Monthly Archives: Mar 2017

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Comincia il divorzio dalla UE

Per completare il ritiro del Regno Unito dall’Unione europea ci vorranno due anni. Ma dall’altro ieri è cominciato il conto alla rovescia. Ora che il governo inglese ha notificato formalmente al Consiglio europeo la sua intenzione di lasciare l’Unione Europea, il Regno Unito ha superato il punto di non ritorno. Potrebbe rivelarsi il più grande atto di autolesionismo nella storia politica moderna. Contrariamente a quel che il ministro degli esteri inglese Boris Johnson ha promesso, il Regno Unito non potrà, infatti, avere la botte piena e la moglie ubriaca. Stando a Dalibor Rohac dell’American Enterprise Institute “Ninety-six percent of economists agree that a Brexit would have substantial economic cost to the U.K. economy“. Senza contare che il resto dell’Unione è deciso a far capire chiaramente a tutti che lasciare il club ha delle ovvie ripercussioni negative.

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La protesta dei giovani russi

Com’è risaputo, Lega Nord e grillini trattengono a stento i brividi di ammirazione per la Russia del presidente Putin. Entrambi vedono Putin come un punto di riferimento e vogliono togliere le sanzioni alla Russia. Salvini rifiuta di ammettere la natura autoritaria del potere russo (sebbene la corruzione, l’intolleranza e l’assenza dello stato di diritto siano diventati i tratti distintivi della Russia di Putin) e il M5s propone addirittura l’uscita dell’Italia dalla Nato, perché la ritiene responsabile delle tensioni con Mosca. Come ricorda oggi sul Foglio Luciano Capone, “nelle poche paginette del “Libro a 5 stelle” per la riforma dell’Europa presentato da Di Maio, la Russia compare due volte, la prima per dire che bisogna togliere le sanzioni a Mosca e la seconda per dire che l’Europa deve smetterla di fare “propaganda” anti russa”.

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«Non si può essere timidamente europeisti, altrimenti abbiamo già perso»

«On ne peut pas être timidement européen, sinon on a déjà perdu». Lo ha detto Emmanuel Macron venerdì scorso in un’intervista a Libération: «Non si può essere timidamente europeisti, altrimenti abbiamo già perso». Per quei leader politici che non si riconoscono nella retorica sfascista dei movimenti populisti, è la prima cosa da fare. Ne scrive oggi Claudio Cerasa, che prova a sintetizzare il tutto in parole semplici: «i paesi dell’Europa (e non solo) crescono quando intensificano la produttività del lavoro, sfruttano le leve dell’export, scommettono sulla globalizzazione. I movimenti anti sistema scommettono su un modello contrario e dicono esplicitamente che la produttività non è un problema, che l’apertura dei mercati è il male della nostra epoca, che il protezionismo è il futuro». Per smontarli, bisogna partire da qui, da quello che il direttore del Foglio chiama il «cialtronismo anti sviluppista dell’agenda economica dei nuovi populisti».

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La campagna elettorale è la parte facile

L’Obamacare (Affordable Care Act) resta in vigore.

Il New York Times ha osservato in modo perfido: “For Mr. Trump, it is a rather brutal reminder that campaigning is the easy part”.

Il presidente americano, nelle scorse settimane, aveva già lamentato candidamente, scoprendo con incredulità qualcosa che dovrebbe essere chiaro a tutti, l’incredibile complessità della questione. “Now, I have to tell you, it’s an unbelievably complex subject,” aveva detto. “Nobody knew health care could be so complicated”. Fatto sta che il Ryancare, la nuova riforma della sanità che prende il nome dallo speaker della Camera, non ha i voti sufficienti tra i repubblicani. La cosa non deve sorprendere. In un articolo del gennaio scorso scrivevo che molti elementi dell’eredità di Obama saranno difficili o impossibili da cambiare in maniera permanente; e a proposito di Obamacare, che “Trump dovrà fare i conti con una logica politica molto semplice: è facile ostacolare l’introduzione di nuovi benefici, ma è molto difficile cancellare quelli che ci sono già”.

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GIORNALI2017

italiaincammino.it, 24 marzo 2017 – Terrorismo: un problema da risolvere uniti

Dopo l’attentato del 2005 a Londra che ha ucciso 52 pendolari e ne ha feriti altri centinaia, il primo ministro inglese Tony Blair ha rilasciato un dichiarazione dal suo ufficio al numero 10 di Dowing Street nella quale ha reso omaggio a due qualità molto specifiche dei Londoners, «lo stoicismo e la resilienza»,  garantendo che i cittadini «resteranno fedeli allo stile di vita inglese».

«Londra è più forte di qualunque terrorista» un londinese ha scritto in una e-mail alla CNN nei giorni successivi all’attacco: «Un atto di viltà non mi impedirà, né impedirà a qualunque altro londinese, di condurre una vita normale. Ci possono colpire ogni giorno della settimana ma noi continueremo a lavorare e a vivere liberamente».

E ancora una volta, concludendo la breve dichiarazione con la quale ha condannato l’attacco di mercoledì, il Primo Ministro Theresa May ha sottolineato questo credo: «Domani mattina il parlamento si riunirà normalmente. Ci riuniremo come sempre. E i londinesi – e gli altri che da tutto il mondo sono venuti a visitare questa grande città – si alzeranno e continueranno la loro giornata normalmente».

Terrorismo e dinamiche elettorali

L’attacco terroristico di Londra, con la sua combinazione di morti casuali e della forte carica simbolica di un parlamento chiuso, capita in un anno elettorale decisivo in una serie di importanti paesi europei e in un momento di grande incertezza per l’ascesa del populismo, l’immigrazione e l’integrazione dei musulmani. Con la Francia, la Germania e, più in là, l’Italia che stanno per andare al voto, in molti si sono chiesti da tempo se un atto di terrorismo avrebbe potuto condizionare le dinamiche elettorali e assecondare la vasta «narrazione» sulla «Europa in crisi» che ha fin qui imposto i partiti di estrema destra in tutto il continente.

Terrorismo come fattore di unione

C’è chi ritiene che quel che è accaduto avrà una eco in Francia, ma un attacco relativamente limitato, come quello di Londra, è poco probabile che possa sconvolgere il confronto elettorale. Buona parte degli elettori europei, sono certo turbati ma hanno messo nel conto il costo del terrorismo, almeno quando succede lontano dai loro confini e quando il tributo non è così alto.

E questo, come ha osservato il direttore di Chatham House scorrendo rapidamente la lista delle città europee che sono state colpite negli ultimi due anni, unisce Londra, Parigi, Nizza, Berlino e Bruxelles nello stesso spazio politico. Se un attacco terroristico può alimentare la “narrazione” di una minoranza,  può anche unire politicamente gli europei in un momento in cui è costante il rischio di frammentazione.

A Roma per il 60°anniversario dell’Europa

L’unità è quel che, infatti, i leader dell’Unione europea vogliono enfatizzare questo weekend, riunendosi a Roma per celebrare il 60º anniversario dell’Europa. Ma l’attacco di Londra è anche un promemoria di una lunga lista di problemi: l’uscita non ancora definita della Gran Bretagna dall’Unione, le divisioni regionali, le disparità economiche, la disoccupazione, il sentimento anti-europeo e, ovviamente, il terrorismo islamista. Ovviamente, gli effetti di un eventuale ulteriore attacco sul larga scala in uno dei paesi che stanno per votare potrebbero essere ancora drammatici, ma l’abilità degli islamisti radicali di organizzare gli assalti sembra essere nettamente diminuita.

Terrorismo: un problema da risolvere assieme

Tutti i paesi europei  hanno rafforzato il contrasto ed i controlli. Ma l’Occidente sarà sempre vulnerabile a questo tipo di attacchi.  Quelli usati erano mezzi comuni, facilmente  reperibili ovunque; gli obiettivi erano luoghi molto frequentati; le vittime erano civili di dieci nazionalità diverse che vivevano la loro vita di ogni giorno. Per questo, non c’è un rimedio miracoloso che possa venire dall’urna elettorale.

La maggioranza degli europei sa bene che si tratta di un problema comune. C’è chi pensa che sia indispensabile scegliere tra l’interesse nazionale e l’interesse dell’Unione europea nel suo insieme, ma in realtà l’interesse nazionale richiede che la comunità europea lavori tutta insieme per raggiungere gli obiettivi che non possiamo ottenere da soli.

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Terrorismo: un problema da risolvere uniti – italiaincammino.it, 24 marzo 2017

Dopo l’attentato del 2005 a Londra che ha ucciso 52 pendolari e ne ha feriti altri centinaia, il primo ministro inglese Tony Blair ha rilasciato un dichiarazione dal suo ufficio al numero 10 di Dowing Street nella quale ha reso omaggio a due qualità molto specifiche dei Londoners, «lo stoicismo e la resilienza»,  garantendo che i cittadini «resteranno fedeli allo stile di vita inglese».

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GIORNALI2017

stradeonline.it, 24 marzo 2017 – IL POPULISMO IN OLANDA HA DAVVERO PERSO LE ELEZIONI?

‘In tempi normali – ha scritto lo storico olandese Ian Buruma sul New York Times pochi giorni prima del voto – in pochissimi fuori dall’Olanda avrebbero prestato attenzione alle elezioni parlamentari olandesi. In tempi normali, anche quei pochi si sarebbero aspettati un altro solido governo centrista formato da una coalizione di partiti (di solito comprendente i cristiano-democratici o i social-democratici, o i conservatori orientati al business) guidati da dirigenti politici seri. Insomma, la politica olandese era noiosa e perbene. Ma questi non sono tempi normali’.

 

Infatti, se diamo retta ai media internazionali, la settimana scorsa l’eroico popolo olandese ha sconfitto il populismo, respingendo il tentativo del Partito per la Libertà (PVV) del “Trump olandese”, Geert Wilders, di diventare il partito di maggioranza relativa. Se la battuta d’arresto sia poi solo un fenomeno olandese (circoscritto) o se invece il populismo, più in generale, abbia raggiunto il suo apice, resta oggetto di speculazione e di ogni sorta di congettura, specie in vista delle prossime elezioni presidenziali francesi.

 

Posata la polvere, però, le cose sono, come sempre, un po’ più complicate. C’è chi ritiene addirittura che le elezioni olandesi c’entrino pochissimo con la sconfitta o la vittoria del populismo. Da anni i sondaggi indicavano che (sia in caso di vittoria del PVV che del VVD, il Partito del Popolo per la Libertà e la Democrazia del Primo Ministro, Mark Rutte), nel migliore dei casi, il più grande partito del paese avrebbe ottenuto appena un quarto dei voti (probabilmente molti meno) e avrebbe comunque dovuto avviare un processo, difficile e faticoso, per formare un governo di coalizione di almeno quattro partiti. E se anche il PVV dovesse far parte di una coalizione di governo (sebbene tutti i partiti più importanti abbiano scartato questa eventualità), sarebbe l’unico partito populista a farne parte. Non propriamente una vittoria del “fenomeno” populista.

 

Insomma, c’è chi sostiene ci siano state due elezioni olandesi: una nei media internazionali, rappresentata come l’ultima versione della lotta globale in corso tra un populismo arrembante e un establishment angosciato, e una nei mezzi di comunicazione e di divulgazione olandesi, che hanno cercato di cogliere l’intera gamma di sviluppi politici, inclusa la comparsa di alcuni nuovi partiti populisti radicali di destra (come il FvD e il VNL), il successo crescente dei partiti cosmopoliti (D66 e GL), l’ascesa di un partito “turco” (DENK) e l’implosione dei socialdemocratici (PvdA).

 

A ben guardare, tuttavia, il “testa a testa” tra Rutte e Wilders ha dominato anche buona parte della “narrazione” dei media olandesi. Il premier Rutte si è sforzato, infatti, di presentarsi come una sorta di “argine”, l’unico politico in grado di tenere Wilders lontano dal potere (benché abbia messo l’accento sulle sue politiche “irresponsabili” e “poco serie”, piuttosto che sul suo populismo), al punto che in molti ritengono che la sconfitta del partito anti-UE, anti-immigrazione, anti-Islam di Wilders non sia che una vittoria di Pirro; e che il prezzo di questa vittoria sia stato la “metamorfosi” del partito di centrodestra, che si è appropriato della retorica di Wilders per batterlo.

 

Mark Rutte, che guida il VVD, il partito conservatore che ha ottenuto il numero più consistente di seggi nelle elezioni, ha parlato di “qualcosa di sbagliato nel paese” e ha affermato che la “maggioranza silenziosa” non avrebbe più tollerato i migranti che arrivano e “abusano della nostra libertà”. Insomma, anziché sfidare i razzisti, Rutte ha lisciato loro il pelo, contribuendo ad avvelenare le falde della politica olandese. Nelle ultime settimane della campagna elettorale, poi, non gli è sembrato vero di potersi calare nella parte del “duro” (Rutte ha infatti messo in mostra, da Primo Ministro, le sue credenziali populiste in una disputa con la Turchia) e la notte delle elezioni, nel suo victory speech, ha detto che fermare Wilders voleva dire ostacolare la “versione sbagliata del populismo”. Il che, ovviamente, presuppone che ci sia una varietà di populismo “giusta”, che si distingue dalle altre, e che Rutte ne sia l’interprete. Ma il rischio è che, come spesso succede, il Primo Ministro olandese venga divorato dalla tigre della retorica populista che crede di poter cavalcare.

 

Tutti sanno in Olanda che Wilders (che è un politico di lungo corso) promuove il nativismo, l’autoritarismo e il populismo. Ed è più o meno la stessa agenda di Marine Le Pen (FN) in Francia, di Frauke Petry (AfD) in Germania e di Donald Trump negli Stati Uniti. Wilders si distingue, anzi, per la sua posizione inflessibile sull’Islam. Metà del suo programma elettorale (che ha un titolo ispirato alla Brexit e a Trump, “l’Olanda nuovamente nostra”) è dedicato alla “de-islamizzazione” del paese e contiene proposte come la chiusura delle moschee e delle scuole islamiche e la messa al bando del Corano.

 

Rutte non è il solo politico tradizionale a ritenere che il “cattivo” populismo possa essere sconfitto soltanto da quello “buono”. È una posizione molto diffusa all’interno dei partiti socialdemocratici europei travolti dalla crisi. Basta ascoltare il leader laburista inglese Corbyn o lo stesso Bersani, che sostiene che per combattere il populismo non serva fare l’opposto dei Trump e delle Le Pen (opporsi, ad esempio, al protezionismo aprendo al mercato il più possibile) ma stare attenti a non farsi rubare da loro temi e argomenti.

 

Il che, in molti casi, sembra alludere solo a una versione un po’ più light di quel mix fatto non soltanto di populismo (che prende di mira principalmente le élite europee), ma anche di autoritarismo e nativismo, che non per caso, in Olanda, ha improntato la campagna elettorale dei due partiti della destra tradizionale (il cristiano democratico CDA ed il conservatore VVD).

 

“I leader di entrambi i partiti – ha scritto, infatti, Cas Mudde, del Center for Research on Extremism dell’Università di Oslo, sul Guardian – fingono di difendere i valori “olandesi” e perfino quelli “cristiani” contro le supposte minacce dell’Islam e dei musulmani, e lo stesso fanno anche i loro compagni di viaggio laici di sinistra. Anche se buona parte degli olandesi è preoccupata per l’assistenza sanitaria e il welfare state, il leader del CDA, Sybrand Buma, e il premier Rutte si sono preoccupati soprattutto di difendere le tradizioni “cristiane” come le uova di Pasqua e gli alberi di Natale e le tradizioni razziste incluso Black Pete (Zwarte Piet). Inoltre, Rutte ha rammentato che ci sono olandesi veri e olandesi “in prova”, cioè quelli che hanno le loro radici nell’immigrazione musulmana, e ha invitato questi ultimi ad agire “normalmente” oppure a “levarsi dalle scatole” (dove debbano andare non si sa)”.

 

Posto che, quasi certamente, la prossima coalizione di governo sarà guidata ancora da Rutte, e che il CDA e il VVD saranno le componenti più importanti della maggioranza, rimarrebbe da chiedersi cosa davvero rappresenti la “sconfitta” elettorale di Wilders. Se perfino un pezzo della sinistra sceglie di giocare sullo stesso campo dei populisti, quel mix fatto di nazionalismo, protezionismo, sovranismo e anti-europeismo è destinato a trovare sempre più legittimazione. Se la differenza tra populismo “cattivo” e populismo “buono” è solo una questione di sfumature – cioè, quanto, in che misura, uno sia autoritario e nativista – alla fine toccherà a Wilders ridere per ultimo.

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IL POPULISMO IN OLANDA HA DAVVERO PERSO LE ELEZIONI? – stradeonline.it, 24 marzo 2017

‘In tempi normali – ha scritto lo storico olandese Ian Buruma sul New York Times pochi giorni prima del voto – in pochissimi fuori dall’Olanda avrebbero prestato attenzione alle elezioni parlamentari olandesi. In tempi normali, anche quei pochi si sarebbero aspettati un altro solido governo centrista formato da una coalizione di partiti (di solito comprendente i cristiano-democratici o i social-democratici, o i conservatori orientati al business) guidati da dirigenti politici seri. Insomma, la politica olandese era noiosa e perbene. Ma questi non sono tempi normali’.

Infatti, se diamo retta ai media internazionali, la settimana scorsa l’eroico popolo olandese ha sconfitto il populismo, respingendo il tentativo del Partito per la Libertà (PVV) del “Trump olandese”, Geert Wilders, di diventare il partito di maggioranza relativa. Se la battuta d’arresto sia poi solo un fenomeno olandese (circoscritto) o se invece il populismo, più in generale, abbia raggiunto il suo apice, resta oggetto di speculazione e di ogni sorta di congettura, specie in vista delle prossime elezioni presidenziali francesi.

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Messaggero Veneto, 24 marzo 2017 – LA SINISTRA TRADIZIONALE E IL JOBS ACT

Che in ballo ci siano due visioni opposte della sinistra, dell’Italia e del mondo, lo ha chiarito anche il recente intervento di Franco Belci. Vengo, appunto, al Jobs Act. Attraverso le riforme del Governo Renzi si sono conseguiti risultati importanti. Naturalmente, precarietà e incertezza non si sono dissolte (e “la lotta alla precarietà” resta “la grande frontiera che il Partito Democratico ha davanti a sé”, come sosteneva Veltroni, 10 fa).

Ma tra il 2014 e il 2016, il numero dei posti di lavoro con contratto a tempo indeterminato è aumentato (grazie al combinato disposto di nuove regole del Jobs Act e decontribuzione per i neo assunti) di più di un milione. Proprio il milione di cui parlò Berlusconi e che con noi si è finalmente realizzato. Inoltre, dall’approvazione del Jobs Act il tasso di licenziamento è in costante diminuzione: dal 6,5% del 2014 al 5,9 del 2016. Non solo: col Jobs Act siamo finalmente entrati nel novero dei Paesi civili, dotati di uno strumento universale (e non categoriale) di copertura dal rischio disoccupazione.

Deve invece preoccuparci che l’unica innovazione introdotta dal Jobs Act restata lettera morta sia stata quella relativa all’effettiva possibilità per il lavoratore caduto in disoccupazione di esercitare un diritto soggettivo a ricevere dallo Stato una somma da spendere presso un soggetto (pubblico o privato), in grado di aiutarlo a riqualificarsi e a trovare un nuovo posto di lavoro. La regola del Jobs Act prevede che l’agenzia in questione riceva il pagamento per le sue prestazione solo se la riqualificazione e la ricollocazione al lavoro sono coronati da successo.

Perché questa parte del Jobs Act è l’unica inattuata? Purtroppo, perché è quella davvero innovativa, che si può attuare solo se alla tradizionale assistenza passiva (sostegno al reddito), si accompagnano politiche attive, che implicano un salto di qualità sia nella efficienza del pubblico, sia nella intraprendenza del privato. Insomma, dei tre pilasti del Jobs Act, i primi due (articolo 18 e connessi e indennità di disoccupazione di tipo universalistico) reggono, ma il terzo (l’assegno di ricollocazione in mano al lavoratore), è sostanzialmente bloccato dalla incapacità (dalla non volontà? Dalla pervicace resistenza?) della Pa di settore di riorganizzare se stessa per la gestione di questo nuovo approccio.

Un esito questo, che ovviamente diffonde sfiducia sulla possibilità stessa di mettere in atto politiche davvero innovative. Sul punto sono intervenuto proprio su questo giornale («Debora, ora servono i fatti», 15 novembre 2014); anche perché si tratta di una competenza regionale. Ma la cosa non sembra interessare nessuno. Neanche l’altra sinistra di Belci. E, si sa, non c’è rumore più assordante del silenzio di chi vorresti sentire. Specie se si considera che negli ultimi 40 anni, nei quali le Regioni hanno esercitato la potestà legislativa e amministrativa in materia di formazione professionale, e nel quindicennio nel quale esse hanno esercitato la stessa potestà in riferimento alla generalità dei servizi al mercato del lavoro, se si escludono pochi casi, i risultati prodotti dall’autonomia regionale sono stati insoddisfacenti e in qualche caso disastrosi. Vale anche per la nostra Regione.

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LA SINISTRA TRADIZIONALE E IL JOBS ACT – Messaggero Veneto, 24 marzo 2017

 

La scorsa settimana in un articolo pubblicato sul sito InCammino2017.it,Pietro Ichino ha ricordato come stanno le cose: “Con troppo ritardo, ma finalmente l’assegno di ricollocazione decolla: sono partite le prime 20.000 lettere dell’ANPAL ad altrettanti disoccupati di tutta Italia, i quali potranno ora scegliere l’agenzia da cui farsi assistere nella ricerca di una nuova occupazione. Questa verrà retribuita, con l’assegno appunto, in misura proporzionale alla difficoltà della ricollocazione nel caso singolo (da 1000 a 5000 euro nel caso di assunzione a tempo indeterminato), ma solo a risultato ottenuto. Una piccola rivoluzione culturale nel mondo dei servizi pubblici: ciò che viene retribuito con il denaro pubblico non è l’attività svolta per lo svolgimento del servizio, ma il conseguimento del risultato; poco importa se a ottenerlo è una struttura pubblica o privata. Proprio questa novità – sconvolgente per le vecchie strutture amministrative – aveva innescato una fortissima opposizione contro il progetto dell’assegno di ricollocazione, sia da una parte del movimento sindacale, sia da una parte degli apparati amministrativi statali e regionali. È a causa di quella opposizione che la sperimentazione del nuovo metodo decolla con tre anni di ritardo rispetto alla prima norma che la aveva prevista, già due anni prima del Jobs Act”. Per questo, come direbbe Federico Caffè, «il riformista avverte con maggiore malinconia le reprimende di chi gli rimprovera l’incapacità di fuoriuscire dal ‘sistema’».

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