Monthly Archives: Dic 2016

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Il problema? La paralisi dell’Europa. Ma per problemi comuni, servono soluzioni comuni.

Alla vigilia del referendum in Italia e delle elezioni presidenziali in Austria, la rubrica di Bagehot dell’Economist aveva messo in guardia dalla tentazione di interpretare, dopo l’8 novembre, qualunque cosa succeda nel mondo in relazione al trionfo di Donald Trump. Non passa giorno – avvertiva l’opinionista che scrive sotto pseudonimo – senza che un evento politico da qualche parte nel mondo non sia collegato alla vittoria sconvolgente di Trump e all’ascesa della populismo di destra. E certamente, quello di ricondurre ogni cosa ad un unico fenomeno che sarebbe in grado di dare una spiegazione a tutto, è un pericolo che, mentre l’anno sta per finire, dovremmo tenere a mente, specie se si considera l’esito delle due più recenti votazioni in Europa. Del resto, come diceva il professor Keating nel film «L’attimo fuggente», «è proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva».

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Cosa farà Donald Trump in politica estera

Formiche.net, 26 dicembre 2016

 

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GIORNALI2016

formiche.net, 26 dicembre 2016 – Cosa farà Donald Trump in politica estera

“Nonostante abbia monopolizzato la ribalta in una delle campagne presidenziali più seguite e più combattute nella storia degli Stati Uniti, il presidente eletto Donald J. Trump entrerà nell’Ufficio Ovale il 20 gennaio come un enigma sotto molti importanti aspetti”. Così ha scritto James Kitfield sull’Atlantic in un articolo che cerca di mettere meglio a fuoco gli indizi che emergono sull’indecifrabile approccio agli affari del mondo del presidente americano.

Visto che Trump ha indubbiamente la capacità di sovvertire le tradizioni, vale la pena di ricordare che il ruolo internazionale degli Stati Uniti non ha mai riflettuto, come a molti piace pensare, unità bipartisan e continuità strategica nelle policy. In un bel libro di qualche anno fa, “Maximalist. America in the World From Truman to Obama”, Stephen Sestanovich (un ex diplomatico americano) ha raccontato una storia molto diversa, fatta di amministrazioni divise al loro interno, di decisioni laceranti, di scontri con amici ed alleati, di ripetuti tentativi di stabilire una nuova direzione. Fare troppo è sempre stato seguito dal fare troppo poco, e viceversa. Insomma, la storia della politica estera americana non è fatta di armonia, continuità e linearità, ma di sforzi regolari, ripetuti e riusciti per cambiare la rotta.

Anche negli anni della Guerra fredda, ogni presidente alla fine del suo mandato era criticato per i risultati della sua politica estera. Qualcuno fu praticamente cacciato. E ogni nuovo inquilino dell’Ufficio Ovale ha pensato che il mondo fosse cambiato in qualche aspetto fondamentale che il suo predecessore non era riuscito a cogliere o a gestire efficacemente. E’ in questo modo che Truman ha visto Roosevelt, che Eisenhower ha visto Truman; ed è così che Kennedy considerava Eisenhower. E vent’anni più tardi, quando Ronald Reagan prese il posto di Jimmy Carter, il suo giudizio fu ancora più duro.

Che cosa ha spinto i diversi presidenti a ricercare una nuova direzione in politica estera? Due passi falsi.

Il primo, durante la Guerra fredda, era di solito associato alla parola crisi: una qualche nuova sfida che suscitava apprensione e richiedeva una risposta urgente. Per capirci: dall’imminente collasso economico dell’Europa nell’inverno del 1947 all’attacco della Corea del Nord al Sud nel 1950; dal lancio dello Sputnik nel 1957 alla minaccia di Nikita Khrushchev di strangolare Berlino Ovest nel 1961e alla crisi cubana dei missili un anno dopo, e così via, fino agli attacchi dell’11 settembre del 2001. In questi momenti, nei dibattiti febbrili sul da farsi, i policy maker americani di solito concludevano che per allontanare la minaccia incombente serviva una risposta massiccia. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto produrre nuove idee, generare nuove risorse, assumere nuovi impegni, scuotere lo status quo. I leader americani avevano cioè una sola risposta a questi problemi: fare di più. Vale a dire, pensare in grande e spingere il pedale sull’acceleratore.

I presidenti massimalisti, ovviamente, avevano ascoltato dai loro consiglieri che gli Stati Uniti stavano reagendo oltre misura, che la crisi rifletteva condizioni locali e non una sfida globale, o che fare troppo poteva peggiorare la situazione e perfino danneggiare gli interessi americani. Ma quel di cui avevano bisogno, quel che volevano – e Truman, Kennedy e Reagan sono gli esempi più ovvi – era una quantità sterminata di contromisure.

Il secondo passo falso ha invece a che fare con i troppi impegni presi. Eisenhower e Nixon furono, ad esempio, presidenti della Guerra fredda con la responsabilità di porre termine a guerre ormai in condizione di stallo ad un costo sopportabile. Dovevano tirarsi fuori da una situazione disastrosa e mettere la politica americana su basi più sostenibili. Cercarono di calmare un’opinione pubblica arrabbiata, trasferire responsabilità ad amici ed alleati, esplorare intese con gli avversari, restringere gli impegni e ridurre i costi. Hanno anche dovuto fronteggiare dissensi nei loro ranghi. Consiglieri convinti che la posizione globale degli Stati Uniti non avrebbe potuto sopravvivere a nessuna marcia indietro non sono mai mancati.

Il motto dei presidenti americani del retrenchment era l’opposto di quello adottato dai «massimalisti»: fare meno, sostenevano, non più. Cioè, pensare più a fondo, non più in grande. Premere il freno, non l’acceleratore. Il più recente è il presidente Obama che, prima di essere rieletto, in una conferenza stampa al Pentagono ha annunciato che il nation building di lungo periodo e ampie operazioni militari non sono più strumenti della politica americana.

Le strategie del massimalismo e del retrenchment hanno un’ovvia relazione ciclica una con l’altra. Quando il massimalista si spinge troppo oltre, il retrencher si fa avanti per raccogliere i cocci. Poi quando il retrencher non riesce ad affrontare le nuove sfide o a competere efficacemente, il massimalista ricompare, pronto a farlo con formule ambiziose. Vista l’inclinazione di Trump ad agire precipitosamente e l’eclettico gruppo di consiglieri che lo circonda, è probabile che l’approccio americano sia sul punto di cambiare ancora.

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Che cosa cambia con Trump?

Con la famosa telefonata con la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen, Donald Trump ha colto tutti di sorpresa. Le reazioni cinesi non si sono fatte attendere e il Global Times (il tabloid del Partito comunista cinese) ha scritto che Trump ha le conoscenze di un bambino per quanto riguarda la diplomazia e gli ha consigliato di leggere qualche libro di storia. Quasi certamente non sarà l’ultimo fulmine a ciel sereno. Il presidente americano ha la capacità di sovvertire le tradizioni, specialmente nelle questioni di politica estera. E vista l’inclinazione di Donald Trump ad agire precipitosamente e l’eclettico gruppo di consiglieri che lo circonda, sono in parecchi a chiedersi quali altre tradizioni sono sul punto di cambiare. 

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In Spagna, “la mejor defensa de la Constitución es su reforma”

Mariano Rajoy y Javier Fernández si sono accordati sui limiti della futura riforma costituzionale. Lo ha scritto ieri El País.

Anche in Spagna, dove di certo non mancano i problemi, è all’ordine del giorno la riforma della Costituzione (la più longeva nella storia spagnola), perché il consenso territoriale si è incrinato e non si può intendere la democrazia spagnola senza il processo di decentramento politico che costituisce lo Stato autonomistico. E sono proprio i socialisti spagnoli a sostenere che “la mejor defensa de la Constitución es su reforma”.

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“Quanto ci vuole per approvarla? Sei mesi”. Parola di D’Alema.

Come mai i campioni del No al referendum, a quasi due settimane dal trionfo del 4 dicembre, non sono già tutti magicamente d’accordo sulla “road map” disegnata da Massimo D’Alema quest’estate alla festa dell’Unità di Catania?
Oggi Il Foglio ricorda agli smemorati le parole pronunciate da D’Alema durante un dibattito con Paolo Gentiloni: “Se vince il No al referendum, in questa legislatura, c’è il tempo per fare una riforma limitata, chiara. Si può fare una riforma di tre articoli. Articolo 1: si riduce il numero dei deputati e dei senatori, con 400 deputati e 200 senatori. Articolo 2: fine della navetta e sì al sistema americano, se una legge è emendata c’è un comitato di conciliazione che predispone un testo conclusivo su cui c’è un voto finale. Articolo 3: il rapporto di fiducia del governo è solo con la Camera dei deputati. Quanto ci vuole per approvarla? Sei mesi”.
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GIORNALI2016

Il Gazzettino, 9 dicembre 2016 – Legge elettorale, il rischio di ritornare alla Prima Repubblica

La Corte Costituzionale discuterà in udienza pubblica i ricorsi di incostituzionalità sulla legge elettorale il 24 gennaio. Tuttavia, qualunque sarà la decisione della Corte costituzionale, in futuro avremo molto probabilmente parlamenti più frammentati e governi più instabili. Se i giudici costituzionali dovessero decidere di cancellare il premio di maggioranza e il ballottaggio, ne verrà fuori una legge proporzionale simile a quella del Senato (il vecchio Porcellum già modificato da un’altra sentenza della Consulta), che segnerà il ritorno per via giudiziaria a un sistema simile a quello in vigore durante la cosiddetta Prima Repubblica. Se invece l’Italicum verrà confermato così com’è, il sistema istituzionale post referendario (che ha confermato il nostro bicameralismo perfetto) si ritroverà con una legge elettorale maggioritaria alla Camera ed una legge proporzionale al Senato. Visto l’orientamento delle forze in campo, c’è da scommettere che l’unica via d’uscita sarà in senso proporzionale.

Del resto, che questa fosse la vera posta in gioco l’abbiamo detto e ridetto. E com’era  prevedibile, con la vittoria del No (dopo un quarto di secolo dedicato al tentativo di dar vita a un sistema di democrazia dell’alternanza) rischiamo ora di tornare al punto di partenza, cioè ad un sistema politico consociativo fondato su di un sistema elettorale proporzionale. Insomma, un ritorno in grande stile alla Prima Repubblica. Non per caso, sono ricomparse quelle incantevoli formule istituzionali (il governo di scopo, del presidente, ecc.) che hanno il buon sapore del tempo andato. Col risultato che la grosse koalition, il governo di “larghe intese” (vale a dire un’alleanza tra PD e Forza Italia), rischia di essere una strada obbligata. Che è poi quello che voleva Berlusconi. Dopodiché, come si possa tornare alla vecchia «Repubblica dei partiti» senza i partiti, adesso cioè che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, resta per me un mistero. Ma perché stupirsi? Come canta Checco Zalone, «la prima Repubblica non si scorda mai».

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GIORNALI2016

Il Foglio, 8 Dicembre 2016 – Se si vuole votare subito la strada è il Consultellum”. Anche Maran (Pd) è per il Lodo Foglio

Anche Alessandro Maran, vice presidente del Partito democratico al Senato non ha dubbi: “Se il partito del voto vuole votare davvero – vale per Renzi e per tutti gli altri, da Salvini a Grillo e a Berlusconi – non ha altra scelta che puntare su questa carta”. Maran si riferisce al Lodo Foglio, la proposta avanzata oggi da Claudio Cerasa di sostituire l’Italicum con il Consultellum tarato sulla Camera già approvato nel 2014 dalla Corte, approvarlo e sciogliere le Camere.

“Sia chiaro – prosegue il senatore democratico – io resto un vedovo inconsolabile. Continuo a ritenere il sistema proporzionale un sistema orrendo e un ritorno alla Prima Repubblica una sciagura. Ma visto l’orientamento delle forze in campo, non c’é dubbio che l’unica via d’uscita sarà in senso proporzionale. Del resto, che questa fosse la vera posta in gioco l’abbiamo detto e ridetto. E com’era prevedibile, con la vittoria del No (dopo un quarto di secolo dedicato al tentativo di dar vita a un sistema di democrazia dell’alternanza) rischiamo ora di tornare al punto di partenza, cioè a un sistema politico consociativo fondato su di un sistema elettorale proporzionale. Insomma, un ritorno in grande stile alla Prima Repubblica. Non per caso, sono ricomparse quelle incantevoli formule istituzionali (il governo di scopo, del presidente, ecc.) che hanno il buon sapore del tempo andato. Col risultato che la grosse koalition, il governo di ‘larghe intese’ (vale a dire un’alleanza tra Pd e Forza Italia), rischia di essere una strada obbligata. Sia ora che dopo nuove elezioni. Che è poi quello che voleva Berlusconi. Dopodiché, come si possa tornare alla vecchia Repubblica dei partiti senza i partiti, adesso cioè che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, resta per me un mistero. Ma perché stupirsi? Come canta Checco Zalone, la prima Repubblica non si scorda mai”.

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La Prima Repubblica non si scorda mai …

La Corte Costituzionale ha fissato a fine gennaio la data dell’esame dell’Italicum. La Corte discuterà in udienza pubblica i ricorsi di incostituzionalità sulla legge elettorale il 24 gennaio.

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A Chongqing, (una municipalità della Cina centro-meridionale con una popolazione di circa 32 milioni di abitanti) con la presidente della Municipalità Zhang Ling

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