L’ESPONENTE DI SCELTA CIVICA Chi altri doveva organizzare il lavoro? Contro la disorganizzazione non c’è legge che tenga
«Quella del giudice Trotta sembra una dichiarazione d’impotenza». Casson: «Più di un anno? Mi sembra un po’ troppo…»
«Quella del giudice Trotta sembra una dichiarazione d’impotenza». Casson: «Più di un anno? Mi sembra un po’ troppo…»
di Francesco Fain
«La commissione può respingere i richiedenti-asilo già bocciati da altri Paesi europei. Non c’è alcun vuoto normativo». A chiarirlo il ministro dell’Interno Angelino Alfano che, giovedì scorso, ha risposto in diretta tv a interrogazioni a risposta immediata sulla gestione dei flussi migratori e sulle risorse e l’organizzazione delle forze di polizia.
L’interrogazione di Alessandro Maran
Ad incalzarlo il senatore Alessandro Maran che ha portato alla ribalta parlamentare il “caso-Gorizia” che è deflagrato in tutta la sua emergenza nelle ultime settimane e che ha avuto un caposaldo importante nelle ultime affermazioni del prefetto Vittorio Zappalorto. «Gorizia e tutto il confine orientale continuano ad essere meta di nuovi arrivi e le strutture sono sature – l’interrogazione di Maran -. Il punto però è che si tratta in buona parte di persone che hanno già formulato una richiesta di protezione internazionale presso un altro Paese dell’Ue, rispetto alla quale le autorità competenti si sono pronunciate negativamente. Si tratta di persone che provengono in buona parte dal Pakistan e dall’Afghanistan e che dopo aver vissuto per diversi anni in diversi Paesi europei e non aver ottenuto da questi il riconoscimento della protezione internazionale (in qualche caso si tratta di cittadini rimpatriati ripetutamente) vengono poi in Italia per presentare una nuova analoga istanza di analoga protezione presso le autorità italiane. Si registra, in altre parole, una sorta di turismo della protezione internazionale, per cui lo straniero che si vede rigettare la domanda da parte delle autorità di uno Stato dell’Unione la riformula presso un altro Stato, nella speranza di vederla accolta. Posto che i parametri dell’esame sono gli stessi per tutti i 28 Paesi dell’Unione e che la valutazione deve essere comune, la commissione deve poter dichiarare inammissibile la richiesta di protezione internazionale, una volta accertata la mancanza di fatti nuovi e in presenza di una o addirittura di più decisioni negative da parte di altri Paesi dell’Unione europea. I giuristi direbbero: ne bis in idem».
La risposta del ministro Alfano
Un problema reale, la risposta di Alfano. Che ha aggiunto: «Siamo di fronte a una sorta di asylum shopping che investe tanti migranti. La eventuale pendenza di un’istanza di protezione internazionale presso un altro Stato membro è rilevata dall’autorità di pubblica sicurezza che riceve l’istanza attraverso la consultazione della banca dati dell’Eurodac – si legge nella risposta del ministro Alfano riportata nel resoconto stenografico -. In questo caso ne è informata immediatamente l’unità nazionale Dublino, che si interfaccia con l’omologo punto di contatto dell’altro Stato membro allo scopo di definire la competenza all’esame della domanda e concordare la ripresa in carico dello straniero. E questo è, stavolta a nostro vantaggio, in coerenza con i principi di Dublino». «Nel frattempo, le commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale – continua – vengono informate dell’eventuale pendenza di una domanda dello stesso soggetto presso un altro Stato e sospendono il procedimento, per poi dichiarare l’estinzione una volta accertata la competenza dell’altro Stato. Da questa ricostruzione, benché sommaria, emerge come si riscontrino vuoti normativi pressoché irrilevanti. Nell’incastro tra la normativa italiana e quella europea non vi sono particolari vuoti, né a livello nazionale né a livello sovranazionale, specificamente con riguardo alla disciplina europea. Neanche, a nostro avviso, possono ravvisarsi dei grandi problemi procedurali, perché la descrizione del procedimento che ho appena effettuato sconta in positivo il fatto che, con il meccanismo del circuito Eurodac, le risposte arrivano abbastanza velocemente. Questo è il risultato, che non dà particolari aggravi alle commissioni territoriali».
La replica del senatore isontino
Il senatore Alessandro Maran ha replicato al ministro Alfano, ringraziandolo della risposta riguardante il caso-Gorizia. «Si tratta naturalmente di dotare le commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale competenti degli strumenti idonei per l’accertamento delle pendenze di altre domande dello stesso tenore presso un altro Stato dell’Unione e, soprattutto, consentire alle commissioni di rigettare le domande, soprattutto in presenza di una o più decisioni negative da parte di un altro Paese dell’Unione», la sottolineatura dell’esponente di Scelta Civica.
Il senatore Alessandro Maran ha presentato un’interrogazione ai Ministri degli affari esteri e dell’interno dedicata proprio alla problematica dei migranti e dei richiedenti-asilo. Nell’interpellanza si chiede al governo «se intenda adottare provvedimenti, anche di natura normativa, tesi a dotare le specifiche commissioni di strumenti idonei all’accertamento della pendenza di altre domande del medesimo tenore presso altri Stati dell’Unione europea e, una volta accertata la mancanza di presupposti di fatto sopraggiunti, nuovi e diversi, consentire alle stesse di rigettare le domande». Ricordando che buona parte dei profughi che giungono a Gorizia sono già stati respinti da altri Paesi europei, Maran evidenzia che, «con una normativa omogenea ed univoca, per la quale si sollecita il governo ad intervenire, i criteri per il riconoscimento dello status di rifugiato sarebbe lo stesso in tutta l’Europa e questo porterebbe ad un minor numero di ingressi». Infine, Maran, chiede che «le commissioni possano usufruire delle banche-dati del sistema europeo Eurodac, previste dallo specifico regolamento». Maran aveva già presentato un emendamento e un ordine del giorno sul decreto riguardante la violenza negli stati ma essendo intervenuto il voto di fiducia sono decaduti per cui ha presentato l’interrogazione. «Va da sè che non è in discussione l’aspetto umanitario e, per molte ragioni, emergenziale del problema, basti pensare alle precarie condizioni di queste persone – conclude Maran -. Tuttavia la questione non può prescindere da un inquadramento normativo nazionale e comunitario che sia garanzia di conformità e di eguaglianza dei parametri di valutazione e trattamento della medesima fattispecie».
La Giunta regionale ha approvato la nuova bozza di articolato per il riordino del sistema Regione-Autonomie locali in FVG. Era ora. Ma vediamo di ricapitolare. Si era detto: togliamo di mezzo le province e ripensiamo ex novo l’articolazione del governo locale in regione. Giusto. Ma se le province avevano una ragion d’essere, ce l’avevano proprio laddove è maggiore la polverizzazione comunale. Dunque il vero nodo da affrontare resta quello dell’accorpamento dei micro-comuni.
La dimensione territoriale dei nostri comuni è ancora quella del Medioevo: la distanza che si poteva percorrere a piedi sulle strade di allora nelle ore di luce. Ma oggi l’economia del Paese ha bisogno di avviare grandi trasformazioni e il ripensamento di un’organizzazione territoriale finora policentrica e dispersa (un ripensamento che deve avvenire in direzione dell’apertura alla globalità, da una parte, e in direzione dell’integrazione tra più città e più sistemi locali, dall’altra) costituisce forse il capitolo più importante di questo progetto.
Le città, infatti, stanno mutando funzioni, posizione e funzionamento interno in tutta Europa e l’organizzazione della produzione e dei servizi, per tutte le cose di qualità, sta sempre più uscendo dal tradizionale spazio urbano, divenuto troppo limitato, per approdare ad aree più estese. E in tutta Europa, negli anni ’90, c’è stato un grande fervore riformatore per definire un nuovo ordine territoriale.
A Rotterdam un network amministrativo che include anche altre municipalità è stato tentato per definire la «Citta-regione»; a Lione si è creata una «regione urbana» con le città vicine e così via. In Germania i comuni erano addirittura 24.476 e ogni Land ha usato le ricette più convenienti per gli accorpamenti. In Baviera è stato individuato un comune-guida per ogni comprensorio sul quale intervenire affidando a esso i compiti fondamentali dell’amministrazione. In Renania-Westfalia invece si è proceduto a fusioni vere e proprie con l’obiettivo di base (poi raggiunto) di creare comuni con almeno 5mila residenti nelle aree agricole e con almeno 25mila in quelle industriali. Nel Canton Ticino 45 comuni si sono uniti in 15 nuove aggregazioni, in Danimarca hanno ridotto i Comuni da 1388 a 275, in Belgio da oltre 2500 a meno di 600, in Inghilterra da 1830 a 486. E potrei continuare.
Da noi? Almeno metà dei comuni italiani ha una popolazione inferiore ai 5000 abitanti e fin dal 1990 la legge prevede («in previsione di una loro fusione») l’unione di comuni «per l’esercizio di una pluralità di funzioni». Ma non è successo nulla. Non si è sperimentato nulla. Neppure in FVG, che pure vanta competenza legislativa «esclusiva» in materia di ordinamento degli enti locali. Anche se proprio uno studio della Regione degli anni ‘90 attestava addirittura che i comuni fino a 10mila abitanti sono un «vincolo allo sviluppo». E’ ora di prendere il toro per le corna. So bene che quello delle cento città è un mito antico della politica italiana, ma questa deve rinnovare le sue parole d’ordine se vuole affrontare le sfide del futuro. La globalizzazione è anche una competizione tra il settore pubblico di un paese e quello degli altri. La riorganizzazione della rete comunale è un compito storico, per il quale è tempo che la nostra «speciale» Regione cominci a lavorare almeno con la stessa sollecita attenzione dei Länder tedeschi.
Quello italiano è «un mondo del lavoro basato sull’apartheid» ha detto Matteo Renzi alla Camera dei deputati, usando le stesse parole che aveva adoperato durante le primarie del 2012, quando, nei suoi discorsi e nel suo programma, il sindaco di Firenze aveva ripreso le idee-chiave della sinistra liberale e con quelle idee aveva provato a sfidare la maggioranza del Pd; e quando a dargli una mano nel Pd, con il giuslavorista Pietro Ichino, oggi senatore di Scelta Civica, eravamo in quattro gatti.
«Al termine dei mille giorni – ha detto martedì il Capo del Governo – il diritto del lavoro non potrà essere quello di oggi. Io ritengo, assumendomi la responsabilità di quello che dico, che non ci sia cosa più iniqua in Italia di un diritto del lavoro che divide in cittadini di serie A e di serie B: tu sei una mamma di 30 anni, sei una dipendente pubblica o privata, hai la maternità; sei una partita IVA, non conti niente; tu sei un lavoratore, stai sotto i 15 dipendenti, non hai alcuna garanzia, stai sopra sì; tu sei uno che ha diritto alla cassa integrazione, ma dipende dall’entità, dall’importanza, dalle modalità della cassa integrazione ordinaria, di quella straordinaria, di quella in deroga. Questo è un mondo del lavoro basato sull’apartheid…».
Insomma, Matteo Renzi, ha detto a chiare lettere che l’esperienza di governo è legata a due questioni cruciali: il mercato del lavoro (sul quale ha detto di essere disposto ad intervenire anche con un decreto se il Parlamento – e cioè il Pd – cercherà di traccheggiare sul disegno di legge delega) e la giustizia (tema sul quale il segretario del Pd ha finalmente proclamato – vedi il caso Eni – una visione garantista). Giustamente, Renzi ha sottolineato che «dobbiamo dare un messaggio, non già all’Europa, non già a soggetti esterni a noi, ma innanzitutto a noi stessi». Ma, ovviamente, dobbiamo dare un messaggio «anche» all’Europa. Sulla scrivania di Palazzo Chigi c’è ancora la celebre lettera della Bce con un elenco di cose da fare; e per contrattare con l’Unione europea una maggiore flessibilità sui conti pubblici, dobbiamo approvare una riforma strutturale che ci chiedono da anni. Qualcuno, naturalmente, giudicherà «inaccettabile» il diritto del lavoro secondo Renzi. E i gattopardi annidati nelle strutture ministeriali sono pronti ad annegare nel burocratese i propositi di riforma. Ma alla fine le cose andranno come devono andare. E perfino una Regione come la nostra dovrà scuotersi dal dormiveglia (anche se in ritardo: Lazio e Lombardia – regioni ordinarie – si sono attrezzate da tempo) e sperimentare il «contratto di ricollocazione» (ora nel Jobs Act), uno strumento indispensabile per coniugare sostegno ai reddito dei disoccupati e misure per il loro reinserimento.
I riformisti, si sa, sono continuamente derisi da chi prospetta future palingenesi. Ma dovrebbe rincuorarci il fatto che, come avvertiva Keynes, «presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male».
Al direttore – Il vagheggiamento acritico del passato, il disprezzo del tempo presente e l’avversione e l’intolleranza per ogni innovazione, per ogni influsso «straniero», è forse quel che più colpisce nella discussione in corso sulla riforma del Senato. Le critiche di principio all’impianto della riforma nascono, infatti, da un modo nostalgico di atteggiarsi di fronte al tema: si prende atto, cioè, che non è più possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma si ritiene che quella specifica forma della partecipazione politica e quel particolare sistema politico-istituzionale siano i migliori; si cerca dunque di avvicinarsi il più possibile a quel modello e di salvare più elementi possibile di quella esperienza.
Messe così le cose, una seconda camera eletta dai consigli regionali e non dai cittadini sarebbe, in sostanza, una istituzione non democratica. Eppure, in Europa quella dell’elettività diretta della seconda Camera non è affatto una regola, ma tutto all’opposto. Ciò non avviene in Germania, né in Austria, né Francia e tantomeno nel Regno Unito. Solo 13 dei 28 paesi dell’Unione europea hanno una seconda camera e, tra questi, solo in cinque paesi i suoi membri sono eletti direttamente. Solo in tre di questi cinque paesi la seconda camera ha dei poteri legislativi rilevanti. E solo in Italia il Senato ha gli stessi poteri della Camera: un «relitto» di quando ciascuno degli schieramenti temeva il 18 aprile dell’altro. La combinazione di premio di maggioranza e senato non elettivo sarebbero poi una «macchinazione autoritaria». Dunque, il Regno Unito e la Francia non sono sistemi democratici? Il Senato francese non è eletto dai cittadini e la Camera dei Lords non è certo una istituzione eletta dal popolo. Eppure, come ha ricordato il prof. Roberto D’Alimonte, nel 2005 Tony Blair ha vinto il suo terzo mandato con il 35% dei voti e con questa percentuale il Labour ha ottenuto il 55% dei seggi. E con il 29% dei voti ottenuti al primo turno, il partito socialista di Francois Hollande ha conquistato il 53 % di seggi nella Assemblea nazionale.
Inoltre, chissà perché, «innalzare» le regioni e i governi locali al piano delle istituzioni parlamentari sembra ad alcuni inadeguato e perfino sacrilego. Dimenticando che sindaci e presidenti di regione sono autorità democratiche, elette direttamente, che non hanno nulla da invidiare in termini di pedigree democratico a senatori e deputati, magari eletti all’estero. Dimenticando che dall’azione delle regioni e dei comuni dipende larga parte dell’erogazione dei servizi sociali, dell’attuazione delle leggi e delle politiche statali, e della spesa pubblica. Dimenticando che porre all’interno delle istituzioni costituzionali il luogo del coordinamento tra la legislazione dello Stato e la sua attuazione nei territori è una necessità imprescindibile per il buon funzionamento del sistema costituzionale, visto che nostra Repubblica è già cambiata e oggi risulta incompiuta, a metà. Infatti, comunque la si consideri, la riforma del Titolo V, voluta dal centrosinistra e confermata dal voto popolare nel referendum del 2001, ha apportato alla Parte della Costituzione che regola i rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali, modifiche profondissime. E la mancanza del luogo parlamentare di mediazione è forse il principale punto critico della riforma. In carenza di una stanza di compensazione istituzionale degli interessi, l’incertezza ha, infatti, generato numerosissimi conflitti e la Corte costituzionale si è trovata costretta a dirimere questioni che hanno un alto tasso di opinabilità interpretativa e dunque un alto tasso di politicità.
Ciò nonostante, c’è chi continua sostenere che una riforma «copiata» da modelli nati in altre culture e in differenti circostanze storiche, male si attaglia alla nostra situazione perché, manco a dirlo, «l’Italia è diversa». Eppure, non c’è Paese che non si sia adattato ai grandi cambiamenti che, nel dopoguerra, sono intervenuti nell’organizzazione, nella funzione, nella stessa filosofia dello stato moderno. Dappertutto le sollecitazioni sono state più o meno le stesse, più o meno gli stessi sono stati i problemi che i sistemi di relazione centro-periferia hanno dovuto affrontare, e più o meno le stesse anche le risposte che hanno elaborato. Tutti i sistemi federali (o regionali) hanno poi cercato di far tesoro delle esperienze degli altri sistemi federali (o regionali). I tre sistemi federali di lingua tedesca si sono evoluti «copiando» a turno l’uno dall’altro; le esperienze regionali in Italia sono state studiate dagli spagnoli (che, ad esempio, ora stanno discutendo l’introduzione dell’elezione diretta del sindaco) e le esperienze costituzionali spagnole assieme all’esperienza federale (soprattutto) tedesca sono uno dei punti di riferimento del dibattito italiano sulla riforma costituzionale. Certo, non basta riformare la Costituzione per risolvere i nostri problemi. Ma alle difficoltà del Paese non è estranea la debolezza delle nostre istituzioni e il conservatorismo costituzionale che da anni paralizza qualunque tentativo di riforma e che confonde i limiti del processo costituente del ’47 dovuti alla Guerra Fredda (che gli stessi costituenti percepivano come limiti: Costantino Mortati definì il Senato «inutile doppione» della Camera) con dei pregi da mantenere. Forse non per caso, il nostro declino si è accentuato negli ultimi trent’anni con l’invecchiamento della popolazione e anche delle sue categorie critiche, secondo la legge descritta da Keynes sulle élites ingabbiate dalla cultura che le precede.
TTIP: SE DUE DEBOLEZZE FANNO UNA FORZA
L’ordine globale post-1945 vacilla: un’America stanca e un’Europa in crisi d’identità rischiano di gettare alle ortiche il primato occidentale. Il trattato transatlantico di libero scambio è più di un accordo commerciale. È l’unico modo di salvare il capitalismo democratico.
1. EUROPA E STATI UNITI STANNO CONDUCENDO negoziati volti a concludere un accordo di libero scambio tra i due maggiori mercati globali. La Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), attualmente in corso di negoziato, mira a rimuovere le barriere commerciali in una vasta gamma di settori per facilitare l’acquisto e la vendita di beni e servizi tra Europa e Stati Uniti. Sul tavolo delle trattative ci sono i temi legati al market access (dazi doganali, misure contro le importazioni, regole per l’accesso agli appalti pubblici), all’omogeneizzazione regolamentare (con il rilevante tema delle barriere commerciali non tariffarie) e ad aspetti che travalicano le relazioni bilaterali (proprietà intellettuale, sviluppo sostenibile). L’accordo, secondo ricerche indipendenti, potrebbe accrescere di 120 miliardi di euro l’economia europea e di 90 miliardi quella statunitense. Come annunciato dal premier Renzi durante lo State of the Union di Firenze, l’Italia vorrebbe accelerare i negoziati durante il suo semestre di presidenza per mettere l’Unione europea nelle condizioni di chiudere questo fondamentale dossier per il 2015.
Il partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti non avrà, tuttavia, un cammino facile. Le difficoltà non mancano. Fatalmente, su entrambe le sponde dell’Atlantico la Ttip è diventata un bersaglio del populismo di chi è contro il libero mercato. Gli americani sono riluttanti a compiere passi significativi prima delle elezioni di metà mandato del prossimo novembre. Ci saranno poi le presidenziali nel 2016 e i politici Usa dei due schieramenti non vogliono essere accusati di avere aperto con troppa leggerezza il mercato interno alla concorrenza europea, o di aver introdotto nuovi vincoli burocratici al business a stelle e strisce. Specie se si considera Washington sta negoziando simultaneamente un accordo di libero scambio altrettanto ambizioso con undici paesi della regione Asia-Pacifico (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Peru, Singapore e Vietnam) denominato Trans-Pacific Partnership (Tpp). Le trattative sono in corso da più tempo rispetto alla Ttip e hanno raggiunto uno stadio più avanzato, ma hanno mancato l’appuntamento conclusivo previsto per lo scorso dicembre. Molti ritengono necessaria la preliminare approvazione di una Trade Promotion Authority (Tpa), nota anche come fast track (corsia preferenziale), per consentire il passaggio dei due accordi al Congresso. Molto dipenderà dalla determinazione con la quale Obama sarà disposto a spendersi in un anno elettorale con i suoi colleghi democratici (parecchi dei quali sono piuttosto scettici sui benefici di questi accordi) per supportare il Tpa bill. La corsia non è indispensabile alla conclusione del negoziato Ttip, ma senza di essa ogni proposta di accordo (ammesso che veda la luce) è potenzialmente ostaggio di ogni genere di lobby al Congresso.
Anche in Europa, l’irruzione nel Parlamento europeo di formazioni antisistema e di forze protezionistiche (come il Front national francese), potrebbe incrinare la maggioranza necessaria ad approvare l’intesa con gli Stati Uniti. Stando ai promotori della campagna Stop Ttip!, l’accordo «rappresenta un nuovo e ancor più massiccio attacco ai diritti sociali e del lavoro, ai beni comuni e alla democrazia». Al solito, la Ue viene additata come complice del capitalismo internazionale.
Per il Movimento 5 Stelle (M5S) se «l’obiettivo dell’accordo è abbattere queste barriere in Europa come negli USA armonizzando le differenti normative in materia economica, ciò significa permettere alle imprese di speculare sulla vita di tutte e tutti i cittadini, muovendo senza alcun vincolo capitali, merci e lavoro per tutto il globo». Secondo i grillini, «la Ttip è la celebrazione della dottrina neoliberista», o meglio «è l’ideologia liberista che avanza, si trasforma e cambia pelle cercando di innalzare questi standard di qualità per creare plusvalore da nuove forme di sfruttamento dei beni, delle risorse e dei bisogni delle persone (…) Qui non si tratta di analizzare i benefici della Ttip, ma di rivedere totalmente la politica europeista figlia della stessa ideologia che sta alla base di questo negoziato». Stando così le cose, non sorprende che il viceministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda, supervisore per l’Italia della Ttip, lamenti di non aver mai sentito «argomentazioni concrete».
2. Nonostante le difficoltà, nel 2015 (poco dopo le elezioni americane di mid-term) potrebbe materializzarsi una finestra per chiudere l’accordo, magari attraverso quello che in gergo tecnico è detto un early harvest, un raccolto anticipato, cioè un pacchetto limitato alle misure sulle quali c’è già consenso. Una spinta ad accelerare il negoziato è venuta dal Consiglio europeo del 26 e 27 giugno scorsi, tra le cinque priorità dell’Unione ha indicato l’esigenza di completare i negoziati su accordi commerciali internazionali «compresa la Ttip, entro il 2015».
Tanto gli Stati Uniti che l’Unione europea sono interessati infatti a superare gli ostacoli interni (ed esterni: Cina e Russia, che hanno un forte potere di ricatto commerciale nei confronti di Berlino, faranno di tutto per allontanare le due sponde dell’Atlantico), perché ad entrambi sta a cuore stabilire norme in grado di regolare la futura economia mondiale. Infatti, solo se l’Europa e gli Stati Uniti saranno capaci di lavorare insieme per diffondere e far rispettare delle norme comuni in tutto il mondo, i servizi e le industrie americane ed europee potranno prosperare e garantire posti di lavoro ben pagati, in modo da combattere le disuguaglianze di reddito.
Alla base del trattato c’è, dunque, un motivo economico: come l’Europa, dopo la crisi anche l’America ha bisogno di aumentare le esportazioni. Con il più grande accordo di libero scambio mai realizzato finora, Europa e Stati Uniti darebbero vita ad un gigantesco mercato unico. Gran parte dei negoziati si giocherà sulle cosiddette barriere non tariffarie, ovvero su tutte quelle norme e quei regolamenti difformi tra le due sponde dell’Atlantico che frenano lo scambio di merci e gli investimenti reciproci. Fanno parte di questa categoria le restrizioni sanitarie sui prodotti agroalimentari, la richiesta di particolari requisiti per la fornitura di merci o di servizi alla pubblica amministrazione, le limitazioni dettate dalla cosiddetta «sicurezza nazionale» (militare, energetica eccetera) e tutte le regolamentazioni tecniche e normative sui prodotti e sui servizi. La riduzione o l’abolizione di queste barriere avrebbe effetti significativi su tutti i paesi coinvolti dall’accordo, sia direttamente perché accrescerebbe l’import-export di merci, sia per via indiretta agendo sulle variabili macroeconomiche. L’Italia sarebbe tra i paesi che più beneficerebbero in termini industriali dal buon esito dei negoziati. Particolarmente positivi potrebbero essere gli effetti per tutto il comparto dei mezzi di trasporto, dall’automotive all’aerospaziale, nonché per i principali settori di specializzazione italiana nel commercio mondiale: meccanica, sistema moda, alimentare e bevande. Nello scenario più ottimistico, a prezzi costanti si stima un aumento complessivo delle esportazioni italiane di merci prossimo ai due miliardi di euro.
Ma l’importanza strategica di un accordo per la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti tra le due aree economiche più avanzate del pianeta va molto oltre la sua valenza economica. La disponibilità americana ha un significato strategico. Il negoziato transatlantico su commercio e investimenti è una grande occasione politica per l’Occidente, forse l’ultima, per riuscire a influenzare in modo determinante, attraverso un accordo che interessa quasi la metà del pil mondiale, regole e principi di funzionamento dell’economia globale. Non è un mistero per nessuno che il vecchio ordine nato dalle macerie della seconda guerra mondiale rischia ormai di crollare. Molte cose stanno cambiando rapidamente e possono determinare la transizione verso un diverso assetto o verso un disordine planetario sconosciuto dagli anni Trenta. L’America non ha più la scala, la forza e neppure il consenso interno per agire come Atlante che regge sulle spalle il mondo, fungendo al contempo da locomotiva economica e garante della sicurezza militare. Non a caso, Michael Mandelbaum l’ha definita una frugal superpower. Sicuramente, l’era marcata da una politica estera americana espansiva sta finendo. Nei settant’anni trascorsi dall’entrata in guerra dopo Pearl Harbor nel 1941, raramente le costrizioni economiche hanno limitato l’azione degli Stati Uniti nel mondo. Ma i deficit crescenti del paese, alimentati dai costi enormi della crisi economica-finanziaria e dai programmi di protezione sociale, obbligheranno l’America ad una presenza internazionale più modesta.
Certo, in pochi anni il paese ha avviato una grande rivoluzione tecnologica nell’estrazione del gas e del petrolio non convenzionali, mediante le tecniche della fratturazione idraulica (fracking) e della perforazione orizzontale, che ha prodotto risultati straordinari. L’estrazione di idrocarburi non convenzionali (shale gas e shale oil) degli Stati Uniti condurrà ad un cambiamento decisivo nei mercati energetici globali e una politica centrata sulla riduzione della dipendenza nazionale dal petrolio estero può fare per l’America e per il mondo odierni quel che fece il contenimento dell’Unione Sovietica nel XX secolo. Ma se si sta spezzando l’ordine mondiale costruito dall’America, non è perché l’America stia declinando. Come sostiene Robert Kagan, al centro del malessere americano c’è il desiderio di dismettere gli inusuali gravami della responsabilità che si sono sobbarcati nella seconda guerra mondiale e nella guerra fredda le precedenti generazioni di americani, tornando a essere una nazione normale, più in sintonia con i propri bisogni che con quelli del resto del pianeta. In fondo, è comprensibile. Per un pezzo, gli americani hanno portato il mondo sulle loro spalle. Si può comprenderli se oggi vogliono metterlo giù. Gli alleati dell’America non possono portare un po’ più di questo peso? Forse, se gli europei smetteranno di eludere il problema delle politiche di difesa (Obama lo ha ripetuto fino alla noia) e se il negoziato transatlantico su commercio e investimenti verrà condotto con piena coscienza della posta in gioco. Se si farà strada cioè la consapevolezza che in assenza di una nazione democratica sufficientemente forte da essere un punto di riferimento e contrastare le potenze emergenti del capitalismo autoritario, allora un nuovo centro capace di esercitare una funzione ordinatrice può emergere soltanto come alleanza globale tra democrazie, cementata da un mercato comune. L’ampiezza del negoziato mira infatti a costruire una relazione più strutturale e soprattutto più politica con l’Europa.
Non si tratta un sogno millenarista. Diffondere il modello democratico significa ridurre l’aggressività esterna e creare un mercato meno esposto ai rischi di guerra; vuol dire favorire la stabilità politica e finanziaria, perché la democrazia regola in modo non conflittuale i cambi di potere; significa realizzare l’obiettivo di un capitalismo democratico, che comporta una ricchezza più diffusa e non concentrata. Non è detto che le cose vadano davvero così. Ma non c’è dubbio che il negoziato in corso può incidere anzitutto sulla condizione europea. C’è chi ritiene che sia inevitabile (e indispensabile) muoversi verso un’Europa più federale, più integrata e più forte nella sua capacità di parlare e agire all’unisono. Con le buone o con le cattive. C’è chi ritiene invece del tutto irrealistica l’idea di proseguire il processo di integrazione europea (bloccato dall’indisponibilitá dei singoli Stati membri), che l’Ue abbia ormai esaurito i suoi motivi di utilità e convenga piuttosto mantenere un minimo comun denominatore per poter sottoscrivere unitariamente l’area di libero scambio con l’America e «usare l’integrazione raggiunta per produrre nuova integrazione». Resta il fatto che il processo di approfondimento dell’integrazione europea è stato interrotto in attesa di tempi migliori e senza nuovi stimoli resterà nel limbo. La convergenza economica euro-americana è il punto di partenza di un disegno che consoliderebbe l’Occidente come l’alleanza più potente del pianeta e darebbe alle nazioni che ne fanno parte un impulso formidabile alla crescita, consolidando l’Ue sul piano politico ed economico.
Com’è noto, tutti i paesi europei hanno difficoltà strutturali ad attuare riforme di efficienza economica. La formazione di uno spazio economico transatlantico potrebbe creare un’area privilegiata per le esportazioni, ridurre l’impatto competitivo dell’estero, minimizzare il rischio energetico, creare un sistema favorevole e non ostile agli interessi europei. Ma il negoziato in corso può incidere anche sulla condizione dell’America. Per mantenere un’influenza mondiale indiretta, la strategia americana ha bisogno di creare un’area di libero scambio atlantica e una pacifica standone al centro; ha bisogno cioè di includere l’Europa (Ttip) e le altre democrazie asiatiche (Tpp) in un’alleanza anche economica grande abbastanza per imporre standard occidentali ad un sistema globale dove emergono nuovi poteri globali e regionali. Imporre alla Cina al rispetto di standard di non aggressività esterna e di ordine democratico interno non è solo un obiettivo morale; serve anche ad evitare che l’Impero del Centro finisca per implodere, con un impatto globale devastante.
A cent’anni dalla Grande guerra, rischiamo di tornare al sistema di relazioni internazionali in vigore ai primi del Novecento, fatto di potenze in competizione tra loro. L’integrazione di Europa e Stati Uniti è dunque una priorità. Se l’Europa si propone davvero di «civilizzare la globalizzazione» e gli Stati Uniti, come ripete Obama, «vogliono stare in prima linea sullo scenario mondiale» dovranno farlo assieme. Altrimenti nessuno, da solo, potrà farlo.
«House of Cards» è una serie televisiva statunitense adattata da Beau Willimon per il servizio di streaming Netflix e basata sull’omonima miniserie televisiva britannica. È interpretata da Kevin Spacey, nel ruolo di Frank Underwood, un politico senza scrupoli che mira ai vertici politici di Washington. In America è finita la seconda stagione e in Italia la prima stagione va in onda sul canale satellitare Sky Atlantic. «House of Cards» propone un punto di vista meravigliosamente cinico della «sausage factory» (così la chiamano gli americani, da una frase attribuita a Otto von Bismarck: «Se ti piacciono le leggi e le salsicce, non guardare mai come vengono fatte») più importante del mondo: il Congresso degli Stati Uniti. Naturalmente, le complicazioni dell’intreccio sono perlopiù irrealistiche, ma la trama cattura davvero i tratti (l’interesse egoistico, il doppio gioco, ecc.), corrispondenti alla teoria economica nota come Public choice: una teoria che considera i politici non come benevoli «monarchi illuminati» che hanno a cuore prima di tutto il benessere collettivo, ma come attori razionali guidati da interessi egoistici. In altre parole, reputa i politici molto simili a tutti noi: un miscuglio di egoismo e di nobili sentimenti. Al centro dello spettacolo c’è Frank Underwood, interpretato con sfrontatezza da Kevin Spacey. A prima vista, Underwood è un classico insider di Washington. Quel che vuole più di ogni altra cosa è il potere. Ma la sua ambizione è senza limiti. Underwood è pronto a fare qualsiasi cosa gli possa servire ad accumulare potere e lo vediamo fare cose terribili mentre cerca di scalare i vertici politici della capitale. In breve, Underwood non ė solo una persona sgradevole, è uno psicopatico. Perché allora, si è chiesto Russ Roberts su Politico, gli autori della serie televisiva ne fanno un democratico? Perché vogliono che ci piaccia. Certo, è un verme. Ma c’è qualcosa di lui che ci affascina. E lo show non avrebbe funzionato se Underwood fosse stato del tutto spregevole. E per molti spettatori ciò significa che non può essere un repubblicano. Perché, spiega Roberts, per un numero significativo di spettatori i repubblicani sono automaticamente rivoltanti, in un modo in cui i democratici non potranno mai esserlo. Perché? Molto semplicemente, i democratici (anche in America) vantano una sorta di superiorità morale nei confronti dei repubblicani. Si sa, i Democratici vogliono aiutare i bambini, le madri single, i lavoratori a basso reddito, mentre i repubblicani vogliono ridurre la spesa per l’istruzione, i poveri, gli anziani, ecc. Del resto, oggi il GOP è il partito dello «Stato minimo», o almeno più contenuto. E come osserva Roberts, «finché i repubblicani non avranno una visione positiva di dove ci può condurre uno Stato più leggero, avranno tempi duri. Perché senza questa visione positiva, è facile dipingerli come meri avversari dei Democratici. E se i Democratici vogliono usare l’intervento pubblico per aiutare le donne, i bambini e i poveri, che cosa implica per i Repubblicani? È davvero singolare. «House of Cards» lascia intendere che l’amministrazione pubblica ed il processo politico siano una fogna. Eppure, la maggior parte dei suoi sostenitori continuano a chiedere di incanalare più soldi proprio attraverso quel letamaio». Tradotto in italiano: non ci sarà alcuna ristrutturazione del centrodestra, non ci sarà alcuna riforma dello Stato, e la sinistra riformista non spezzerà davvero le sue catene se anche dalle nostre parti non si farà strada l’idea che bisogna ridurre gli spazi dell’intermediazione politica in tutta la società; che uno «Stato leggero» ci può restituire lo spazio per lavorare insieme in tutti i modi davvero significativi che si possono trovare in una società libera: costruendo solidarietà, no profit e imprese. Se non si farà strada la consapevolezza che la presenza diffusa di intermediazioni politiche, la crescita costante dell’interposizione pubblica, ossia dell’attività di intermediazione dello Stato, di regioni, province e comuni, soffoca i molti modi con i quali ci possiamo aiutare a vicenda con scelte volontarie; che ciò strangola la società civile (la rete di connessioni che emerge tra la gente quando viene meno l’interposizione pubblica); che le iniziative dal basso possono contribuire a fare del mondo un posto migliore, con migliori risultati di quelle calate dall’alto e dell’approccio coercitivo del big government. Lo scrive Yuval Levin nella nuova agenda politica della destra americana:«La premessa del conservatorismo è sempre stata che quel che più conta nella società accade nello spazio tra l’individuo e lo Stato. Lo spazio occupato dalle famiglie, dalle comunità, dalle istituzioni civiche e religiose e dall’economia privata. E creare, sostenere, proteggere quello spazio e aiutare tutti gli americani a prendere parte attiva in quel che là accade sono tra i principali obiettivi del governo». Che è come dire: dateci l’opportunità di scoprire il modo migliore per aiutarci a vicenda. Finché i repubblicani (e la destra di casa nostra) non troveranno il modo di spiegare la battaglia per uno «Stato leggero» come un modo per promuovere lo sviluppo umano e non solo per tagliare le tasse, cederanno il terreno morale ai democratici. Ma vale anche (nei democratici) per la sinistra riformista. Lo diceva Tony Blair:«L’annoso problema del vecchio socialismo era la tendenza a sottomettere l’individuo, i diritti e i doveri, all’idea del bene pubblico che nel momento peggiore divenne semplicemente lo Stato. L’errore della destra odierna è quello di credere che l’assenza di comunità equivalga alla presenza di libertà. Il compito è quello di recuperare la nozione di comunità, svincolarla dal concetto di Stato e farla ritornare ad essere qualcosa a vantaggio di noi tutti. E’ ora di costruire una nuova comunità con una visione moderna della cittadinanza».
TRIESTE – «Una vittoria dello schieramento europeista su quello contrario, molto composito,che pure raggiunge comunque un risultato ragguardevole». Alessandro Maran, senatore di Scelta Civica, esamina quello che si profilava come «un referendum tra Renzi e Grillo. Questo referendum lo ha stravinto Renzi. E pensare che quando con Ichino, nel Pd, parlavamo di “vocazione maggioritaria” ci prendevano in giro…». Secondo Maran «l’attuale maggioranza esce dalle elezioni rafforzata dallo straordinario successo personale del capo del Governo. Ora bisogna fare le riforme e far uscire al più presto il Paese dal guado». Scelta Civica invece ha ottenuto «un risultato largamente al di sotto anche delle previsioni più prudenti». Un esito deludente che per Maran porta ad alcune lezioni da trarre: «La prima è che nessun partito può vivere senza un leader. Scelta Civica ha perso il suo, Monti, già nei suoi primi mesi di vita. La seconda lezione è che l’onestà e la competenza professionale non bastano». Maran rimane comunque convinto «che Scelta Civica sia stata comunque utile al Paese, perché senza Scelta Civica nel febbraio 2013 Silvio Berlusconi avrebbe molto probabilmente conquistato il premio di maggioranza alla Camera. Il che significa che avremmo rischiato di ritrovarcelo presidente della Repubblica. E anche se avesse vinto l’asse Bersani-Vendola, ciò avrebbe rinviato sine die la trasformazione del Pd in un grande partito capace di conquistare voti al centro dello schieramento politico». Gianluigi Gigli, deputato dei Popolari per l’Italia, valuta «con favore lo stop del fenomeno grillino e la possibilità per il Governo di affrontare con maggiore autorevolezza le prossime scadenze in Italia e dell’Italia in Europa, in quell’ottica riformatrice fondamentale per portare sviluppo, risorse e occupazione». Guardando all’area centrista di cui fa parte, Gigli registra «con estremo dispiacere, ed è per questo che mi sono chiamato fuori dalla campagna elettorale, l’incapacità di dare vita per ora a un progetto alternativo che fosse distinto e distante dalla proposta berlusconiana e da ogni forma di populismo e, nel contempo, competitiva nei confronti della sinistra». Un vuoto che ha portato «una fascia di elettori che fa riferimento a un’area di centro e popolare – continua Gigli – ad astenersi o a rivolgersi direttamente al Partito Democratico. Non è colpa di Renzi, che anzi ha avuto il merito di intercettare queste sensibilità, ma demerito nostro. Occorre riflettere su questo dato – conclude il deputato centrista – superando personalismi, antipatie e povertà di ideali che hanno immiserito la possibilità di creare una vasta area popolare. La stabilità che Renzi può ora garantire ci da tuttavia il tempo per riprendere il filo interrotto di un progetto, in grado di attirare un elettorato che non può restare orfano di riferimenti politici». (r.u.)