di TOMMASO CERNO
Sono rimasto molto colpito dalle critiche piovute da una parte del Pd al rientro di Alessandro Maran, primo renziano democratico del Friuli Venezia Giulia a essersi manifestato quando dire la parola Renzi era come dire una parolaccia, quando chi lo contesta oggi appellava il futuro segretario del partito democratico – all’epoca sindaco rottamatore di Firenze – con nomignoli tipo “Gianburrasca”. Non è per difendere Maran, ma ci si aspettava da un partito di governo, che ha la presunzione di guidare un processo di riforma della Regione e del Paese, qualcosa in più della classica “rosicata”, per dirla proprio con Renzi. E se c’è un mea culpa che il Pd – all’epoca schierato con Bersani – dovrebbe fare è quello di avere spinto Maran verso l’uscita dal partito che ha contribuito a fondare, con la solita scusa delle primarie che non è certo la ragione per cui le sue posizioni sul sindacato e sul lavoro furono censurate. Qui come a Roma. Bene, chi oggi contesta il suo ritorno parta da un presupposto politico che vale molto più di queste piccole vendette private: se Maran torna nel Pd con il lasciapassare di Matteo Renzi è perché il Pd ha cambiato le sue posizioni proprio sui temi del lavoro e del sindacato. Sarebbe ben strano che il nuovo Pd di Renzi lasciasse oggi fuori dal suo steccato proprio i socialdemocratici naturali, per elevare alla dirigenza i convertiti dell’ultima ora. Il 31 ottobre 2012, quando nel Pd si inneggiava alla Ditta D’Alema-Bersani, quando Rosy Bindi puntava al Quirinale, quando Gianburrasca Renzi era considerato un nemico da abbattere Alessandro Maran scriveva un fondo su questo giornale dal titolo: “Ragioni della scelta di votare Renzi”. Un fondo che fu accolto dalle stesse critiche che oggi i presunti renziani (di corrente governativa, così come di area civatian-orfiniana) rivolgono proprio all’autore del testo. Scriveva Maran: «Voterò per Matteo Renzi. Sono dell’opinione che il centrosinistra abbia bisogno di una rigenerazione, sia pure al prezzo di qualche scossa» E aggiungeva: «Si può pensare quello che si vuole di Matteo Renzi, ma non c’è dubbio che nei suoi discorsi (e nel suo programma) abbia ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale; e non c’è dubbio che è con queste idee che prova a sfidare la maggioranza del Pd. Diciamoci la verità: il più delle volte, le riforme che sarebbero necessarie (per trasformare un sistema giudiziario bizantino, un governo locale sciupone, un sistema sanitario scricchiolante ecc.) sono impopolari e rischiare l’impopolarità nei punti di forza tradizionali (il pubblico impiego, per esempio), puntando sulla riconoscenza delle generazioni che verranno, esige un coraggio che gli attuali leader del Pd non hanno. Il punto irrisolto è sempre lo stesso». E scriveva infine: «Dovesse prevalere Renzi alle primarie, non finiremmo nell’anarchia, ma il Pd diventerebbe un partito un po’ più simile a quelli (di sinistra) europei. Mentre le sinistre europee rompono anche simbolicamente con il loro passato perché sono obbligate a considerare nuovi problemi e traguardi, il Pd si auto-confina nel recinto della sinistra tradizionale». Tralascio per buon gusto di riportare ciò che in quegli stessi mesi scrivevano di Renzi i dirigenti che oggi contestano Maran chiamandolo «opportunista». A chi segue la politica, viene difficile immaginare che l’ex segretario dei Ds, fra i promotori dell’operazione Illy del 2003, fra gli ideatori del referendum che ha portato anche in Friuli Venezia Giulia l’elezione diretta del governatore, possa essere considerato un “opportunista”, perché dopo avere lavorato per i democratici sulla riforma della giustizia alla Camera, un paio di capibastone friulani con due-tremila voti di tessere Pd hanno scelto i nuovi deputati alle primarie, gridando a un’iniezione di democrazia partecipativa, quando tutti sappiamo che se si volesse un parlamento eletto dai cittadini si farebbe una legge elettorale dove i cittadini possano scegliere chi eleggere. Detto questo, credo che la natura stessa del Pd renziano sia quella di allargarsi. E di crescere dentro una società italiana che finora non aveva votato a sinistra. Sta qui il fulcro della novità dei Dem rispetto al passato. E passa attraverso scontri di idee che possono lasciare anche delle ferite. Quella lasciata da Maran, il giorno del difficile addio, era una ferita politica. Che va sanata con il dibattito, con il confronto sulle idee, con lo scontro anche duro. Ma non con le argomentazioni della “casta” usate contro la “casta” dalla stessa “casta”. Non dicendo, dopo tre legislature nel Palazzo, che gli altri fanno tutto per una poltrona mentre noi che critichiamo siamo la “politica pura”. Dopo avere cambiato magari casacche e correnti di partito a ogni elezione di segretario.