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formiche.net, 26 dicembre 2016 – Cosa farà Donald Trump in politica estera

“Nonostante abbia monopolizzato la ribalta in una delle campagne presidenziali più seguite e più combattute nella storia degli Stati Uniti, il presidente eletto Donald J. Trump entrerà nell’Ufficio Ovale il 20 gennaio come un enigma sotto molti importanti aspetti”. Così ha scritto James Kitfield sull’Atlantic in un articolo che cerca di mettere meglio a fuoco gli indizi che emergono sull’indecifrabile approccio agli affari del mondo del presidente americano.

Visto che Trump ha indubbiamente la capacità di sovvertire le tradizioni, vale la pena di ricordare che il ruolo internazionale degli Stati Uniti non ha mai riflettuto, come a molti piace pensare, unità bipartisan e continuità strategica nelle policy. In un bel libro di qualche anno fa, “Maximalist. America in the World From Truman to Obama”, Stephen Sestanovich (un ex diplomatico americano) ha raccontato una storia molto diversa, fatta di amministrazioni divise al loro interno, di decisioni laceranti, di scontri con amici ed alleati, di ripetuti tentativi di stabilire una nuova direzione. Fare troppo è sempre stato seguito dal fare troppo poco, e viceversa. Insomma, la storia della politica estera americana non è fatta di armonia, continuità e linearità, ma di sforzi regolari, ripetuti e riusciti per cambiare la rotta.

Anche negli anni della Guerra fredda, ogni presidente alla fine del suo mandato era criticato per i risultati della sua politica estera. Qualcuno fu praticamente cacciato. E ogni nuovo inquilino dell’Ufficio Ovale ha pensato che il mondo fosse cambiato in qualche aspetto fondamentale che il suo predecessore non era riuscito a cogliere o a gestire efficacemente. E’ in questo modo che Truman ha visto Roosevelt, che Eisenhower ha visto Truman; ed è così che Kennedy considerava Eisenhower. E vent’anni più tardi, quando Ronald Reagan prese il posto di Jimmy Carter, il suo giudizio fu ancora più duro.

Che cosa ha spinto i diversi presidenti a ricercare una nuova direzione in politica estera? Due passi falsi.

Il primo, durante la Guerra fredda, era di solito associato alla parola crisi: una qualche nuova sfida che suscitava apprensione e richiedeva una risposta urgente. Per capirci: dall’imminente collasso economico dell’Europa nell’inverno del 1947 all’attacco della Corea del Nord al Sud nel 1950; dal lancio dello Sputnik nel 1957 alla minaccia di Nikita Khrushchev di strangolare Berlino Ovest nel 1961e alla crisi cubana dei missili un anno dopo, e così via, fino agli attacchi dell’11 settembre del 2001. In questi momenti, nei dibattiti febbrili sul da farsi, i policy maker americani di solito concludevano che per allontanare la minaccia incombente serviva una risposta massiccia. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto produrre nuove idee, generare nuove risorse, assumere nuovi impegni, scuotere lo status quo. I leader americani avevano cioè una sola risposta a questi problemi: fare di più. Vale a dire, pensare in grande e spingere il pedale sull’acceleratore.

I presidenti massimalisti, ovviamente, avevano ascoltato dai loro consiglieri che gli Stati Uniti stavano reagendo oltre misura, che la crisi rifletteva condizioni locali e non una sfida globale, o che fare troppo poteva peggiorare la situazione e perfino danneggiare gli interessi americani. Ma quel di cui avevano bisogno, quel che volevano – e Truman, Kennedy e Reagan sono gli esempi più ovvi – era una quantità sterminata di contromisure.

Il secondo passo falso ha invece a che fare con i troppi impegni presi. Eisenhower e Nixon furono, ad esempio, presidenti della Guerra fredda con la responsabilità di porre termine a guerre ormai in condizione di stallo ad un costo sopportabile. Dovevano tirarsi fuori da una situazione disastrosa e mettere la politica americana su basi più sostenibili. Cercarono di calmare un’opinione pubblica arrabbiata, trasferire responsabilità ad amici ed alleati, esplorare intese con gli avversari, restringere gli impegni e ridurre i costi. Hanno anche dovuto fronteggiare dissensi nei loro ranghi. Consiglieri convinti che la posizione globale degli Stati Uniti non avrebbe potuto sopravvivere a nessuna marcia indietro non sono mai mancati.

Il motto dei presidenti americani del retrenchment era l’opposto di quello adottato dai «massimalisti»: fare meno, sostenevano, non più. Cioè, pensare più a fondo, non più in grande. Premere il freno, non l’acceleratore. Il più recente è il presidente Obama che, prima di essere rieletto, in una conferenza stampa al Pentagono ha annunciato che il nation building di lungo periodo e ampie operazioni militari non sono più strumenti della politica americana.

Le strategie del massimalismo e del retrenchment hanno un’ovvia relazione ciclica una con l’altra. Quando il massimalista si spinge troppo oltre, il retrencher si fa avanti per raccogliere i cocci. Poi quando il retrencher non riesce ad affrontare le nuove sfide o a competere efficacemente, il massimalista ricompare, pronto a farlo con formule ambiziose. Vista l’inclinazione di Trump ad agire precipitosamente e l’eclettico gruppo di consiglieri che lo circonda, è probabile che l’approccio americano sia sul punto di cambiare ancora.

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