Quello italiano è «un mondo del lavoro basato sull’apartheid» ha detto Matteo Renzi alla Camera dei deputati, usando le stesse parole che aveva adoperato durante le primarie del 2012, quando, nei suoi discorsi e nel suo programma, il sindaco di Firenze aveva ripreso le idee-chiave della sinistra liberale e con quelle idee aveva provato a sfidare la maggioranza del Pd; e quando a dargli una mano nel Pd, con il giuslavorista Pietro Ichino, oggi senatore di Scelta Civica, eravamo in quattro gatti.
«Al termine dei mille giorni – ha detto martedì il Capo del Governo – il diritto del lavoro non potrà essere quello di oggi. Io ritengo, assumendomi la responsabilità di quello che dico, che non ci sia cosa più iniqua in Italia di un diritto del lavoro che divide in cittadini di serie A e di serie B: tu sei una mamma di 30 anni, sei una dipendente pubblica o privata, hai la maternità; sei una partita IVA, non conti niente; tu sei un lavoratore, stai sotto i 15 dipendenti, non hai alcuna garanzia, stai sopra sì; tu sei uno che ha diritto alla cassa integrazione, ma dipende dall’entità, dall’importanza, dalle modalità della cassa integrazione ordinaria, di quella straordinaria, di quella in deroga. Questo è un mondo del lavoro basato sull’apartheid…».
Insomma, Matteo Renzi, ha detto a chiare lettere che l’esperienza di governo è legata a due questioni cruciali: il mercato del lavoro (sul quale ha detto di essere disposto ad intervenire anche con un decreto se il Parlamento – e cioè il Pd – cercherà di traccheggiare sul disegno di legge delega) e la giustizia (tema sul quale il segretario del Pd ha finalmente proclamato – vedi il caso Eni – una visione garantista). Giustamente, Renzi ha sottolineato che «dobbiamo dare un messaggio, non già all’Europa, non già a soggetti esterni a noi, ma innanzitutto a noi stessi». Ma, ovviamente, dobbiamo dare un messaggio «anche» all’Europa. Sulla scrivania di Palazzo Chigi c’è ancora la celebre lettera della Bce con un elenco di cose da fare; e per contrattare con l’Unione europea una maggiore flessibilità sui conti pubblici, dobbiamo approvare una riforma strutturale che ci chiedono da anni. Qualcuno, naturalmente, giudicherà «inaccettabile» il diritto del lavoro secondo Renzi. E i gattopardi annidati nelle strutture ministeriali sono pronti ad annegare nel burocratese i propositi di riforma. Ma alla fine le cose andranno come devono andare. E perfino una Regione come la nostra dovrà scuotersi dal dormiveglia (anche se in ritardo: Lazio e Lombardia – regioni ordinarie – si sono attrezzate da tempo) e sperimentare il «contratto di ricollocazione» (ora nel Jobs Act), uno strumento indispensabile per coniugare sostegno ai reddito dei disoccupati e misure per il loro reinserimento.
I riformisti, si sa, sono continuamente derisi da chi prospetta future palingenesi. Ma dovrebbe rincuorarci il fatto che, come avvertiva Keynes, «presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male».