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LA SINISTRA TRADIZIONALE E IL JOBS ACT – Messaggero Veneto, 24 marzo 2017

 

La scorsa settimana in un articolo pubblicato sul sito InCammino2017.it,Pietro Ichino ha ricordato come stanno le cose: “Con troppo ritardo, ma finalmente l’assegno di ricollocazione decolla: sono partite le prime 20.000 lettere dell’ANPAL ad altrettanti disoccupati di tutta Italia, i quali potranno ora scegliere l’agenzia da cui farsi assistere nella ricerca di una nuova occupazione. Questa verrà retribuita, con l’assegno appunto, in misura proporzionale alla difficoltà della ricollocazione nel caso singolo (da 1000 a 5000 euro nel caso di assunzione a tempo indeterminato), ma solo a risultato ottenuto. Una piccola rivoluzione culturale nel mondo dei servizi pubblici: ciò che viene retribuito con il denaro pubblico non è l’attività svolta per lo svolgimento del servizio, ma il conseguimento del risultato; poco importa se a ottenerlo è una struttura pubblica o privata. Proprio questa novità – sconvolgente per le vecchie strutture amministrative – aveva innescato una fortissima opposizione contro il progetto dell’assegno di ricollocazione, sia da una parte del movimento sindacale, sia da una parte degli apparati amministrativi statali e regionali. È a causa di quella opposizione che la sperimentazione del nuovo metodo decolla con tre anni di ritardo rispetto alla prima norma che la aveva prevista, già due anni prima del Jobs Act”. Per questo, come direbbe Federico Caffè, «il riformista avverte con maggiore malinconia le reprimende di chi gli rimprovera l’incapacità di fuoriuscire dal ‘sistema’».

Che in ballo ci siano due visioni opposte della sinistra, dell’Italia e del mondo, lo ha chiarito anche il recente intervento di Franco Belci. Vengo, appunto, al Jobs Act. Attraverso le riforme del Governo Renzi si sono conseguiti risultati importanti. Naturalmente, precarietà e incertezza non si sono dissolte (e “la lotta alla precarietà” resta “la grande frontiera che il Partito Democratico ha davanti a sé”, come sosteneva Veltroni, 10 fa).

Ma tra il 2014 e il 2016, il numero dei posti di lavoro con contratto a tempo indeterminato è aumentato (grazie al combinato disposto di nuove regole del Jobs Act e decontribuzione per i neo assunti) di più di un milione. Proprio il milione di cui parlò Berlusconi e che con noi si è finalmente realizzato. Inoltre, dall’approvazione del Jobs Act il tasso di licenziamento è in costante diminuzione: dal 6,5% del 2014 al 5,9 del 2016. Non solo: col Jobs Act siamo finalmente entrati nel novero dei Paesi civili, dotati di uno strumento universale (e non categoriale) di copertura dal rischio disoccupazione.

Deve invece preoccuparci che l’unica innovazione introdotta dal Jobs Act restata lettera morta sia stata quella relativa all’effettiva possibilità per il lavoratore caduto in disoccupazione di esercitare un diritto soggettivo a ricevere dallo Stato una somma da spendere presso un soggetto (pubblico o privato), in grado di aiutarlo a riqualificarsi e a trovare un nuovo posto di lavoro. La regola del Jobs Act prevede che l’agenzia in questione riceva il pagamento per le sue prestazione solo se la riqualificazione e la ricollocazione al lavoro sono coronati da successo.

Perché questa parte del Jobs Act è l’unica inattuata? Purtroppo, perché è quella davvero innovativa, che si può attuare solo se alla tradizionale assistenza passiva (sostegno al reddito), si accompagnano politiche attive, che implicano un salto di qualità sia nella efficienza del pubblico, sia nella intraprendenza del privato. Insomma, dei tre pilasti del Jobs Act, i primi due (articolo 18 e connessi e indennità di disoccupazione di tipo universalistico) reggono, ma il terzo (l’assegno di ricollocazione in mano al lavoratore), è sostanzialmente bloccato dalla incapacità (dalla non volontà? Dalla pervicace resistenza?) della Pa di settore di riorganizzare se stessa per la gestione di questo nuovo approccio.

Un esito questo, che ovviamente diffonde sfiducia sulla possibilità stessa di mettere in atto politiche davvero innovative. Sul punto sono intervenuto proprio su questo giornale («Debora, ora servono i fatti», 15 novembre 2014); anche perché si tratta di una competenza regionale. Ma la cosa non sembra interessare nessuno. Neanche l’altra sinistra di Belci. E, si sa, non c’è rumore più assordante del silenzio di chi vorresti sentire. Specie se si considera che negli ultimi 40 anni, nei quali le Regioni hanno esercitato la potestà legislativa e amministrativa in materia di formazione professionale, e nel quindicennio nel quale esse hanno esercitato la stessa potestà in riferimento alla generalità dei servizi al mercato del lavoro, se si escludono pochi casi, i risultati prodotti dall’autonomia regionale sono stati insoddisfacenti e in qualche caso disastrosi. Vale anche per la nostra Regione.

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