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Si può fare ora una legge maggioritaria come si deve?

Provo a riassumere. Ora la legge c’è. Si tratta di una legge proporzionale con una correzione maggioritaria esplicita alla Camera (dove il premio scatta al 40 per cento) e implicita al Senato (dove la soglia di sbarramento è al 20 per cento per le coalizioni su base regionale e all’8 per cento per chi corre da solo). Dunque, come scrive Stefano Ceccanti, “i sistemi di voto tra le due Camere sono meno difformi di quanto possa sembrare”.

Ora la domanda è la seguente: nel tempo che rimane, si può fare una legge elettorale maggioritaria come Dio comanda (introducendo, ad esempio, collegi uninominali maggioritari) per poi votare con quella? A dire la verità, non ci credo. Il voto del 4 dicembre scorso ha seppellito il “modello sindaco d’Italia” che avevamo sognato. Certo, il ritorno alla Prima Repubblica resta un’illusione, ma restaurare il Mattarellum non sarà facile. In troppi, a cominciare da Berlusconi, vogliono tornare al sistema proporzionale (e sostengono infatti correzioni più proporzionalistiche, come l’abbassamento delle soglie al Senato) e, dunque, alle alleanze che si fanno dopo il voto e non prima. Perciò è probabile che le cose siano destinate a restare così come le ha ridisegnate la Corte. Dopotutto, si tratta, come dicevo, di una legge proporzionale (che piace ai proporzionalisti vecchi e nuovi), che però mantiene una correzione maggioritaria (che consente ai sostenitori del maggioritario di tenere aperta una prospettiva).

Ovviamente, darsi di nuovo un orizzonte proporzionale avrà molte conseguenze. Una su tutte: in un contesto proporzionale che ci sta a fare un partito a “vocazione maggioritaria”? Di conseguenza, la leadership non è detto coincida con la premiership. Anche perché le alleanze si faranno dopo il voto. Ma soprattutto, messe così le cose, se nessuno raggiunge il 40% lo sbocco inevitabile (sperando che i numeri ci siano) sarà quello di un’alleanza con Berlusconi. Per il PD, si potrebbe ironizzare, è il meritato contrappasso.

Certo, anche per questo forse sarebbe stato meglio se Renzi si fosse occupato, da qui alle elezioni, della ricostruzione del partito. E del Congresso, ovviamente. Perché, per dirla in due parole, se non cambia il PD, l’Italia non cambia. Senza contare che il tentativo di dar forma nella realtà italiana al “modello Westminster” non ha avuto successo non solo per il mancato adeguamento di alcune norme costituzionali (dal bicameralismo perfetto al potere di scioglimento), ma anche perché nelle democrazie parlamentari in cui quel modello si è in varie forme realizzato, sono i partiti che danno forma alle istituzioni di governo (è infatti il leader del partito più votato che assume l’investitura a Primo Ministro). Ma è probabile che, messe così le cose, d’ora in avanti non si farà che urlare “Al voto! Al voto!”.

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