Monthly Archives: Nov 2014

GIORNALI2014

Il Piccolo, 27 novembre 2014 – Maran: «Questa è giustizia negata»

L’ESPONENTE DI SCELTA CIVICA Chi altri doveva organizzare il lavoro? Contro la disorganizzazione non c’è legge che tenga

«Quella del giudice Trotta sembra una dichiarazione d’impotenza». Casson: «Più di un anno? Mi sembra un po’ troppo…»

di Laura Borsani
A oltre un anno dalla sentenza del primo maxi-processo amianto, pronunciata il 15 ottobre 2013, si dovrà dunque ancora attendere «qualche mese» prima di veder depositate le motivazioni. Si andrà al prossimo anno. Le parole del presidente del Tribunale di Trieste, Matteo Trotta, se volevano rassicurare hanno invece suscitato l’effetto opposto. Parole lette come «un’ammissione di impotenza». Ritardi ritenuti “angoscianti” e “stupefacenti”. L’ex magistrato e attuale senatore del Pd, Felice Casson, ha osservato, pur evidenziando la necessità di “vedere le carte processuali” per essere in grado di esprimere un parere compiuto sul “caso monfalconese”: «Più di un anno, mi sembra un po’ troppo». Ma il senatore di “Scelta civica”, Alessandro Maran, va ben oltre: «Trovo stupefacente – ha esordito – che dopo più di un anno dalla pronuncia della sentenza non sia stata ancora depositata la motivazione. Non c’è dubbio che, come sottolinea il giudice, il compito sia “notevole”, ma quella del presidente del Tribunale di Trieste sembra un’ammissione di impotenza. Chi altri deve redigere e depositare le motivazioni? Chi altri deve organizzare il lavoro? Contro la disorganizzazione non c’è legge che tenga». Maran ha aggiunto: «Prendo atto che per il giudice la sentenza sulle vittime dell’amianto è una priorità assoluta. Sulla questione, tuttavia, interpellerò il Ministro della Giustizia. Una giustizia troppo ritardata è una giustizia negata». Parlare ancora di attesa, sotto l’incedere dei tempi di prescrizione, non può rassicurare. Un processo emblematico e significativo, per il quale sono stati sanciti il reato di omicidio colposo e le relative responsabilità, consegna un quadro che già di per sè s’allontana dall’esigenza di poter avere una giustizia compiuta. L’avvocato Riccardo Cattarini, difensore di due degli imputati al maxi-processo usciti assolti, responsabile regionale giustizia per il Pd, ha definito «angosciante» la prospettiva di altri mesi di attesa circa le motivazioni alla sentenza. Il legale chiama in causa anche il sistema gestionale della giustizia: «È mancato un sostegno complessivo, di tutti ma in particolare dell’amministrazione della giustizia perchè i grandi e indubbiamente riconosciuti sforzi prodotti dalla magistratura fossero portati definitivamente a compimento». Cattarini quindi ha argomentato: «Se da un lato bisogna riconoscere al giudice Trotta, e ancor prima a due bravi sostituti procuratori, Leghissa e Bossi, e a tutti i loro collaboratori, di avere avuto una forza e un’energia incredibili e che senza di loro il maxi-processo non si sarebbe mai celebrato, è davvero angosciante apprendere che si dovrà ancora aspettare. Avevo già definito questo processo storico per il nostro territorio, e ne sono ancora oggi pienamente convinto. Tuttavia, c’è stato un problema che attiene alla gestione della giustizia e questo giustifica i ritardi: Trotta, assieme alla celebrazione del processo, ha dovuto occuparsi di tutte le attività che gli spettavano come presidente del Tribunale di Gorizia, le difficoltà del quale sono a tutti note. Così il processo s’è trascinato qualche volta stancamente, con 3, massimo 4 udienze al mese, mentre ne sarebbero state necessarie almeno una quindicina, quasi tutti i giorni, al massimo a giorni alterni. Ora lo stesso magistrato, proprio nel momento in cui aveva iniziato a stendere la motivazione, è stato nominato a presidente del Tribunale di Trieste: carica evidentemente importante, ma che gli porta via un sacco di tempo in questioni organizzative e che non hanno nulla a che fare con la stesura delle motivazioni alla sentenza per il processo di Gorizia, e il rischio-prescrizione inevitabilmente cresce».
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GIORNALI2014

Messaggero Veneto, 15 novembre 2014 – «DEBORA, ORA SERVONO I FATTI»

Ha detto bene Serracchiani: «La Specialità non solo non è in discussione, ma diventa una risorsa per tutto il Paese quando le riforme del territorio hanno la forza di essere un modello per l’Italia». Giusto. Bisogna però darsi una mossa. La nostra Regione gode di un’ampia potestà legislativa per profili rilevanti in tema di lavoro. Eppure, il «contratto di ricollocazione» (ora nel Jobs Act), uno strumento indispensabile per coniugare il sostegno al reddito dei disoccupati e le misure per il loro reinserimento, muove i primi passi nel Lazio, una Regione ordinaria. Mentre in Fvg tutti i passi compiuti in passato (in particolare con Illy) per riformare gli assetti istituzionali del mercato del lavoro sono stati accantonati e la stessa Lr 18/2005, che allora presentava indubbi profili innovativi per la gestione delle crisi occupazionali, appare in ritardo rispetto alla normativa nazionale. Il Masterplan regionale dei servizi per il lavoro 2011-2013, predisposto a suo tempo dall’Agenzia regionale per il lavoro, è rimasto, nonostante i cospicui investimenti, un abbozzo. Con quel documento ci si proponeva di valorizzare e favorire le forme di integrazione e collaborazione tra i servizi pubblici e quelli di natura privata. Ora (pur avendo a disposizione già un documento pronto, da aggiornare), pare che l’assessore competente, Loredana Panariti, stia promuovendo la redazione di un muovo Masterplan. È verosimile che non condivida la filosofia di fondo di quello già approvato: un modello basato sulla creazione di una rete di servizi al lavoro nella quale, pur restando la governance in mano all’operatore pubblico, i diversi attori privati siano permanentemente coinvolti in base alle specifiche competenze. Infatti, il confronto fra Pipol, il principale intervento messo in atto dall’attuale giunta in termini di politiche attive del lavoro, e il progetto Restart, una delle sperimentazioni di decina di anni fa, è chiarificatore. Restart era un progetto di cooperazione tra sistema pubblico e privato, finalizzato al reinserimento lavorativo dei soggetti coinvolti in crisi occupazionali, basato su attività di accompagnamento al reinserimento lavorativo, di formazione rivolta all’occupabilità, di azioni di promozione presso la domanda di lavoro necessarie per la raccolta dei posti vacanti. Pipol, al contrario, riporta la centralità degli interventi sui Centri pubblici per l’impiego, riservando loro addirittura la gestione diretta di una quota di tirocini in azienda, nella maggioranza delle altre regioni ordinarie appannaggio invece degli operatori privati; non vi è un adeguato e tempestivo coinvolgimento delle imprese, come avviene in Veneto, dove le risorse sono erogate solo a partnership composte contemporaneamente da enti di formazione, Agenzie per il Lavoro e aziende interessate ad assumere; non si coinvolgono subito gli operatori privati, sebbene il loro ruolo sia centrale, tant’è che non è stata neanche attivata la misura relativa all’accompagnamento al lavoro. Purtroppo, così com’è concepito, il progetto Pipol è destinato a fallire e a tradursi in un grande spreco (circa 40 milioni di euro). Nessuno a cui capiti di perdere un lavoro può, infatti, essere aiutato efficacemente a trovarne un altro, se la politica della Regione si limita a far compilare a quella persona una pratica inutile che resta ferma sui tavoli dei Centri pubblici per l’Impiego. E il guaio è che gli enti di formazione, le ex-agenzie interinali, i consulenti del lavoro e le imprese non sono concretamente coinvolti nella progettazione e gestione dei percorsi di reinserimento dei disoccupati. Serracchiani crede davvero che il sistema pubblico sia in grado di coordinare e stabilire con la stessa efficacia di quello privato l’indispensabile rete di contatti, collaborazioni e progettualità con le aziende regionali? Non è così. Invece di continuare ad assumere e stabilizzare dipendenti pubblici per mantenere in vita un sistema fallimentare di ricollocamento al lavoro, la Regione dovrebbe affidare tale sistema nelle mani delle strutture e organizzazioni private che operano a stretto contatto con le imprese e che con queste possono collaborare per costruire efficaci percorsi personalizzati di incrocio tra la domanda e l’offerta di lavoro. Non è forse questa l’idea di fondo del Jobs Act di Renzi? E, come in ogni battaglia riformista, ci vuole coraggio, bisogna superare una montagna di egoismi. Solo così si diventa davvero speciali
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Il Piccolo, 2 novembre 2014 – «Vanno respinti i profughi già bocciati in altri Paesi Ue»

Il ministro Alfano risponde a un’interrogazione di Maran: «Non c’è alcun vuoto normativo». Il senatore isontino: «Attrezzare meglio le commissioni»

 

di Francesco Fain

«La commissione può respingere i richiedenti-asilo già bocciati da altri Paesi europei. Non c’è alcun vuoto normativo». A chiarirlo il ministro dell’Interno Angelino Alfano che, giovedì scorso, ha risposto in diretta tv a interrogazioni a risposta immediata sulla gestione dei flussi migratori e sulle risorse e l’organizzazione delle forze di polizia.

L’interrogazione di Alessandro Maran

Ad incalzarlo il senatore Alessandro Maran che ha portato alla ribalta parlamentare il “caso-Gorizia” che è deflagrato in tutta la sua emergenza nelle ultime settimane e che ha avuto un caposaldo importante nelle ultime affermazioni del prefetto Vittorio Zappalorto. «Gorizia e tutto il confine orientale continuano ad essere meta di nuovi arrivi e le strutture sono sature – l’interrogazione di Maran -. Il punto però è che si tratta in buona parte di persone che hanno già formulato una richiesta di protezione internazionale presso un altro Paese dell’Ue, rispetto alla quale le autorità competenti si sono pronunciate negativamente. Si tratta di persone che provengono in buona parte dal Pakistan e dall’Afghanistan e che dopo aver vissuto per diversi anni in diversi Paesi europei e non aver ottenuto da questi il riconoscimento della protezione internazionale (in qualche caso si tratta di cittadini rimpatriati ripetutamente) vengono poi in Italia per presentare una nuova analoga istanza di analoga protezione presso le autorità italiane. Si registra, in altre parole, una sorta di turismo della protezione internazionale, per cui lo straniero che si vede rigettare la domanda da parte delle autorità di uno Stato dell’Unione la riformula presso un altro Stato, nella speranza di vederla accolta. Posto che i parametri dell’esame sono gli stessi per tutti i 28 Paesi dell’Unione e che la valutazione deve essere comune, la commissione deve poter dichiarare inammissibile la richiesta di protezione internazionale, una volta accertata la mancanza di fatti nuovi e in presenza di una o addirittura di più decisioni negative da parte di altri Paesi dell’Unione europea. I giuristi direbbero: ne bis in idem».

La risposta del ministro Alfano

Un problema reale, la risposta di Alfano. Che ha aggiunto: «Siamo di fronte a una sorta di asylum shopping che investe tanti migranti. La eventuale pendenza di un’istanza di protezione internazionale presso un altro Stato membro è rilevata dall’autorità di pubblica sicurezza che riceve l’istanza attraverso la consultazione della banca dati dell’Eurodac – si legge nella risposta del ministro Alfano riportata nel resoconto stenografico -. In questo caso ne è informata immediatamente l’unità nazionale Dublino, che si interfaccia con l’omologo punto di contatto dell’altro Stato membro allo scopo di definire la competenza all’esame della domanda e concordare la ripresa in carico dello straniero. E questo è, stavolta a nostro vantaggio, in coerenza con i principi di Dublino». «Nel frattempo, le commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale – continua – vengono informate dell’eventuale pendenza di una domanda dello stesso soggetto presso un altro Stato e sospendono il procedimento, per poi dichiarare l’estinzione una volta accertata la competenza dell’altro Stato. Da questa ricostruzione, benché sommaria, emerge come si riscontrino vuoti normativi pressoché irrilevanti. Nell’incastro tra la normativa italiana e quella europea non vi sono particolari vuoti, né a livello nazionale né a livello sovranazionale, specificamente con riguardo alla disciplina europea. Neanche, a nostro avviso, possono ravvisarsi dei grandi problemi procedurali, perché la descrizione del procedimento che ho appena effettuato sconta in positivo il fatto che, con il meccanismo del circuito Eurodac, le risposte arrivano abbastanza velocemente. Questo è il risultato, che non dà particolari aggravi alle commissioni territoriali».

La replica del senatore isontino

Il senatore Alessandro Maran ha replicato al ministro Alfano, ringraziandolo della risposta riguardante il caso-Gorizia. «Si tratta naturalmente di dotare le commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale competenti degli strumenti idonei per l’accertamento delle pendenze di altre domande dello stesso tenore presso un altro Stato dell’Unione e, soprattutto, consentire alle commissioni di rigettare le domande, soprattutto in presenza di una o più decisioni negative da parte di un altro Paese dell’Unione», la sottolineatura dell’esponente di Scelta Civica.

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