Diciamoci la verità: la sentenza della Corte costituzionale ha archiviato (in un comunicato di quindici righe) la cosiddetta Seconda Repubblica. Il fatto è che, come sottolinea oggi Claudio Cerasa, “il vero vincitore del referendum coincide con il profilo del nostro amico Pomicino e il ritorno violento, tosto e poderoso della democrazia parlamentare”. O meglio della vecchia concezione assembleare della democrazia, fondata sulla cosiddetta centralità del Parlamento, propria della peculiarità italiana del Dopoguerra; parte cioè dell’anomalia di un sistema politico caratterizzato dalla mancanza di alternanza. “La Consulta – prosegue Cerasa – ha semplicemente fatto il suo dovere e certificato ciò che già aveva anticipato l’esito del referendum. Non c’è nulla di più lineare in una democrazia parlamentare governata dalle oscure burocrazie parruccone che andare al voto con un sistema proporzionale scelto da uno dei simboli della democrazia rappresentativa: la Corte”.
Provo a riassumere. Ora la legge c’è. Si tratta di una legge proporzionale con una correzione maggioritaria esplicita alla Camera (dove il premio scatta al 40 per cento) e implicita al Senato (dove la soglia di sbarramento è al 20 per cento per le coalizioni su base regionale e all’8 per cento per chi corre da solo). Dunque, come scrive Stefano Ceccanti, “i sistemi di voto tra le due Camere sono meno difformi di quanto possa sembrare”.
LA BOCCIATURA DELLA RIFORMA RENDE PIÙ COMPLICATA MA PIÙ URGENTE LA TRANSIZIONE A UNA FORMA DI GOVERNO EFFICIENTE. OGGI OCCORRE IN PRIMO LUOGO EVITARE IL CAOS POLITICO-COSTITUZIONALE CHE SEGUIREBBE ALLA PROPORZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA ELETTORALE. IN SECONDO LUOGO, PER CONTRASTARE LA CRISI DI FIDUCIA VERSO PARTITI E ISTITUZIONI, SERVIREBBE RILANCIARE UN’OPZIONE, COME QUELLA SEMIPRESIDENZIALE, COERENTE CON LA SCELTA (DI DIRITTO O DI FATTO) DIRETTA DEI CAPI DEGLI ESECUTIVI DA PARTE DEGLI ELETTORI, A OGNI LIVELLO DI GOVERNO.
Contrariamente a quel che, da più parti, si è propagandato nel corso della campagna elettorale, e a tutti i progetti di riforma elaborati nel passato (in particolare dalla Commissione bicamerale presieduta da D’Alema e poi dal governo Berlusconi), la riforma sottoposta a referendum il 4 dicembre scorso era di portata piuttosto “limitata” e incideva solo su alcuni aspetti del sistema parlamentare e regionale.
Barack Obama lascia la Casa Bianca proprio mentre i sondaggi lo incoronano come il politico più popolare in America e uno dei presidenti più popolari degli ultimi tempi. La cosa non deve sorprendere. Agli americani mancheranno il decoro ed il modo di fare che Obama e la sua famiglia hanno portato alla Casa Bianca; e mancherà loro un oratore appassionato la cui eloquenza rivaleggia con quella di Abramo Lincoln. Il modo con il quale ha difeso i valori fondanti degli Stati Uniti, sostenendo al tempo stesso che quei precetti si dovevano sviluppare per garantire maggiore inclusione, ha colpito gli americani in modo particolare, così come hanno colpito le sue riflessioni nei momenti di lutto nazionale. Ma va detto anche che i risultati ottenuti nel corso dei suoi due mandati, non ultimo l’aver recuperato il Paese da una delle peggiori crisi economiche dalla Grande Depressione, sono stati davvero notevoli. Specie se si considera che, fin dall’inizio, sono stati ferocemente contrastati dai Repubblicani che hanno cercato in tutti i modi di fare in modo che la sua presidenza deludesse le attese.
Esce Obama, entra Trump. E prima ancora di giurare, “The Donald” ha già annunciato al mondo la sua voglia di buttare tutto all’aria: le cose che nei giorni scorsi ha detto in una serie di interviste sconnesse e spesso contraddittorie, hanno inasprito le tensioni con la Cina e fatto infuriare alleati e istituzioni decisive per la tradizionale leadership americana dell’Occidente.
Sicuramente Barack Obama sarà ricordato a lungo per i suoi superbi discorsi che ricordano quelli di Abraham Lincoln. Il suo discorso di addio dell’altra sera è stato una risposta equilibrata e meditata (che ha ripercorso un territorio familiare, riproponendo concetti espressi altre volte in altri discorsi precedenti) alle questioni più pressanti che l’America ha di fronte.
L’America di Barack Obama è uscita di scena martedì sera nel Centro congressi di Chicago. Nel suo discorso d’addio, Barack Obama ha difeso in modo energico la democrazia americana ed il pluralismo. “Our Constitution is a remarkable, beautiful gift,” ha detto Obama. “But it’s really just a piece of parchment. It has no power on its own. We, the people, give it power—with our participation, and the choices we make. Whether or not we stand up for our freedoms. Whether or not we respect and enforce the rule of law. America is no fragile thing. But the gains of our long journey to freedom are not assured.” È un discorso molto bello, che vale la pena di ascoltare (President Obama’s Farewell Address | The White House).
È passato un mese dal referendum del 4 dicembre. E, puntualmente, il Corriere della Sera denuncia una democrazia incapace di decidere. Eppure, proprio il Corriere si è speso contro una riforma costituzionale che non andava bene perché avrebbe dato, appunto, più poteri (troppi) al governo.
Insomma, siamo alle solite. Lo spiega Stefano Ceccanti, che nella sua rassegna di oggi si sofferma sulla linea editoriale del Corriere della Sera: «interessante nella sua doppiezza». «Prima del referendum – annota Ceccanti – ha fatto una campagna abbastanza esplicita per il No con argomenti tecnici e benaltristi. Da qualche giorno fa invece pezzi di critica alla politica perché non fa le riforme, che spesso coincidono con quelle bocciate: ieri Rizzo ha attaccato la mancata abolizione delle province ed oggi la mancata soppressione ai finanziamenti dei gruppi regionali. Il tutto si salda con l’editoriale di Galli per cui la politica è poco coraggiosa perché poco decisionista. Insomma, al di là delle cause del momento, si vuole comunque una politica sotto schiaffo: se fa le riforme devono essere sbagliate, altrimenti va criticata perché non le fa. Tutto questo la dice lunga su quanto una parte della classe dirigente preferisca una politica impotente, chiamata a riverire i poteri “forti”». Tutto qua.
La vignetta mostra un passeggero di un aereo (con la maglietta nera) che si rivolge agli altri passeggeri, dicendo: «Questi piloti snob e arroganti non sanno più riconoscere i bisogni dei passeggeri normali come noi. Chi pensa che dovrei guidare io l’aereo?». E diversi altri passeggeri alzano la mano.
L’ha pubblicata il New Yorker e sta circolando online. La vignetta sintetizza benissimo l’aria che tira. Di questi tempi, i leader populisti spuntano come i funghi dappertutto. E come il passeggero della vignetta, cercano di far leva sul risentimento nei confronti della classe dirigente (i piloti, stavolta) per emergere. Ovviamente, senza nessuna esperienza e spesso senza particolari qualità. Uno vale uno, no?