è mai stato del rancore». Come vede il Partito democratico del Fvg? «Con l’avvento di Renzi il Pd dovrà fare una cosa molto semplice». Quale? «Scegliere di competere al centro e di non confermare l’identità del passato. Dovrà poi convincere gli elettori degli avversari e dunque dovrà cambiare. Ovvio che anche in Fvg il Pd ha capacità espansive e di consolidamento. E può contendere ad altre forze politiche gli elettori centristi e quelli più interessati al cambiamento perché è il Pd che è cambiato». Ci sarà lo strappo a sinistra? «C’è già stato. Il Pd ha già scelto di collocarsi al centro». Ci saranno uscite dal Pd? «Non credo perché non si torna al passato. La sinistra non può ricostruire la sinistra del ’900». Tsipras in poche righe? «È il prodotto di una crisi che io vorrei l’Italia potesse evitare. Tsipras è anche il prodotto di un fallimento e della disperata voglia di uscirne. Noi possiamo evitare tutto questo facendo le riforme necessarie. Infine, Tsipras si allea con la destra per governare perchè la frattura politica non è tra destra e sinistra ma chi tra vuole andare avanti con l’Europa e chi vuole uscirne». Come chi? «Come Salvini, ad esempio». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

 

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Da riformista nel Pci
allo strappo del 2013

Alessandro Maran si definisce ferreo riformista da sempre. Anche quando si iscrisse al Pci di Grado, poi consigliere comunale e vice sindaco e assessore dal 1989 al 1994. Anche quando dal 1993 al 1997 è segretario della Federazione isontina del Pds e nel 1998 segretario regionale dei Ds del Fvg. Anche quando è eletto deputato nel 2001 e nel 2006 e diventa capogruppo dell’Ulivo nella Commissione giustizia. Eletto nel 2008, Maran fa parte della Direzione nazionale del Pd di cui diventa vicepresidente del gruppo parlamentare alla Camera. È segretario della commissione Affari esteri. L’11 gennaio 2013 annuncia di lasciare il Pd per aderire al progetto della lista Con Monti per l’Italia. Dice di non condividere la lnea bersaniana ancorata a un partito vecchio e ideologico. Da subito schierato con Renzi, nel 2012 quando il futuro premier contava su appena otto parlamentari, Maran scriveva così: “Voterò per Matteo Renzi. Sono dell’opinione che il centrosinistra abbia bisogno di una rigenerazione, sia pure al prezzo di qualche scossa. Fare una campagna elettorale di opposizione dopo un anno in maggioranza è schizoide. Il Pd deve rivendicare con orgoglio di aver partecipato (da protagonista) allo sforzo per salvare l’Italia, non vergognarsene; e deve prendersi il merito della popolarità di Monti in Europa, non accreditarsi come quello che non vede l’ora di toglierselo dai piedi. Si può pensare quello che si vuole di Matteo Renzi, ma non c’è dubbio che nei suoi discorsi (e nel suo programma) abbia ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale; e non c’è dubbio che è con queste idee che prova a sfidare la maggioranza del Pd”». (d.pe.)

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Messaggero Veneto, 7 febbraio 2015 – L’esodo da Scelta civica rafforza il premier

L’esodo da Scelta civica rafforza il premier

Tra i nuovi arrivi il ministro Giannini. Critiche dai bersaniani, esulta Bolzonello. Savino: fatto grottesco

 

UDINE L’addio di cinque senatori e due deputati, a cui si aggiunge il vice ministro allo Sviluppo economico, Carlo Calenda, a Scelta civica, il partito creato da Monti, segna l’archiviazione di quell’esperienza e un Pd che allarga i propri confini nel momento in cui si è rotto il Patto del Nazareno, tant’è che anche ieri il premier Matteo Renzi ha ribadito l’autosufficienza dell’area di governo nell’approvare le riforme. Tra chi se ne è andato il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini per la quale «l’esperienza Monti è finita. Per chi resta, però, si tratta solo di una scelta dettata dall’opportunismo e dal desiderio di assicurarsi una poltrona». Domani si terrà il primo congresso di Sc: due le mozioni che si confronteranno: quella firmata dal sottosegretario Enrico Zanetti e quella del collega agli Esteri Benedetto Della Vedova. Gli otto (Susta, Giannini, Maran, Lanzillotta, Ichino, Borletti Buitoni, Tinagli, Calenda) che hanno risposto all’appello del premier decidendo di traslocare nei gruppi dem si dicono convinti del fatto che non solo sia venuta meno «la ragion d’essere originaria di Scelta Civica» ma sono anche certi che lavorando all’interno del Pd sia possibile, diversamente dal passato, «voltare pagina rispetto ai partiti, alle ideologie e alla storia politica del secolo scorso». Un passaggio, quest’ultimo, a cui tengono soprattutto quanti solo qualche anno fa lasciarono il Pd per inaugurare una nuova esperienza e che oggi compiono il percorso inverso. Se Pier Luigi Bersani sottolinea che «un conto sono le scelte di tipo opportunistico, sempre disdicevoli; un conto è quando c’è un passaggio politico», Davide Zoggia, della sua corrente, è più critico e via twitter cinguetta: “Non mi convince questa migrazione, troppe differenze di linea politica”. Esulta, invece, il vice presidente della Regione, Sergio Bolzonello: «Quello di Maran è un gradito ritorno, avremo modo di confrontarci sui temi della Specialità». E la vice segretaria del Pd, Debora Serracchiani, trova nell’arrivo degli esponenti di Scelta civica conferma della sua profezia: con la fine del Patto del Nazareno, il Pd si rafforzerà in Parlamento. Critica, invece, la deputata Fi Sandra Savino: «E’ uno dei più grotteschi episodi di salto sul carro del momentaneo vincitore che la storia parlamentare ricordi».

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