TRIESTE – «Una vittoria dello schieramento europeista su quello contrario, molto composito,che pure raggiunge comunque un risultato ragguardevole». Alessandro Maran, senatore di Scelta Civica, esamina quello che si profilava come «un referendum tra Renzi e Grillo. Questo referendum lo ha stravinto Renzi. E pensare che quando con Ichino, nel Pd, parlavamo di “vocazione maggioritaria” ci prendevano in giro…». Secondo Maran «l’attuale maggioranza esce dalle elezioni rafforzata dallo straordinario successo personale del capo del Governo. Ora bisogna fare le riforme e far uscire al più presto il Paese dal guado». Scelta Civica invece ha ottenuto «un risultato largamente al di sotto anche delle previsioni più prudenti». Un esito deludente che per Maran porta ad alcune lezioni da trarre: «La prima è che nessun partito può vivere senza un leader. Scelta Civica ha perso il suo, Monti, già nei suoi primi mesi di vita. La seconda lezione è che l’onestà e la competenza professionale non bastano». Maran rimane comunque convinto «che Scelta Civica sia stata comunque utile al Paese, perché senza Scelta Civica nel febbraio 2013 Silvio Berlusconi avrebbe molto probabilmente conquistato il premio di maggioranza alla Camera. Il che significa che avremmo rischiato di ritrovarcelo presidente della Repubblica. E anche se avesse vinto l’asse Bersani-Vendola, ciò avrebbe rinviato sine die la trasformazione del Pd in un grande partito capace di conquistare voti al centro dello schieramento politico». Gianluigi Gigli, deputato dei Popolari per l’Italia, valuta «con favore lo stop del fenomeno grillino e la possibilità per il Governo di affrontare con maggiore autorevolezza le prossime scadenze in Italia e dell’Italia in Europa, in quell’ottica riformatrice fondamentale per portare sviluppo, risorse e occupazione». Guardando all’area centrista di cui fa parte, Gigli registra «con estremo dispiacere, ed è per questo che mi sono chiamato fuori dalla campagna elettorale, l’incapacità di dare vita per ora a un progetto alternativo che fosse distinto e distante dalla proposta berlusconiana e da ogni forma di populismo e, nel contempo, competitiva nei confronti della sinistra». Un vuoto che ha portato «una fascia di elettori che fa riferimento a un’area di centro e popolare – continua Gigli – ad astenersi o a rivolgersi direttamente al Partito Democratico. Non è colpa di Renzi, che anzi ha avuto il merito di intercettare queste sensibilità, ma demerito nostro. Occorre riflettere su questo dato – conclude il deputato centrista – superando personalismi, antipatie e povertà di ideali che hanno immiserito la possibilità di creare una vasta area popolare. La stabilità che Renzi può ora garantire ci da tuttavia il tempo per riprendere il filo interrotto di un progetto, in grado di attirare un elettorato che non può restare orfano di riferimenti politici». (r.u.)
Nel suo libro, straordinariamente ben documentato, Claudio Cerasa spiega quali sono le catene che da mezzo secolo immobilizzano la sinistra. Ma se la sinistra non riesce a diventare maggioranza nel Paese, la ragione principale sta in un vecchio e mai sanato «cortocircuito politico-ideologico», che Alessandro Orsini ha descritto nella sua analisi delle radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario. Fino a quando i comunisti decisero di rivalutare i democristiani con la speranza di affiancarli nel governo del Paese, il Pci è ancora un partito anti-sistema dalla retorica rivoluzionaria. Poi, come sappiamo, arriva la svolta. Berlinguer giunge alla conclusione che sarebbe stato del tutto «illusorio» credere che i comunisti avrebbero potuto governare il Paese, anche vincendo le elezioni, e decide che, per garantire il bene dell’Italia, il Pci avrebbe dovuto allearsi con la Dc (che non è più «il partito dei corrotti», ma «una realtà non solo varia, ma assai mutevole»). Il guaio è che i comunisti italiani ambiscono ad affiancare la Dc nel governo del Paese, ma si reputano «leninisti». Il Pci non ha nessuna intenzione di avviare un processo di revisione ideologica e il riferimento alla tradizione marxista-leninista rimane incrollabile. Questo «riformismo leninista» produce un «cortocircuito politico-ideologico» insanabile. Nella celebre intervista di Enrico Berlinguer a Repubblica nel luglio 1981, il segretario del Pci riesce, ad esempio, all’interno del medesimo discorso, a sviluppare una critica radicale del «sistema», fonte di ogni male, e un elogio dei suoi «pilastri» fondamentali. Berlinguer traccia un quadro della società italiana (sono le parole di Scalfari) «da far accapponare la pelle». Gli italiani possono sperare di salvarsi solo in un modo: affidandosi al Partito comunista, ovvero al Partito degli «onesti», il quale lotta, completamente isolato, contro la corruzione dilagante. Cambiare l’Italia però non è facile – sostiene Berlinguer – perché gli italiani non sono liberi di scegliere. Essi «si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (…) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più». Al centro di tutto c’è sempre il «sistema», il quale è responsabile di ogni male. Ovunque si volga lo sguardo è una catastrofe continua. Dopo una simile analisi, era ragionevole attendersi l’esaltazione della rivoluzione del proletariato. E invece (ecco il cortocircuito politico-ideologico), dopo aver condannato il «sistema», Berlinguer elogia i suoi «pilastri»: «Pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante». Questo continuo «cortocircuito politico-ideologico» del Pci ha avuto delle conseguenze decisive sulla storia dell’Italia repubblicana ed ha contribuito a creare una massa di militanti «moralmente alienati», ovvero persone, le quali, pur vivendo nella società italiana, si sentirono ad essa culturalmente estranei. Da qui origina la diversità della sinistra italiana. Per dirla con Cerasa, «la distanza culturale tra la sinistra e i film alla Checco Zalone». Ovviamente, il conto è salato. Non per caso, nel corso degli anni Novanta, i governi di centrosinistra scontarono le loro difficoltà principali proprio sul piano della trasformazione degli slogan della «rivoluzione liberale» in un programma di governo che fosse capace di tradurli in realtà. Quella vicenda mise in luce l’incapacità della sinistra riformista di promuovere un’aperta battaglia culturale all’interno del proprio «mondo di riferimento» in difesa di quelle idee che aveva annunciato come l’orizzonte della propria azione politica. Quella battaglia non ci fu mai davvero, a differenza di quanto era accaduto pochi anni prima nel Regno Unito. Ma c’è di più. Di quella cultura, e di quel «cortocircuito politico-ideologico», sono figli anche i nuovi «rivoluzionari» (pentastellati compresi). Figli degeneri, certo. Ma ciò che li rende figli della stessa tradizione culturale non è la lotta alla corruzione, bensì il catastrofismo radicale, l’ossessione per la purezza, la demonizzazione del nemico, l’esaltazione della violenza rivoluzionaria. Insomma, non c’è verso: per conquistare nuovi elettori, bisogna liberarsi dei vecchi schemi ideologici e guardare la realtà senza pregiudizi. In altre parole, bisogna cambiare. Come dappertutto ha cercato di fare la sinistra europea, ridefinendo la propria funzione e i tratti essenziali del proprio programma: il rapporto tra Stato e mercato, l’organizzazione dello Stato sociale, le relazioni con i sindacati e il rapporto tra politica, singoli cittadini e società civile. E’ questa la sfida dell’era Renzi. Per spezzare le catene che paralizzano la sinistra occorre contrastare una «versione dei fatti» che incoraggia e che giustifica l’idea che il peccato pervade il mondo e che a un gruppo di pochi eletti spetti il compito di purificarlo e bisogna contrastare la pedagogia dell’intolleranza, l’incapacità di convivere con i portatori del peccato. Quel che occorre, inoltre, è un’ipotesi di riforma delle istituzioni in grado di scongiurare davvero il rischio di un decadimento della democrazia. Fateci caso: Berlinguer, nell’intervista, espresse con parole appassionate la sua condanna del sistema dei partiti e della loro degenerazione, ma denunciando la «questione morale» come la questione più importante del paese, senza avanzare contemporaneamente proposte ed ipotesi per la riforma delle istituzioni che, per dirla con uno slogan, «restituissero lo scettro» ai cittadini, condannò se stesso e il suo partito ad una pura azione di denuncia e testimonianza, altissima certo ma sterile.