Monthly Archives: Dic 2015

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l’Unità, 29 dicembre 2015 – Aspettando Godot, per un’unità significativa dell’Europa

 

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La condizione di vulnerabilità dell’Italia (verso l’esterno, a causa della continua instabilità dei due versanti obbligati della politica estera italiana, i Balcani e la sponda Sud del Mediterraneo, e verso l’interno, a causa delle nostre debolezze politiche e istituzionali) è una costante storica, si sa. E l’ancoraggio a sistemi di alleanza con attori più forti, in grado di colmare il deficit di sicurezza internazionale ed interno del paese, è stata la risposta a questa condizione. Oggi però l’America, per dirla con Michael Mandelbaum, è diventata una «Frugal Superpower» e non ha più la scala, la forza e neppure il consenso interno per agire come Atlante che regge sulle spalle il mondo, fungendo al contempo da locomotiva economica e garante della sicurezza militare. E una crisi di coesione ancora più preoccupante continua a gravare sull’Europa, l’architrave stessa dell’opzione multilaterale dell’Italia.

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GIORNALI2015

l’Unità, 29 dicembre 2015 – Aspettando Godot, per un’unità significativa dell’Europa

La condizione di vulnerabilità dell’Italia (verso l’esterno, a causa della continua instabilità dei due versanti obbligati della politica estera italiana, i Balcani e la sponda Sud del Mediterraneo, e verso l’interno, a causa delle nostre debolezze politiche e istituzionali) è una costante storica, si sa. E l’ancoraggio a sistemi di alleanza con attori più forti, in grado di colmare il deficit di sicurezza internazionale ed interno del paese, è stata la risposta a questa condizione. Oggi però l’America, per dirla con Michael Mandelbaum, è diventata una «Frugal Superpower» e non ha più la scala, la forza e neppure il consenso interno per agire come Atlante che regge sulle spalle il mondo, fungendo al contempo da locomotiva economica e garante della sicurezza militare. E una crisi di coesione ancora più preoccupante continua a gravare sull’Europa, l’architrave stessa dell’opzione multilaterale dell’Italia. 

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La crisi spagnola e il nuovo spartiacque nella politica europea

Un bel pasticcio quello spagnolo, che fa prevedere un difficile periodo di instabilità (ieri l’Huffington Post spagnolo faceva sette ipotesi di coalizione per concludere che nessuna sta davvero in piedi e che si voterà di nuovo a maggio: Los 7 posibles (o imposibles) pactos tras las elecciones del 20-D), un prossimo ritorno alle urne o un governo di larghe intese fra popolari e socialisti, caldeggiato e benedetto, nell’interesse del Paese, dal nuovo sovrano Felipe VI.

Ma la crisi spagnola (a pochi giorni dal voto francese), dove il sistema tripartito restituisce l’ingovernabilità e lo spappolamento del paese, ci dice qualcosa di più. Ci dice che la vecchia distinzione fra destra e sinistra non corrisponde più all’alternativa fondamentale che abbiamo di fronte e ci parla del nuovo spartiacque della politica europea.

Rimando al pezzo che ho scritto su Formiche.net il 15 novembre scorso (Sta nascendo un nuovo bipolarismo in Italia?) e all’articolo di Pietro Ichino apparso sul Foglio il 9 dicembre (PERCHÉ NEL VECCHIO CONTINENTE SALTA LA DIALETTICA TRADIZIONALE DESTRA/SINISTRA).

E poi, diciamo le cose come stanno: Dio benedica il doppio turno. 

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A Udine, venerdì 18 dicembre, alla presentazione del mio e-book con @IsabellaDeMonte, @Tommasocerno e @saquini67

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A Udine, venerdì 18 dicembre, alla presentazione del mio e-book con Isabella De Monte, Tommaso Cerno e Stefano Asquini

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Formiche.net, 15 dicembre 2015 – Guerra ISIS, l’America post Obama e l’Europa stile Godot

Gli Stati Uniti non sono disposti a “mandare una nuova generazione di americani oltremare per combattere e morire per un altro decennio sul suolo straniero”. Obama lo ha ripetuto fino alla noia. Lo ha ribadito anche dopo l’attacco terroristico di San Bernardino:“Non dobbiamo farci trascinare ancora una volta in una lunga e costosa guerra terreste in Iraq o in Siria. È quel che vogliono gruppi come l’Isis. Sanno che non ci possono sconfiggere sul campo di battaglia (…) Ma sanno anche che se noi occupiamo terre ostili, possono alimentare le insurrezioni per anni, uccidere migliaia dei nostri soldati, spremere le nostre risorse e usare la nostra presenza per attirare nuove reclute”.

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Formiche.net, 15 dicembre 2015 – Guerra ISIS, l’America post Obama e l’Europa stile Godot

Gli Stati Uniti non sono disposti a “mandare una nuova generazione di americani oltremare per combattere e morire per un altro decennio sul suolo straniero”. Obama lo ha ripetuto fino alla noia. Lo ha ribadito anche dopo l’attacco terroristico di San Bernardino:“Non dobbiamo farci trascinare ancora una volta in una lunga e costosa guerra terreste in Iraq o in Siria. È quel che vogliono gruppi come l’Isis. Sanno che non ci possono sconfiggere sul campo di battaglia (…) Ma sanno anche che se noi occupiamo terre ostili, possono alimentare le insurrezioni per anni, uccidere migliaia dei nostri soldati, spremere le nostre risorse e usare la nostra presenza per attirare nuove reclute”.

Secondo Obama sono certo necessari sforzi ulteriori per bloccare la capacità di finanziarsi dell’Isis, le sue linee di rifornimento ed i rinforzi, e bisogna rendergli più difficile conservare il controllo del territorio, ma quel che davvero farà la differenza sarà solo la soluzione diplomatica della guerra civile siriana (che ha creato il vuoto riempito dallo Stato Islamico) e mandare un significativo contingente di truppe di terra a combattere l’Isis non farebbe che ripetere quel che egli considera l’errore dell’invasione dell’Iraq nel 2003, senza risolvere il problema che abbiamo di fronte. La vittoria sui gruppi di terroristi richiede che siano le popolazioni locali a respingere l’ideologia dell’estremismo “a meno che non pensiamo di occupare questi Paesi in eterno”.

Ma le cose cambieranno se, dopo Obama, alla Casa Bianca arriverà un presidente più “interventista”? C’è da dubitarne. Per almeno quattro ragioni.

Primo. Gli Stati Uniti, per dirla con Michael Mandelbaum, sono diventati una Frugal Superpower. Anche il governo degli Stati Uniti è alle prese con l’invecchiamento della popolazione, un debito enorme, sanità, pensioni e diritti crescenti intestati a baby boomers incanutiti. Entro vent’anni il servizio al debito pubblico, tanto per fare un esempio, supererà l’intero budget della difesa. Il risultato sarà una leadership con mezzi molto limitati.

Secondo. In Asia è in atto una corsa agli armamenti. Laggiù la situazione oggi è più instabile e molto più complessa degli anni successivi alla seconda guerra mondiale. I cinesi stanno costruendo basi per i sommergibili nell’isola di Hainan e sviluppando missili antinave. Gli americani hanno rifornito Taiwan di missili per la difesa aerea e sistemi avanzati di comunicazione militare. Giapponesi e sudcoreani sono impegnati nell’ammodernamento delle loro flotte – in particolare dei sommergibili. E l’India sta costruendo una flotta d’alto mare considerevole. Sono tutte misure per cercare di aggiustare a proprio vantaggio i rapporti di forza. Questo è il mondo che attende gli USA quando avranno completato il ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan.

Terzo. L’America non è più un’isola, protetta dall’Atlantico e dal Pacifico. A ricondurla più vicino al resto del mondo non è solo la tecnologia, ma la pressione della demografia messicana e centroamericana. E, per gli Usa, sistemare il Messico è più importante che riordinare l’Afghanistan. Solo l’offensiva contro i signori della droga è costata 47.000 morti dal 2006, con poco meno di 4.000 vittime solo nella prima metà del 2010.

Quarto. L’estrazione di idrocarburi non convenzionali (shalegas e shale oil) condurrà ad un cambiamento decisivo nei mercati energetici globali e una politica centrata sulla riduzione della dipendenza nazionale dal petrolio estero può fare per l’America e per il mondo odierni quel che fece il contenimento dell’Unione Sovietica nel XX secolo.

Visto che quando il mondo lamenta (“Qualcuno deve fare qualcosa!”), la reazione più immediata e disinteressata non può più venire da Washington e che anche altre politiche di interesse internazionale, come garantire l’accesso globale al petrolio, possono soffrirne, non sarebbe ora che gli europei guardassero in faccia la realtà? Insomma, se il mondo sta andando verso la formazione di blocchi regionali, se strutture continentali come l’America, la Cina e forse l’India e il Brasile hanno già raggiunto la massa critica, l’Europa vuol provare finalmente ad affrontare la sua transizione al rango di unità regionale? Dobbiamo rassegnarci al fatto che l’arrivo della superpotenza europea è probabile che coincida con quello di Godot?


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Il discorso di Obama sul terrorismo e i frutti della paura

É vero che, come scrive oggi Stefano Ceccanti su l’Unità, «in un sistema a doppio turno le analisi approfondite si fanno alla fine dei ballottaggi e qualsiasi riflessione precedente deve sempre essere vista come provvisoria»; ed è vero che «occorre evitare allarmismi sproporzionati anche in vista delle Presidenziali: stiamo comunque commentando elezioni di medio termine in cui vota il cinquanta per cento degli elettori e non il settanta come accade per il presidente». Giusto. Resta il fatto però che, come hanno osservato sia il New York Times che El País, in Francia si cominciano a cogliere i frutti della paura (Francia y el voto del miedo). La crescita sorprendente del partito di estrema destra, il Front National, nelle elezioni regionali di domenica scorsa è stata chiaramente alimentata dalle paure scaturite dall’attacco del 13 novembre a Parigi e da mesi di annunci senza sosta sull’ondata di profughi che sommerge l’Europa (Editorial: In France, the Political Fruits of Fear). E rappresenta una strigliata umiliante tanto per il Partito socialista e il governo di François Hollande quanto per il Partito repubblicano di centro-destra dell’ex presidente Sarkozy. La nuova popolarità guadagnata da Hollande (in seguito alle misure straordinarie assunte dal suo governo dopo gli attacchi del 13 novembre, compresa la dichiarazione dello stato di emergenza) non ha compensato, infatti, la sua più grande debolezza, vale a dire la sua incapacità di assicurare progressi sul fronte economico.

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Seduta del 2 dicembre 2015 – Informativa del Governo sull’evoluzione della crisi in Medio Oriente

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Maran. Ne ha facoltà.

MARAN (PD). Signor Presidente, signor Ministro, abbiamo molto apprezzato la sua disponibilità a riferire in Parlamento e anche l’ostinazione con la quale si adopera per non incrinare le dinamiche diplomatiche, in Siria come in Libia; con la quale si adopera per coinvolgere la Russia, per favorire i rapporti diretti tra Russia e la Turchia e per rafforzare e rendere più coesa la coalizione anti-ISIS.

Dopo anni di stagnazione autoritaria, il Medio Oriente ha cominciato a muoversi. L’ascesa dell’islam radicale; l’invasione dell’Iraq e le sue conseguenze, che tutti sembrano aver dimenticato, anche quanti – ho sentito qualche intervento precedente – hanno sostenuto l’invasione; il risveglio delle primavere arabe; le repressioni sanguinose e ora un calo sostenuto del prezzo del petrolio e il successo del negoziato nucleare con l’Iran, hanno aperto quella che potrebbe rivelarsi una nuova e tormentata era per tutti coloro che vi sono coinvolti. E con questo noi dovremmo avere a che fare per un pezzo.

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Il Foglio, 1 dicembre 2015 – Non è la povertà che uccide, ma la pedagogia dell’intolleranza

Il terrore islamista è nuovo, però abbiamo conosciuto qualcosa di simile negli anni 70. Sappiamo come batterlo

La povertà non c’entra nulla. Gli attentati di Parigi sono soltanto l’ultimo dei colpi sferrati da un’ideologia che cerca da decenni di ottenere il potere attraverso il terrore. È la stessa ideologia che ha ucciso i giornalisti di Charlie Hebdo e i poliziotti in servizio per proteggerli, che ha costretto a nascondersi per un decennio Salman Rushdie (condannato a morte per aver scritto un romanzo), che ha poi ucciso il suo traduttore giapponese e che ha cercato di uccidere quello italiano. È la stessa ideologia che ha ucciso 3.000 persone negli Stati Uniti l’11 settembre del 2001 e che ha massacrato Theo Van Gogh nelle strade di Amsterdam nel 2004 per aver fatto un film. È la stessa ideologia che ha dispensato stupri di massa e massacri alle città e ai deserti della Siria e dell’Iraq; che ha massacrato 132 bambini e 13 adulti in una scuola a Peshawar e che regolarmente uccide così tanti nigeriani che ormai nessuno vi presta più attenzione.

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Il Foglio, 1 dicembre 2015 – Non è la povertà che uccide, ma la pedagogia dell’intolleranza

Il terrore islamista è nuovo, però abbiamo conosciuto qualcosa di simile negli anni 70. Sappiamo come batterlo

La povertà non c’entra nulla. Gli attentati di Parigi sono soltanto l’ultimo dei colpi sferrati da un’ideologia che cerca da decenni di ottenere il potere attraverso il terrore. È la stessa ideologia che ha ucciso i giornalisti di Charlie Hebdo e i poliziotti in servizio per proteggerli, che ha costretto a nascondersi per un decennio Salman Rushdie (condannato a morte per aver scritto un romanzo), che ha poi ucciso il suo traduttore giapponese e che ha cercato di uccidere quello italiano. È la stessa ideologia che ha ucciso 3.000 persone negli Stati Uniti l’11 settembre del 2001 e che ha massacrato Theo Van Gogh nelle strade di Amsterdam nel 2004 per aver fatto un film. È la stessa ideologia che ha dispensato stupri di massa e massacri alle città e ai deserti della Siria e dell’Iraq; che ha massacrato 132 bambini e 13 adulti in una scuola a Peshawar e che regolarmente uccide così tanti nigeriani che ormai nessuno vi presta più attenzione.

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