«Triste victoria del Pp en un escenario desolador», scrive El País a proposito delle elezioni spagnole che, dopo sei mesi di inutili trattative, non hanno sciolto il rebus che attende una soluzione dalle precedenti elezioni del dicembre scorso: i quattro partiti principali si sono spartiti i seggi senza lasciar intravedere alcun governo possibile. Il rischio è che si ripropongano le stesse dinamiche sterili che hanno portato al fallimento dei negoziati nei mesi scorsi. Come sei mesi fa, il leader di Podemos, Pablo Iglesias, cercherà di convincere i socialisti a dare vita, insieme a lui, ad un «governo del cambiamento», mentre il leader dei Popolari Mariano Rajoy chiederà responsabilità per la formazione di un governo di larghe intese che garantisca la governabilità del paese. Anche il voto spagnolo, insomma, dimostra come in una situazione che non è più bipolare (come quella che aveva caratterizzato la Spagna fin dal suo approdo alla democrazia), se non si individua un sistema elettorale che consenta ai cittadini di scegliere da chi essere governati, come avviene col doppio turno, o si aprono le porte a larghe intese o si condanna la democrazia all’impotenza. L’esito del voto per i sindaci aveva, del resto, già mostrato come il ballottaggio sia indispensabile per dare al paese un governo stabile, sorretto dal voto di una maggioranza. Cosa sarebbe successo, in un sistema partitico tripolare (o quadripolare) com’è ormai il nostro, se nei giorni scorsi, i sindaci fossero stati scelti, non dai cittadini, come avviene dal 1993, ma eletti dai consigli comunali come avveniva un tempo, quando erano le trattative tra i partiti a decidere sindaco e giunta, magari a mesi di distanza dalle elezioni, e quando il mandato amministrativo nei comuni rappresentava una sorta di intermezzo tra una crisi e l’altra? E cosa sarebbe accaduto se avessimo votato per il Parlamento (con due Camere con due legge elettorali diverse) senza il ballottaggio? Come in Spagna ci sarebbero tre o quattro “poli”, ciascuno tra il 20 e il 30 per cento dei voti, che si guardano in cagnesco, e non ci sarebbe modo di dar vita ad un governo in grado di durare per più di sei mesi. Il pericolo per l’Italia non è la dittatura (il vento cambia con facilità e, come abbiamo visto, le autonomie locali sono un contrappeso formidabile al governo centrale) ma l’impossibilità di un governo stabile. E il ballottaggio e il premio di maggioranza sono assolutamente necessari. Quella spagnola è una lezione che sarebbe bene tenere a mente quando, in autunno, voteremo il referendum costituzionale. Se voteremo “sì” alla riforma avremo un sistema che consente ai cittadini di decidere chi debba governare. Si supera, infatti, il bicameralismo paritario, si assegna alla sola Camera il potere di dare e togliere la fiducia al governo e si prevede (in coerenza con il testo costituzionale), una legge elettorale maggioritaria a doppio turno, l’Italicum appunto. Se invece vinceranno i “no”, ci terremo il Senato attuale, un «inutile doppione» della Camera (come sosteneva Mortati) e prenderà corpo uno scenario spagnolo. In queste condizioni, è probabile che alle prossime elezioni non vinca nessuno, che addirittura si determinino maggioranze diverse in ciascuna Camera, e che l’unica prospettiva percorribile resti quella di governi di coalizione tra forze eterogenee o quella di governi tecnici, deboli, instabili e non decisi dagli elettori. Diciamoci la verità: in un momento difficile come quello che, con tutta l’Europa, stiamo attraversando, non è proprio il massimo.