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formiche.net, 26 dicembre 2016 – Cosa farà Donald Trump in politica estera

“Nonostante abbia monopolizzato la ribalta in una delle campagne presidenziali più seguite e più combattute nella storia degli Stati Uniti, il presidente eletto Donald J. Trump entrerà nell’Ufficio Ovale il 20 gennaio come un enigma sotto molti importanti aspetti”. Così ha scritto James Kitfield sull’Atlantic in un articolo che cerca di mettere meglio a fuoco gli indizi che emergono sull’indecifrabile approccio agli affari del mondo del presidente americano.

Visto che Trump ha indubbiamente la capacità di sovvertire le tradizioni, vale la pena di ricordare che il ruolo internazionale degli Stati Uniti non ha mai riflettuto, come a molti piace pensare, unità bipartisan e continuità strategica nelle policy. In un bel libro di qualche anno fa, “Maximalist. America in the World From Truman to Obama”, Stephen Sestanovich (un ex diplomatico americano) ha raccontato una storia molto diversa, fatta di amministrazioni divise al loro interno, di decisioni laceranti, di scontri con amici ed alleati, di ripetuti tentativi di stabilire una nuova direzione. Fare troppo è sempre stato seguito dal fare troppo poco, e viceversa. Insomma, la storia della politica estera americana non è fatta di armonia, continuità e linearità, ma di sforzi regolari, ripetuti e riusciti per cambiare la rotta.

Anche negli anni della Guerra fredda, ogni presidente alla fine del suo mandato era criticato per i risultati della sua politica estera. Qualcuno fu praticamente cacciato. E ogni nuovo inquilino dell’Ufficio Ovale ha pensato che il mondo fosse cambiato in qualche aspetto fondamentale che il suo predecessore non era riuscito a cogliere o a gestire efficacemente. E’ in questo modo che Truman ha visto Roosevelt, che Eisenhower ha visto Truman; ed è così che Kennedy considerava Eisenhower. E vent’anni più tardi, quando Ronald Reagan prese il posto di Jimmy Carter, il suo giudizio fu ancora più duro.

Che cosa ha spinto i diversi presidenti a ricercare una nuova direzione in politica estera? Due passi falsi.

Il primo, durante la Guerra fredda, era di solito associato alla parola crisi: una qualche nuova sfida che suscitava apprensione e richiedeva una risposta urgente. Per capirci: dall’imminente collasso economico dell’Europa nell’inverno del 1947 all’attacco della Corea del Nord al Sud nel 1950; dal lancio dello Sputnik nel 1957 alla minaccia di Nikita Khrushchev di strangolare Berlino Ovest nel 1961e alla crisi cubana dei missili un anno dopo, e così via, fino agli attacchi dell’11 settembre del 2001. In questi momenti, nei dibattiti febbrili sul da farsi, i policy maker americani di solito concludevano che per allontanare la minaccia incombente serviva una risposta massiccia. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto produrre nuove idee, generare nuove risorse, assumere nuovi impegni, scuotere lo status quo. I leader americani avevano cioè una sola risposta a questi problemi: fare di più. Vale a dire, pensare in grande e spingere il pedale sull’acceleratore.

I presidenti massimalisti, ovviamente, avevano ascoltato dai loro consiglieri che gli Stati Uniti stavano reagendo oltre misura, che la crisi rifletteva condizioni locali e non una sfida globale, o che fare troppo poteva peggiorare la situazione e perfino danneggiare gli interessi americani. Ma quel di cui avevano bisogno, quel che volevano – e Truman, Kennedy e Reagan sono gli esempi più ovvi – era una quantità sterminata di contromisure.

Il secondo passo falso ha invece a che fare con i troppi impegni presi. Eisenhower e Nixon furono, ad esempio, presidenti della Guerra fredda con la responsabilità di porre termine a guerre ormai in condizione di stallo ad un costo sopportabile. Dovevano tirarsi fuori da una situazione disastrosa e mettere la politica americana su basi più sostenibili. Cercarono di calmare un’opinione pubblica arrabbiata, trasferire responsabilità ad amici ed alleati, esplorare intese con gli avversari, restringere gli impegni e ridurre i costi. Hanno anche dovuto fronteggiare dissensi nei loro ranghi. Consiglieri convinti che la posizione globale degli Stati Uniti non avrebbe potuto sopravvivere a nessuna marcia indietro non sono mai mancati.

Il motto dei presidenti americani del retrenchment era l’opposto di quello adottato dai «massimalisti»: fare meno, sostenevano, non più. Cioè, pensare più a fondo, non più in grande. Premere il freno, non l’acceleratore. Il più recente è il presidente Obama che, prima di essere rieletto, in una conferenza stampa al Pentagono ha annunciato che il nation building di lungo periodo e ampie operazioni militari non sono più strumenti della politica americana.

Le strategie del massimalismo e del retrenchment hanno un’ovvia relazione ciclica una con l’altra. Quando il massimalista si spinge troppo oltre, il retrencher si fa avanti per raccogliere i cocci. Poi quando il retrencher non riesce ad affrontare le nuove sfide o a competere efficacemente, il massimalista ricompare, pronto a farlo con formule ambiziose. Vista l’inclinazione di Trump ad agire precipitosamente e l’eclettico gruppo di consiglieri che lo circonda, è probabile che l’approccio americano sia sul punto di cambiare ancora.

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Il Gazzettino, 9 dicembre 2016 – Legge elettorale, il rischio di ritornare alla Prima Repubblica

La Corte Costituzionale discuterà in udienza pubblica i ricorsi di incostituzionalità sulla legge elettorale il 24 gennaio. Tuttavia, qualunque sarà la decisione della Corte costituzionale, in futuro avremo molto probabilmente parlamenti più frammentati e governi più instabili. Se i giudici costituzionali dovessero decidere di cancellare il premio di maggioranza e il ballottaggio, ne verrà fuori una legge proporzionale simile a quella del Senato (il vecchio Porcellum già modificato da un’altra sentenza della Consulta), che segnerà il ritorno per via giudiziaria a un sistema simile a quello in vigore durante la cosiddetta Prima Repubblica. Se invece l’Italicum verrà confermato così com’è, il sistema istituzionale post referendario (che ha confermato il nostro bicameralismo perfetto) si ritroverà con una legge elettorale maggioritaria alla Camera ed una legge proporzionale al Senato. Visto l’orientamento delle forze in campo, c’è da scommettere che l’unica via d’uscita sarà in senso proporzionale.

Del resto, che questa fosse la vera posta in gioco l’abbiamo detto e ridetto. E com’era  prevedibile, con la vittoria del No (dopo un quarto di secolo dedicato al tentativo di dar vita a un sistema di democrazia dell’alternanza) rischiamo ora di tornare al punto di partenza, cioè ad un sistema politico consociativo fondato su di un sistema elettorale proporzionale. Insomma, un ritorno in grande stile alla Prima Repubblica. Non per caso, sono ricomparse quelle incantevoli formule istituzionali (il governo di scopo, del presidente, ecc.) che hanno il buon sapore del tempo andato. Col risultato che la grosse koalition, il governo di “larghe intese” (vale a dire un’alleanza tra PD e Forza Italia), rischia di essere una strada obbligata. Che è poi quello che voleva Berlusconi. Dopodiché, come si possa tornare alla vecchia «Repubblica dei partiti» senza i partiti, adesso cioè che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, resta per me un mistero. Ma perché stupirsi? Come canta Checco Zalone, «la prima Repubblica non si scorda mai».

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Il Foglio, 8 Dicembre 2016 – Se si vuole votare subito la strada è il Consultellum”. Anche Maran (Pd) è per il Lodo Foglio

Anche Alessandro Maran, vice presidente del Partito democratico al Senato non ha dubbi: “Se il partito del voto vuole votare davvero – vale per Renzi e per tutti gli altri, da Salvini a Grillo e a Berlusconi – non ha altra scelta che puntare su questa carta”. Maran si riferisce al Lodo Foglio, la proposta avanzata oggi da Claudio Cerasa di sostituire l’Italicum con il Consultellum tarato sulla Camera già approvato nel 2014 dalla Corte, approvarlo e sciogliere le Camere.

“Sia chiaro – prosegue il senatore democratico – io resto un vedovo inconsolabile. Continuo a ritenere il sistema proporzionale un sistema orrendo e un ritorno alla Prima Repubblica una sciagura. Ma visto l’orientamento delle forze in campo, non c’é dubbio che l’unica via d’uscita sarà in senso proporzionale. Del resto, che questa fosse la vera posta in gioco l’abbiamo detto e ridetto. E com’era prevedibile, con la vittoria del No (dopo un quarto di secolo dedicato al tentativo di dar vita a un sistema di democrazia dell’alternanza) rischiamo ora di tornare al punto di partenza, cioè a un sistema politico consociativo fondato su di un sistema elettorale proporzionale. Insomma, un ritorno in grande stile alla Prima Repubblica. Non per caso, sono ricomparse quelle incantevoli formule istituzionali (il governo di scopo, del presidente, ecc.) che hanno il buon sapore del tempo andato. Col risultato che la grosse koalition, il governo di ‘larghe intese’ (vale a dire un’alleanza tra Pd e Forza Italia), rischia di essere una strada obbligata. Sia ora che dopo nuove elezioni. Che è poi quello che voleva Berlusconi. Dopodiché, come si possa tornare alla vecchia Repubblica dei partiti senza i partiti, adesso cioè che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, resta per me un mistero. Ma perché stupirsi? Come canta Checco Zalone, la prima Repubblica non si scorda mai”.

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LIBERTAeguale Magazine, 29 novembre 2016 – Perché il No premia i professionisti del veto

L’Economist, con un pezzo intitolato «Why Italy should vote no in its referendum», si è schierato per il No al referendum. Va da sé che ce ne faremo una ragione. Tuttavia, l’editoriale del settimanale britannico è molto istruttivo e ci aiuta a chiarire qual è la posta in gioco.

Fateci caso, da quando in Italia si discute di riforme istituzionali, più o meno dalla fine degli anni Settanta (la Commissione Bozzi è stata istituita appunto nel 1983), la questione di fondo è sempre la stessa: l’Italia può diventare una democrazia parlamentare normale, oppure no? Vale a dire: può diventare una democrazia nella quale chi vince le elezioni può attuare il suo programma (dentro un quadro di garanzie fornite soprattutto dalla Corte costituzionale) e nella quale la valorizzazione dell’autonomia avviene senza conflitti paralizzanti tra centro e periferia? L’abbiamo ripetuto molte volte, il nodo politico della riforma del bicameralismo sta tutto qui.

Sono a confronto, infatti, da almeno trent’anni, due concezioni della democrazia: una è assembleare ed è fondata sulla cosiddetta centralità del Parlamento, l’altra è fondata sulla responsabilità degli Esecutivi. La prima era propria della peculiarità italiana del dopoguerra, parte dell’anomalia di un sistema politico caratterizzato dalla mancanza di alternanza (per capirci, governavano sempre gli stessi); la seconda è propria dei sistemi parlamentari più avanzati.

In tutti i paesi con i quali amiamo confrontarci (a cominciare dal Regno Unito) chi vince le elezioni nella prima Camera governa. E le garanzie che non travalichi i limiti posti dalla Costituzione sono date dall’organo di giustizia costituzionale e non da un Senato pensato per fare, in modo del tutto anomalo, da contraltare al Governo. Infatti, dappertutto le seconde Camere (che non danno la fiducia e dove il Governo non può porre la fiducia) hanno un potere paritario solo su leggi costituzionali e poco altro perché non devono impedire la governabilità.

L’Economist ha spiegato che l’Italia non può diventare una democrazia parlamentare normale. Insomma, quel che vale per gli inglesi non può valere per l’Italia, perché il nostro «è il paese che ha prodotto Benito Mussolini e Silvio Berlusconi ed è vulnerabile in modo allarmante al populismo». Inoltre, «il rischio dell’impianto di Renzi è che il principale beneficiario sia Beppe Grillo, un ex comico e leader del Movimento Cinque Stelle, una coalizione scombinata che chiede il referendum per uscire dall’euro (…) lo spettro di Grillo come primo ministro eletto da una minoranza e reso stabile nell’incarico dalle riforme di Renzi, è una prospettiva che molti italiani – e buona parte dell’Europa – troverebbero preoccupante». Oltretutto, conclude il settimanale inglese, se vince il No, «l’Italia può mettere insieme un governo tecnico di transizione come ha già fatto molte volte in passato». Chiaro, no?

Non per caso, Claudio Cerasa è tornato sulla questione sottolineando spiritosamente che «improvvisamente, gli storici avversari di Berlusconi stanno scoprendo di avere oggi gli stessi nemici che un tempo aveva Berlusconi: la Cgil, l’Associazione nazionale dei magistrati, Magistratura democratica, gli ambientalisti, la sinistra comunista, i partigiani della Costituzione, alcuni magistrati della procura di Palermo, lo stesso Economist. E la simpatica accozzaglia che oggi dice No alla riforma costituzionale ha un unico grande punto in comune: la difesa di un sistema istituzionale come quello attuale che premia la rappresentatività più che la governabilità e che, negando sufficienti poteri al presidente del Consiglio per governare, rende inevitabile la proliferazione dei professionisti del veto» (Why Economist is unfit to read Italy).

Anche Angelo Panebianco la pensa così; «Questo, infatti, è il vero significato del ritorno alla proporzionale che questi gruppi imporrebbero nel caso di vittoria del No. La proporzionale ha questo di vantaggioso: assicura la sopravvivenza anche a partiti e partitini che non hanno più molto da dire o da offrire al loro Paese» (I calcoli (politici) sbagliati – Corriere.it).

A dire il vero, c’è anche chi ritiene che una legge proporzionale e la permanenza del bicameralismo paritario potrebbero consentire un paio di conventio ad excludendum: verso la destra lepenista e verso il M5S. Insomma, la proporzionale «servirà appunto a bloccare l’ascesa dei Cinque Stelle: consentirà a tutti gli altri di fare muro contro di loro». I precedenti storici, ha tuttavia chiarito Panebianco, «non danno ragione a chi sostiene questa tesi. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, in diversi Paesi europei vennero abbandonati i sistemi elettorali maggioritari fino ad allora in vigore e sostituiti con la proporzionale: lo scopo, almeno in alcuni casi, era quello di bloccare la crescita dei partiti socialisti. I vecchi partiti conservatori e liberali adottarono la proporzionale perché minacciati elettoralmente da competitori temibilissimi, la cui ascesa — essi pensavano — sarebbe stata irresistibile senza lo «sgambetto» della proporzionale. Si trattò di un calcolo sbagliato. Ad esempio, nei Paesi scandinavi, il passaggio alla proporzionale non riuscì affatto a bloccare la crescita elettorale dei socialisti e a tenerli a lungo lontani dal governo. Ma la storia, si sa, interessa poco ai politici (e al grosso dei loro elettori) per i quali conta soltanto il presente».

Sbaglierò, ma quella di «fare muro» contro i Grillini è un’illusione. Il vecchio sistema dei partiti non torna più, neppure ripristinando proporzionale e preferenze. La «metamorfosi» è già avvenuta. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello stato. Non si tratta di una questione tecnico-istituzionale, ma di una questione etico-politica. Caduti gli stimoli del passato, come si riattiva la partecipazione alla politica? Non è per questo che abbiamo scelto le primarie? Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile?

Non c’è modo di ripristinare il vecchio sistema. Piuttosto, come ricorda Sheri Berman nel numero che Foreign Affairs ha dedicato al populismo (The Power of Populism), «le reali minacce rivoluzionarie emergono quando le stesse democrazie creano crisi pronte per essere sfruttate essendo incapaci di rispondere alle sfide che hanno di fronte. Il populismo di destra – e a dire il vero, il populismo di qualunque genere – è un sintomo della democrazia in difficoltà; il fascismo e gli altri movimenti rivoluzionari sono la conseguenza di una democrazia in crisi» (Populism Is Not Fascism).

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LIBERTÀeguale Magazine, 11 novembre 2016 – Con Trump la classe operaia non va in paradiso

Donald Trump è il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. È stato eletto al termine di una campagna elettorale sconvolgente, populista e polarizzante che, secondo il NY Times, ha preso di mira senza tregua «istitutions and long-held ideals of American democracy».

L’esito sorprendente ha smentito tutti i sondaggi che, fino all’ultimo, davano ancora ad Hillary Clinton un piccolo ma persistente margine di vantaggio.

Il trionfo di Trump, un imprenditore edile di 70 anni diventato una star televisiva, senza nessuna esperienza di governo, suona come un deciso rifiuto delle forze dell’establishment che si sono radunate contro di lui, dal mondo degli affari alla pubblica amministrazione, e del «consenso», e cioè della conformità, dell’unione di intenti, che finora hanno costruito su qualsiasi cosa, dal commercio all’immigrazione.

Il risultato indica la sconfessione non solo di Hillary Clinton ma anche del presidente Obama, la cui eredità è improvvisamente in discussione: otto anni di sforzi coronati da più di un risultato finiranno nelle mani di un uomo determinato a cancellarli; lo stesso uomo che lo ha descritto, diffamandolo, come un musulmano nato in Africa che ha conquistato la presidenza con l’inganno.

Ed è stata una dimostrazione perentoria di forza da parte di una coalizione ampiamente trascurata, composta principalmente da elettori bianchi blue-collar che hanno avvertito che la promessa degli Stati Uniti è sfuggita loro di mano dopo decenni di globalizzazione e di multiculturalismo e che ha trovato in Trump (un abitante di Manhattan, sposato tre volte che vive in un attico di tre piani foderato di marmi sulla Fifth Avenue), un improbabile campione. Non per caso, subito dopo il voto, Trump si è rivolto ai suoi sostenitori dicendo: «Le donne e gli uomini dimenticati del nostro paese non saranno più dimenticati». E nel suo discorso ha scelto di fare quel che si è guardato bene di fare nel corso di una rovente campagna nella quale ha alimentato continuamente divisioni: un appello per l’unità. «Ora è tempo per l’America – ha detto – di fasciare le ferite delle divisioni».

Fin dall’inizio della campagna elettorale (nella quale ha esordito con una serie di affermazioni scioccanti con le quali sosteneva che gli immigrati messicani erano stupratori e criminali), Trump è stato largamente sottovalutato come candidato, prima dai suoi avversari nella nomination repubblicana e poi dalla sua rivale democratica. La sua ascesa è stata ampiamente mancata dai sondaggisti e dagli analisti. E una certa aria di improbabilità ha accompagnato la sua campagna, a danno di quanti hanno sottovalutato il suo messaggio pieno di rabbia, il suo stile e la sua capacità di improvvisare, e il suo appello agli elettori disillusi. Ha proposto rimedi che hanno sollevato dubbi di costituzionalità, come il divieto di ingresso negli Stati Uniti per i musulmani. Ha minacciato gli avversari, promettendo denunce contro le agenzie di stampa che hanno osato criticarlo e contro le donne che lo hanno accusato di molestie sessuali.

A volte, ha semplicemente mentito. Ma i suoi comizi senza filtri e il suo egocentrismo hanno attratto un seguito entusiasta, fondendo politica identitaria e un populismo economico che spesso ha sfidato la stessa linea di partito. I suoi comizi sono diventati il fulcro di un movimento politico che si è riconosciuto nella quotidiana promessa di una vittoria dilagante nelle elezioni (e oltre) e nella denuncia insistita di una politica «truccata» contro Trump e i suoi sostenitori. È sembrato incarnare il successo e la grandezza che molti dei suoi seguaci sentivano mancare nelle loro vite e nel loro stesso paese (tutte cose che a dire il vero che nel nostro piccolo, in Italia, abbiamo già sperimentato). Ha snobbato le modalità di una politica moderna trainata dai sondaggi, bollandola come uno spreco di denaro e di tempo ed ha puntato sulla «pancia» del Paese. Per Hillary Clinton la sconfitta segna la fine inattesa di una dinastia politica che ha caratterizzato la politica democratica per una generazione. Più e più volte, sono emerse le sue debolezze come candidato. Non è riuscita ad entusiasmare gli elettori affamati di cambiamento. Ce l’ha messa tutta per costruire fiducia con  americani sconcertati per la sua decisione di usare, da segretario di Stato, un email server privato; e si è sforzata di trovare argomentazioni convincenti che la presentassero come un campione degli oppressi nonostante i discorsi a pagamento che le hanno fruttato milioni di dollari. Ma non è bastato.

Il risultato è anche una severa (e storica) lavata di capo per il Partito democratico da parte dei blue-collar bianchi che hanno formato la base del partito dalla presidenza di Roosevelt a quella di Bill Clinton. E per la sorpresa di molti a sinistra, gli elettori bianchi che hanno contribuito ad eleggere il primo presidente nero, sembrano più riluttanti ad allinearsi dietro ad una donna bianca.

A spingere Trump in una vittoria inaspettata sulla Clinton sono stati i luoghi che si sentono più lasciati indietro in una America che cambia.

Trump ha conquistato margini enormi tra gli elettori rurali ed extraurbani e schiaccianti vantaggi tra i blue-collar bianchi e in diversi casi, ha impedito che Hillary Clinton ottenesse un vantaggio tra i bianchi in possesso di istruzione universitaria nella misura che sembrava possibile. La chiave del successo di Trump sta nello sfondamento tra gli elettori della classe operaia bianca. Come del resto i sondaggi annunciavano da mesi, la coalizione di Trump è centrata sugli elettori bianchi senza istruzione universitaria. E tra questi elettori, Trump ha schiacciato Clinton con margini enormi, quasi dovunque e specialmente nel Sud. Ha battuto Clinton tra i bianchi senza istruzione universitaria con 18 punti percentuali nel New Hampshire, 21 in Colorado, 22 in Arizona, 24 in Wisconsin, 31 punti in Michigan e 35 nel Missouri. Il margine diventa colossale negli stati meridionali: 34 punti in Florida, 40 punti in North Carolina, ben 64 punti in Georgia. Perfino negli Stati dove Hillary Clinton è andata bene, come il New Jersey, il Wisconsin, la Pennsylvania e Washington, i margini di vantaggio di Donald Trump tra i lavoratori bianchi sono enormi. In molti casi, questi dati rappresentano un declino significativo per la Clinton anche a rispetto ai dati di Obama nel 2012. E alla fine, la sua affermazione fra gli elettori delle minoranze è risultata troppo esigua per resistere al «surge» dei blue-collar bianchi. In un’elezione che è diventata praticamente una guerra civile tra due Americhe, lo schieramento di Trump si è dimostrato più entusiasta e più unito di quello di Hillary Clinton. E ha spinto ora l’America in un esperimento inaspettato e, forse, senza precedenti.

Come ha detto Hillary Clinton, «We owe him an open mind and the chance to lead». «La sconfitta fa male – ha proseguito – ma per favore non smettete mai di credere che vale la pena combatte per quel che è giusto, ha detto ai giovani che l’hanno sostenuta. Abbiamo bisogno di voi per proseguire queste battaglie adesso e per il resto della vostra vita».

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l’Unità, 10 novembre 2016 – Il fallimento dell’establishment democratico

Che nelle elezioni fosse in gioco anche la sua eredità, il presidente Obama l’ha detto in molte occasioni. «Il mio nome può non essere in gioco, ma lo sono i nostri progressi», ha ripetuto in questi mesi nei comizi a sostegno di Hillary Clinton, elencando i suoi risultati: estensione della copertura sanitaria, ripresa economica e i soldati in gran parte ormai al sicuro, lontano dai pericoli dell’Iraq e dell’Afghanistan.  E anche la sua eredità ha perso martedì sera.

L’elezione di Donald Trump (che ha vinto le elezioni consolidando il sostegno degli elettori bianchi e facendo conquiste inaspettate tra i gruppi minoritari;e questa volta è stato il livello d’istruzione a dividere gli elettori) è stata un colpo duro per il presidente che ha fatto passare riforme che hanno cambiato la sanità, Wall Street e l’approccio all’ambiente.

Il che, considerato che nei sondaggi il consenso per il presidente Obama non è mai stato così alto, suona per i Democratici addirittura paradossale. Ma il sostegno del presidente americano non è stato sufficiente neppure per portare ai seggi i suoi supporter:Hillary Clinton perde almeno quattro degli Stati che Obama ha vinto per due volte.

Le politiche di Obama non hanno mai raggiunto il livello di popolarità di Barack Obama. L’Obamacare non ha mai raggiunto il 50% dei consensi. E perfino quando il tasso di disoccupazione è sceso sotto il 5%, confermando l’uscita dalla crisi economica che aveva ereditato, per la gente non era abbastanza. La sensazione che il sistema fosse truccato a vantaggio dei ricchi e di chi ha le conoscenze giuste, ha alimentato  le campagne populiste a sinistra e a destra. Un’ansia che Donald Trump e Bernie Sanders hanno sfruttato quando sono scesi in campo contro la Trans-Pacific Partnership, un altro pezzo della sua eredità che il presidente non è riuscito a vendere completamente all’opinione pubblica.

Certo, le elezioni dicono un paio di cose importanti sull’America di oggi. Donald Trump ha dimostrato che l’odio vende e che il razzismo, la faziosità e la misoginia possono alimentare una campagna elettorale; che reclutare l’arcipelago dei blog della “alternative right”, i teorici della cospirazione, i bianchi suprematisti e anti-semiti come alleati feroci senza alienarsi gli affidabili elettori repubblicani, è una cosa fattibile; che gli americani di ogni estrazione – bianchi, neri, latinos, uomini, donne, la gente delle comunità rurali e delle aree urbane – hanno una cosa in comune: sono preoccupati per il loro futuro economico. Entrambi i candidati, hanno cercato di mettere la questione al centro della loro campagna elettorale. Ma Trump ha superato perfino Sanders nello sfruttare le preoccupazioni economiche che attraversano tutte le classi demografiche. Ed è riuscito a farla franca, sfruttando le preoccupazioni reali per attaccare gli immigrati e gli accordi commerciali, senza offrire nessuna politica convincente per creare nuovi posti di lavoro e accrescere i salari. Le sue proposte economiche e finanziarie finirebbero per colpire proprio i lavoratori e la gente comune e scavare un buco nel bilancio federale. E il bello è che proprio Hillary Clinton aveva offerto invece alcune idee pratiche che avrebbero potuto migliorare la situazione economica di molti americani. Resta il fatto che il prezzo del perdurante risentimento si è visto ieri.

I Democratici ora non controlleranno quasi nulla al di sopra del livello municipale. E una cosa è chiara: l’establishment democratico ha fatto fallimento. Il soffitto di cristallo è rimasto intatto e il racconto diffuso dai media su come i Repubblicani fossero in frantumi come partito, si è rivelato completamente sbagliato. I Repubblicani non hanno un leggero margine sui Democratici in un sistema politico in rovina. I Repubblicani sono in ascesa. Trump ha dato loro una missione. Il paese ora è loro.

Chiunque si candidi a raccogliere quel che ora resta del Partito Democratico dovrà cercare un modo per mettersi in sintonia con una parte più ampia del paese. É possibile che, nel lungo termine, i Repubblicani non possano vincere con la loro composizione demografica, ma martedì abbiamo visto che il lungo termine è ancora lontano. I Democratici devono conquistare più elettori bianchi. E devono farlo in un modo che non metta in discussione gli assi di fondo, non negoziabili, del moderno partito (anti-razzista e anti-sessista). E non ci sono modelli in circolazione. Anche perche, forse oggi è davvero finito l’ordine mondiale liberale che abbiamo ereditato dal dopoguerra.

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Stradeonline, 10 novembre 2016 – ISOLAZIONISMO USA E TRUMPISMO GLOBALE. FINISCE L’ORDINE POLITICO DEL DOPOGUERRA

Forse oggi è davvero finito l’ordine mondiale liberale che abbiamo ereditato dal Dopoguerra. Donald Trump sarà il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Uno straordinario colpo di scena al termine di una campagna elettorale populista e polarizzante (che il NY Times ha definito una “exhausting parade of ugliness”) che è sfociata in uno stupefacente ripudio dell’establishment.

L’esito sorprendente (Donald Trump ha vinto le elezioni consolidando il sostegno degli elettori bianchi e facendo conquiste inaspettate tra i gruppi minoritari; e questa volta è stato il livello d’istruzione a dividere gli elettori) mette, tuttavia, in luce anche alcuni aspetti dell’America di oggi a cui dovremmo forse prestare attenzione molto oltre le elezioni di ieri. Anche perché ci riguardano.

Donald Trump ha dimostrato, in primo luogo, che l’odio «vende» e che il razzismo, la faziosità e la misoginia possono alimentare una campagna elettorale.

In secondo luogo, Trump ha dimostrato anche che reclutare l’arcipelago dei blog della “alternative right”, i teorici della cospirazione, i bianchi suprematisti e anti-semiti come alleati feroci senza alienarsi gli affidabili elettori repubblicani, è una cosa fattibile.

In terzo luogo, gli americani di ogni estrazione – bianchi, neri, latinos, uomini, donne, la gente delle comunità rurali e delle aree urbane – hanno una cosa in comune: sono preoccupati per il loro futuro economico. Il paese ha sperimentato di recente la più lunga recessione dalla Grande Depressione, gli stipendi sono stagnanti da anni e la disparità salariale non è mai stata così grande dagli anni Venti. Entrambi i candidati hanno cercato di mettere la questione al centro della loro campagna elettorale. Ma Trump ha superato perfino Sanders nello sfruttare le preoccupazioni economiche che attraversano tutte le classi demografiche. Ed è riuscito a sfruttare le preoccupazioni reali per attaccare gli immigrati e gli accordi commerciali, senza offrire nessuna politica convincente per creare nuovi posti di lavoro e accrescere i salari. Le sue proposte economiche e finanziarie finirebbero per colpire proprio i lavoratori e la gente comune e scavare un buco nel bilancio federale. E il bello è che proprio Hillary Clinton aveva offerto invece alcune idee pratiche che avrebbero potuto migliorare la situazione economica di molti americani.

In quarto luogo, social media e stazioni televisive hanno amplificato come non mai sputi e insulti sparsi con dovizia per più di un anno e mezzo, ma non sono in grado di stabilire dei punti fissi, delle verità condivise, o di favorire un dibattito costruttivo su questioni serie (dal cambiamento climatico alle politiche in materia di criminalità). Va detto anche che, nel democratizzare i media, Twitter e Facebook hanno anche fatto sì che per gli americani (e per tutti noi) sia possibile imbattersi solo nei messaggi che vogliono (vogliamo) sentire. Senza contare che, affamati di ascolti, Fox News, CNN ed altri network televisivi hanno consegnato a Trump un microfono aperto fin dal principio della corsa. Avendo soffiato sul fuoco di una faziosità estrema per anni, i leader Repubblicano non potevano fermare l’ascesa di Trump nelle primarie e temevano di alienarsi i suoi supporter se l’avessero contrastato nelle elezioni generali. E Trump ha usato a sua padronanza dei media e la sua capacità di intrattenere (spesso utilizzando insolenze ed ingiurie) per catturare l’attenzione.

 

Va da sè, infine, che la vittoria di Trump si ripercuoterà molto oltre i confini del Paese, sconvolgendo un ordine stabilito da decenni e sollevando domande molto serie sul ruolo dell’America nel mondo. Per la prima volta dalla Seconda Guerra mondiale gli americani hanno scelto un presidente che ha promesso di ribaltare l’internazionalismo praticato dai predecessori di entrambi i partiti e di costruire muri sia materiali che metaforici. Il che lascia presagire una America più concentrata sui propri affari interni che lascia il resto del mondo in balia di se stesso. Ovviamente, la rivoluzione contro l’establishment di Washington (di entrambi i partiti) che ha sospinto Trump al potere riflette anche uno spostamento importantissimo nella politica internazionale evidenziato già quest’anno dal voto per il «leave» nel referendum britannico. Il successo di Trump potrebbe rilanciare i populisti, i nativisti, i nazionalisti, i movimenti per la chiusura dei confini, che spopolano in Europa e si diffondono in altre parti del mondo. Per il Messico, ciò potrebbe presagire una nuova era di tensioni con il suo vicino settentrionale; per l’Europa e l’Asia potrebbe riscrive le regole delle alleanze, delle intese commerciali e della cooperazione internazionale; per il Medio Oriente, potrebbe presagire un possibile allineamento con la Russia e un nuovo conflitto con l’Iran.

 

Aggiungo che di fronte agli elettori non c’era solo l’elezione presidenziale. Decine di milioni di persone in tutto il paese erano chiamate a votare referendum su proposte che potrebbero cambiare le loro vite e le loro comunità. Gli elettori di nove Stati hanno votato su misure per ripensare la guerra (fallita) alle droghe permettendo l’uso medico e ricreativo della marijuana. Città e contee, incluse Los Angeles e Seattle, hanno votato sul finanziamento di progetti infrastrutturali relativi ai trasporti di cui c’è disperato bisogno. Lo Stato di Washington ha votato sulla tassazione delle emissioni inquinanti. Altrove, la gente ha votato misure su un più stretto controllo delle armi e sull’incremento dei minimi salariali. Queste proposte sono una riposta ai fanatici che hanno bloccato il Congresso costringendolo all’inazione. In fondo, per i cittadini frustrati dal malfunzionamento del sistema politico-istituzionale (tutto il mondo è paese) può rivelarsi un modo per spingere avanti le cose.

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GIORNALI2016

Il Gazzettino, 6 novembre 2016 – La Costituzione va difesa innovandola

“Nessuno ha mai pensato che basti riformare la Costituzione per risolvere i nostri problemi, ma alle difficoltà del Paese non è estranea la debolezza delle nostre istituzioni”. Il senatore isontino del Pd e vicecapogruppo dei Democratici a palazzo Madama, Alessandro Maran, premette così il suo ragionamento a sostegno del “sì” al referendum costituzionale del 4 dicembre. Il suo ragionamento di principio, prima di entrare nello specifico della materi, sostiene che “è verissimo che con le riforme costituzionali non si mangia, ma è altrettanto vero che un sistema politico-istituzionale (governo, Parlamento, istituzioni territoriali e pubbliche amministrazioni, partiti) che funzioni meglio, cioè più rapido, più trasparente, più responsabile, è la condizione necessaria per poi fare tutto il resto”.

Maran ricorda che in Germania la “legge fondamentale” è stata modificata più di 50 volte dal 1949; in Francia nel 2008 è stato approvato il più importante progetto di riforma della Costituzione del 1958 e che in Spagna sono i socialisti a sostenere che “la miglior difesa della Costituzione è la sua riforma”.

Maran dimostra così che “tutti i Paesi hanno dovuto adattarsi ai grandi cambiamenti”. Quanto alla riforma in sé, mette l’attenzione sul Senato di cui faranno parte consiglieri regionali e sindaci considerandolo “il luogo di mediazione”, la cui mancanza in questi anni “ha generato numerosissimi conflitti finiti alla Corte costituzionale”.

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GIORNALI2016

l’Unità, 27 ottobre 2016 – Ritorno improvviso della guerra fredda

Si è molto parlato del ritorno al clima da guerra fredda tra USA e Russia. E manco a dirlo, una parte della politica italiana, quella antieuropea e antiamericana (la stessa – da Salvini a Berlusconi, da Grillo all’estrema destra – che, guarda caso, si batte per il NO al referendum) si è schierata con Putin. Ma un ritorno al bipolarismo della guerra fredda è impensabile. Perché? Perché il mondo tende al multipolarismo. E’ vero che ciascuno dei «poli» ha un peso molto diverso e che alcuni di questi, come appunto la Russia, pur non essendo al livello degli Usa dal punto di vista economico, hanno un’importanza militare (e nucleare) che può ostacolare la libertà di movimento degli altri, ma oggi il sistema internazionale – com’è stato costruito dopo la seconda guerra mondiale – è ormai irriconoscibile. La causa? L’ascesa delle potenze emergenti (della Cina, dell’India, ecc.), la globalizzazione dell’economia, il trasferimento, storicamente senza precedenti, di ricchezza relativa e di potere dall’Ovest all’Est del mondo (quello che Fareed Zakaria ha chiamato «the rise of the rest») e l’influenza crescente dei nonstate actors (mondo degli affari, tribù, organizzazioni religiose e perfino network criminali). Tra non molto, dunque, il sistema internazionale sarà un sistema globale multipolare con un divario di potenza sempre più contenuto tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Trent’anni fa, tanto per fare un esempio, una città come Shenzhen non esisteva ancora. Oggi ha quasi nove milioni di abitanti, più o meno la popolazione dei cinque distretti di New York. Molti dei suoi residenti sono nati in campagna, nella miseria, e oggi hanno lo stesso tenore di vita di Brooklyn. In una sola generazione, un villaggio di pescatori è diventato il quarto scalo al mondo. Un porto che movimenta, da solo, più di quanto riescono a fare insieme Los Angeles e Long Beach, i due maggiori porti americani. Nel giro di soli trent’anni circa 300 milioni di cinesi sono passati dalla miseria più nera a standard economici paragonabili a quelli occidentali: un’impresa senza precedenti nella storia mondiale. Si tratta di una crescita che è più visibile in Asia (l’India è appena un po’ più indietro della Cina), ma non è confinata all’Asia. Nei primi dieci anni del Duemila, sei delle prime dieci economie che sono cresciute di più al mondo sono africane.

Inoltre, non cambiano soltanto i protagonisti, cambiano anche la portata delle questioni transnazionali decisive per la prosperità globale: l’invecchiamento della popolazione nei paesi sviluppati, i limiti crescenti nell’energia, nel cibo, nell’acqua e le preoccupazioni circa il cambiamento climatico rischiano di limitare quella che rimane un’epoca di prosperità senza precedenti.

Il guaio è che, storicamente, i sistemi multipolari emergenti sono stati più instabili di quelli bipolari o unipolari. In altre parole, è probabile che le rivalità strategiche continuino a ruotare attorno al commercio, agli investimenti, all’innovazione e all’acquisizione tecnologica, ma non è da escludere una corsa agli armamenti, all’espansione territoriale e alle rivalità militari, simile a quella del XIX secolo. Questa nuova realtà non ha un esito scontato. Anche perché gli Stati Uniti rimarranno il paese più potente, ma saranno meno dominanti. E le declinanti capacità economiche e militari faranno emergere le contraddizioni tra le priorità interne e quelle di politica estera. Chiunque dovesse diventare presidente. Ovviamente, se gli USA, che hanno agito per anni come il governo di fatto del mondo, ora si comportano come un paese qualunque, il mondo avrà meno governo. Non è detto, infatti, che la Cina ed «il resto» abbiano i soldi e l’inclinazione per rilevare le responsabilità americane. Il guaio è che l’arrivo della superpotenza europea è probabile che coincida con quello di Godot. Il punto, insomma, è proprio questo: se, come sembra, il mondo sta andando verso la formazione di blocchi regionali che svolgeranno il ruolo degli Stati nel sistema vestafaliano, se strutture continentali come l’America, la Cina e forse l’India e il Brasile hanno già raggiunto la massa critica, l’Europa vuole finalmente darsi una mossa? Non è l’ora di provare davvero a realizzare un’unità significativa? Non è scritto da nessuna parte che il declino, la decadenza, un destino di minor potere regionale e globale, siano per l’Europa un esito inevitabile. La tecnologia, il ruolo dell’immigrazione, i miglioramenti nella sanità pubblica, norme che incoraggino una partecipazione più grande delle donne nell’economia, sono solo alcune delle misure che potrebbero cambiare la traiettoria delle tendenze attuali. Il ruolo della leadership sarà cruciale circa gli esiti. I leader e le loro idee contano. Non è un caso che dovunque lo scontro sia quello tra «Wall people» e «Web People», tra costruttori di muri e costruttori di legami, tra apertura e chiusura.

Prima fermata l’8 novembre.

Poi tocca a noi (e all’Austria) il 4 dicembre.

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GIORNALI2016

Il Piccolo, 18 ottobre 2016 – “La Carta va adattata ai tempi non adorata in modo acritico”

Il nuovo senato Sarà un luogo di mediazione e cancellerà incertezze e ricorsi che durano anni. Difetti? Sì, ma le cose andranno a regime con l’esperienza
di Diego D’Amelio
TRIESTE «La nostalgia del passato riappare continuamente nel dibattito sulla riforma, ma la Costituzione non va adorata in modo acritico bensì adattata ai tempi. Le modifiche poggiano su due assi: da una parte superare il bicameralismo perfetto assegnando alla Camera il voto di fiducia; dall’altra eliminare i conflitti di competenza fra Stato e Regioni, affidando al Senato la rappresentanza degli interessi territoriali». Per Alessandro Maran, vicecapogruppo Pd al Senato, la modifica della Costituzione non può più aspettare: «Nessuna democrazia è basata su un bicameralismo in cui i due livelli fanno le stesse cose. Ciò era frutto dei veti incrociati della Guerra fredda, le cose sono cambiate con la caduta del muro di Berlino. Ne aveva parlato Nilde Iotti già nel 1979, proponendo una camera delle Regioni e notando che in Cina avevano gli stessi parlamentari dell’Italia».
Lei cita Iotti. I fautori del No riprendono Piero Calamandrei…
Le costituzioni non sono immutabili: in Germania ci sono state oltre 50 modifiche dal dopoguerra e la Francia ha fatto l’ultima grande riforma nel 2008. Tutti gli Stati hanno dovuto adattarsi ai cambiamenti e adeguarsi a una filosofia dell’amministrazione basata su decentramento e regionalismo.
Ma i sostenitori del No parlano di deriva neocentralista. Falso. Nel 2001 la riforma del Titolo V ha modificato radicalmente i rapporti centro-periferia ma in assenza di una Camera delle Regioni i conflitti di competenza son finiti davanti ai giudici costituzionali invece che in un’aula politica. Il nuovo Senato sarà luogo di mediazione e cancellerà incertezze e ricorsi che durano anni.
Per le Regioni meno competenze. Nessun rischio per la Specialità?
Il riparto delle competenze è già stato modificato dalle sentenze della Corte costituzionale, che ha introdotto anche la clausola di supremazia. Come diceva De Gasperi, la Specialità prospera quando il suo esercizio si rivela più virtuoso e meno spendaccione di quello dello Stato: le regole aiutano, ma la responsabilità è in mano agli attori politici. Quegli stessi che stipuleranno l’intesa fra centro e periferia sui futuri Statuti d’autonomia: una garanzia per la specialità.
Il Senato sarà composto da designati a mezzo servizio? Stupidaggini. Il Senato non funzionerà più come oggi, riunendosi tutti i giorni per parlare di tutto. Il Bundesrat tedesco si riunisce e vota un giorno al mese.
I difetti?
La riforma non è perfetta, essendo frutto di una mediazione. Ma affronta in modo adeguato questioni sospese da decenni: superamento del bicameralismo perfetto, revisione del rapporto Stato-Regioni, governabilità. Le cose andranno a regime con l’esperienza.
La minoranza dem chiede la modifica dell’Italicum. Ce la farete?
Non sarà semplice: se nessuno vuole i collegi uninominali non resta che il ballottaggio dell’Italicum. Si scelga il metodo che si vuole ma si resti nell’ambito del maggioritario. Solo così gli elettori possono scegliere il governo, far sì che questo duri quanto la legislatura e giudicarne infine i risultati. Basta con la palude. E non si parli di scarsa democrazia: in Francia Hollande col 29% ha ottenuto il 53% dei seggi. Lo stesso in Inghilterra. E in entrambi i casi la Camera alta non è eletta.
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