Per sottrarsi al video di “Macron quindicenne e la prima immagine dell’amore con la prof. Brigitte” (video.repubblica.it), alla “storia di Brigitte, moglie e madre sedotta da Macron” (agi.it), ai servizi su “Macron e le future rughe (della moglie)” (vanityfair.it; l’edizione francese di Vanity Fair mette invece Macron in copertina “raconté par ses femmes”) e ai libri sul genere “Les Macrons” (“une enquête captivante sur un couple à la conquête du pouvoir”), consiglio l’inchiesta che la giornalista Anne Nivat ha condotto nella Francia “periferica” dove vive la maggioranza dei francesi e che racconta com’è cambiato il paese. La giornalista francese é una corrispondente di guerra che ha narrato conflitti lontani in Cecenia, in Iraq, in Afghanistan e che ora si é immersa in sei città francesi. Il libro “Dans quelle France on vit”, in che Francia viviamo, è pubblicato da Fayard.
Segnalo l’articolo che Pietro Ichino ha pubblicato sul quotidiano il Foglio in due tempi, il 26 e il 27 aprile 2017 (“L’origine del peccato”) e gli interventi e i documenti che il senatore del Pd ha raccolto sulla crisi interminabile della nostra compagnia di bandiera nel portale del suo sito dedicato a Le vicende di Alitalia nell’ultimo quindicennio.
Sempre su Alitalia, segnalo, “Dopo Alitalia, la fine del mondo? – Istituto Bruno Leoni“. Il paper di @AndreaGiuricin, pubblicato nel 2014, ma attualissimo.
Segnalo, inoltre, l’introduzione di Stefano Ceccanti alla riunione straordinaria della Presidenza di Libertàeguale dedicata al tema “Più Europa per l’Italia”. L’incontro (aperto alla partecipazione di amici e sostenitori dell’associazione) si è tenuto ieri presso l‘Empire Palace Hotel a Roma.
Questa, come stiamo scoprendo, è una fase contraddistinta da risultati elettorali sorprendenti.
Il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali francesi rappresenta una svolta epocale: è la prima volta nei quasi 59 anni della V Repubblica che entrambi i candidati al secondo turno non hanno niente a che vedere con il tradizionale spartiacque politico destra-sinistra.
Le elezioni anticipate in UK
A ben guardare, ha suscitato stupore anche la decisione del Primo ministro inglese, Theresa May, di portare il paese ad elezioni anticipate il prossimo 8 giugno. Ma perfino in un periodo caratterizzato dalle sorprese, è difficile immaginare in Gran Bretagna un risultato diverso da una consistente vittoria del Partito conservatore, destinata a riportare, rafforzata, Theresa May a Downing Street.
Quel che è in ballo, nelle prossime elezioni inglesi, non è, infatti, quale partito formerà il prossimo governo, ma quale partito prenderà la guida dell’opposizione. C’è sicuramente una diffusa disaffezione verso le politiche del governo conservatore, dal suo approccio maldestro alle trattative per la Brexit all’esteso risentimento prodotto dai continui tagli della spesa pubblica. Eppure, l’insoddisfazione nei confronti dell’opposizione e, in particolare, del Labour Party è molto più forte.
Chi prenderà la guida dell’opposizione? La crisi del labour party
Il Partito laburista è nel caos. Recentemente ha perso le elezioni suppletive in un collegio tradizionalmente solidissimo, è precipitato nei sondaggi ed è scosso da lotte fratricide. Un sondaggio realizzato dopo l’annuncio di nuove elezioni da parte di Theresa May, indica che il distacco dei Conservatori sul Labour è addirittura di 21 punti. Tanto per capirci, quando Margaret Thatcher ha travolto Michael Foot nelle elezioni del 1983 (il punto più basso nella storia del Labour) lo ha distanziato di «appena» 15 punti.
Il principale partito della sinistra britannica, a lungo faro d’Europa, ha cercato la salvezza nel modello demagogico-populista incarnato da Jeremy Corbyn (che è diventato il capofila della ribellione contro l’establishment, l’austerità e gli accordi commerciali), ma la radicalizzazione dei toni e dei contenuti voluta da Corbyn si è trasformata in un incubo politico ed elettorale.
Il leader laburista, che ha scelto (non diversamente da Bersani) di sfidare i populisti usando una retorica altrettanto populista, non riesce ormai ad entusiasmare neppure i militanti più affezionati al partito. Secondo un recente sondaggio, meno del 40% degli elettori del Labour ritiene che Corbyn sarebbe un primo ministro migliore della May e perfino una parte dei deputati laburisti non può sopportare il pensiero che il loro leader vesta i panni del primo ministro. Messe così le cose, viene ovviamente da chiedersi perché mai qualcuno dovrebbe votare laburista.
La Brexit e la campagna per il Remain
Il guaio è che il Partito laburista non sa più che tipo di partito è, né chi vuole rappresentare. Per questo non è più capace di prendere posizione sulle questioni che contano davvero, a cominciare dalla Brexit. Temendo di perdere la propria residua base operaia, il partito non ha appoggiato con convinzione la campagna del «Remain» e per non inimicarsi gli elettori della classe media urbana, non ha potuto nemmeno abbracciare fino in fondo la Brexit.
Il risultato è stata una totale incertezza che ha finito per alienargli il favore di entrambi gli elettorati. Le oscillazioni del Labour sulla Brexit hanno condotto molti liberali della classe media a spostarsi sui Liberal Democrats o semplicemente ad allontanarsi. Tony Blair ha già fatto appello agli elettori per sostenere i candidati anti-Brexit, indipendentemente dall’appartenenza di partito. E c’è chi dice che l’ex leader laburista potrebbe fare campagna elettorale su questa piattaforma con il leader liberal-democratico Tim Farron.
Il riposizionamento dei liberal democrats
I Liberal Democrats dal canto loro, decimati nelle elezioni del 2015 dopo una fase infelice come partner di minoranza nella coalizione di governo con i conservatori di David Cameron, si sono ora riposizionati come il partito dell’Europa.
E nel tentativo di conquistare il sostegno degli elettori del «Remain», che non hanno ancora digerito il risultato del referendum dell’anno scorso sulla partecipazione della Gran Bretagna all’Unione europea, stanno invocando un secondo referendum al termine dei negoziati sulla Brexit. Certo, potrebbero recuperare alcuni dei seggi perduti, ma il loro appeal elettorale è troppo limitato per dar vita ad una seria opposizione: sarebbe già un trionfo se riuscissero a recuperare 50 seggi alle prossime elezioni.
Per quel che riguarda, invece, l’Uk Indipendence Party, il voto sulla Brexit lo ha privato della sua ragion d’essere. Dal referendum in poi, il partito è dilaniato da una feroce guerra intestina. Oggi non è presente in Parlamento ed è improbabile che riesca a tornarci dopo le elezioni di giugno.
La Scozia e il referendum sull’indipendenza
In Scozia, il partito di governo è lo Scottish National Party. Alle ultime elezioni ha ottenuto un risultato incredibile (56 seggi su 59), lasciando al Labour, ai Liberal Democrats e ai Conservatori, un solo seggio ciascuno. Il leader del partito e primo ministro della Scozia, Nicola Sturgeon, ha cercato di sfruttare il risultato della Brexit per riproporre un nuovo referendum sull’indipendenza scozzese, ricordando che la maggioranza degli scozzesi ha votato per rimanere nell’Unione europea.
Theresa May ha ribadito, tuttavia, che qualunque referendum, se mai ce ne sarà uno, avrà luogo solo dopo la conclusione dei negoziati sulla Brexit e l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. Questo scontro è destinato a gettare un’ombra sulle prossime elezioni, ma c’è da dubitare che tra gli scozzesi ci sia davvero il desiderio di un nuovo referendum o della stessa indipendenza.
Dato il loro straordinario successo nelle ultime elezioni, non sarebbe sorprendente se i nazionalisti questa volta finissero per perdere un paio di seggi. Insomma, come in Inghilterra e nel Galles, il vero scontro non sarà su chi dovrà governare, ma tra chi, in un’opposizione indebolita, riuscirà ad ottenere la parte più cospicua delle briciole. Ed è probabile che, ancora una volta, sia il Partito laburista ad avere la peggio. Vent’anni fa, il partito sembrava inattaccabile in Scozia. Ancora nel 2010, vantava 41 delle 59 constituency scozzesi nel Parlamento di Westminster. Dopo l’8 giugno il Labour potrebbe non averne nessuna.
Una competizione aspra su austerità e immigrazione
Queste dovrebbero essere comunque elezioni importanti, l’occasione per un grande dibattito su quale genere di paese hanno in mente gli inglesi dopo la Brexit; una competizione aspra sui problemi, dall’austerità all’immigrazione. Ma proprio il «vuoto» lasciato dall’opposizione lascia intendere che di «contenuti» si parlerà pochissimo. Di sicuro, ci saranno litigi e urla sulla Brexit, e molti cercheranno di usare queste elezioni per una replica del referendum dell’anno scorso. Ma resta il fatto che, dopo l’8 giugno, sarà un governo conservatore ad avviare le trattative con l’Unione europea, con una politica e una strategia a malapena discusse in pubblico.
Le inattese elezioni politiche anticipate nel Regno Unito si aggiungono alla serie di voti nazionali imprevedibili e ad alta tensione, dalla Brexit e dalle elezioni americane dello scorso anno fino alle elezioni olandesi e al referendum turco di questa primavera, in attesa del secondo turno delle elezioni presidenziali francesi (prima delle elezioni federali tedesche in settembre e del voto italiano dell’anno prossimo).
E tutte queste consultazioni democratiche forniranno un’occasione importante di discussione pubblica e una misura fondamentale della volontà popolare. Ma saranno proprio le elezioni britanniche a contare meno delle altre. Del resto, «In is in. Out is out». Conviene tenerlo a mente.
Questa, come stiamo scoprendo, è una fase contraddistinta da risultati elettorali sorprendenti. Il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali francesi rappresenta una svolta epocale: è la prima volta nei quasi 59 anni della V Repubblica che entrambi i candidati al secondo turno non hanno niente a che vedere con il tradizionale spartiacque politico destra-sinistra.
Il Venezuela è sull’orlo della guerra civile. Continuano le proteste organizzate in tutte le città dall’opposizione alle quali il governo di Nicolás Maduro ha risposto chiamando i suoi sostenitori a scendere anch’essi in piazza. Mercoledì, negli scontri sono morti due manifestanti e un militare.
Il fallimento chavista, scrive sul Foglio Loris Zanatta, «è il fallimento del regime che aveva preteso di ergersi a modello di ordine antiliberale, a erede della tradizione populista latinoamericana» e «il suo tracollo è anche quello delle ricette e degli slogan con cui il Papa e i suoi eserciti di ammiratori simpatizzano». E nell’articolo, scritto anche per il quotidiano argentino Clarín, aggiunge: «El Papa critica a Temer, pero el desastre chavista no lo deja indemne. Revela que demonizar al mercado sirve para poner en fuga capitales, paralizar inversiones, sabotear la producción, provocar hambre, ira, exilio; que darle las espaldas a la democracia liberal sirvió para centralizar todos los poderes y transformar la dialéctica política en una guerra de religión de la que ninguna institución se ha salvado, y cuyo legado es el odio que divide el país; y que todo esto se hizo en nombre del pueblo, de los pobres que el régimen ha cultivado despilfarrando la riqueza más grande que Venezuela ha visto nunca en su historia».
Quasi tutti i sistemi politici del nostro continente si stanno ridefinendo a partire dalla frattura sull’Europa. Sono anni che Pietro Ichino si affanna a ripeterlo. Ora lo vedono anche i ciechi.
«Rispetto a questa frattura – come ha scritto Sergio Fabbrini sabato scorso sul Sole 24 Ore – destra e sinistra non sono distinguibili. Sia nell’una che nell’altra c’è chi vuole ritornare alle sovranità nazionali del passato e chi invece vuole difendere l’integrazione sovranazionale».
E se non si riconosce questo dato, non c’è modo di raccapezzarsi di fronte a quel che succede in Europa (e nel mondo) da un po’ di tempo a questa parte.
La riorganizzazione del sistema politico francese
Infatti, la frattura sull’Europa (e, come dappertutto, lo scontro tra «Wall people» e «Web People», tra costruttori di muri e costruttori di legami, tra apertura e chiusura) sta, inevitabilmente, riorganizzando anche il sistema politico francese a tal punto che, a pochi giorni dal voto, sono quattro i candidati che possono qualificarsi al ballottaggio.
Nella sua ultima newsletter settimanale sulle presidenziali francesi, Francesco Maselli ha descritto una situazione «inedita e difficilmente prevedibile»: «Il sistema politico che ha retto il Paese dal 1958 ad oggi è completamente saltato.
Tra i quattro candidati che possono aspirare alla qualificazione al ballottaggio solo uno, François Fillon, è il leader di un partito tradizionale, che tra l’altro ha scalato da outsider; Marine Le Pen rappresenta il partito erede del governo collaborazionista di Vichy, quel Front national considerato fino a pochi anni fa una vergogna nazionale; Emmanuel Macron è un giovane funzionario di 39 anni, ex banchiere, che ha fondato un movimento politico un anno fa con l’esplicito proposito di andare oltre le divisioni tradizionali destra-sinistra; Jean-Luc Mélenchon è il candidato della sinistra radicale, un politico di lungo corso che ha lasciato il partito socialista dopo anni di cocenti e umilianti sconfitte ai congressi interni.
Forse non cambierà il sistema istituzionale con cui funziona la Francia, avremo ancora un Presidente della Repubblica eletto a suffragio universale e un Parlamento eletto con un maggioritario a doppio turno, ma il sistema dei partiti che vedremo affermarsi dopo il 7 maggio sarà completamente diverso».
A pochi giorni dal voto in Francia
Fatto sta che, a pochi giorni dal voto, non esistono vincitori designati e la vittoria di Marine Le Pen non è da escludere. Roger Cohen ha scritto sul New York Times di ritenerla «verosimile se non probabile». «Ritornando in Francia il mese scorso, alle luci di Parigi e alla malinconia della provincia, – racconta il giornalista – sono stato colpito da quanto il partito di Le Pen, la cui ideologia razzista una volta era un tabù, sia ormai parte del mainstream. Il modello prevalente, l’alternanza tra centrosinistra e centrodestra, sembra defunto. I francesi sono stufi di presidenti socialisti e repubblicani sempre più indistinguibili».
Certo, Marine Le Pen dice di voler portare la Francia fuori dall’euro e restaurare il franco («L’uscita dall’Unione Europea potrebbe poi seguire. Il che – osserva Cohen – costituirebbe una rottura politica ed economica così violenta che persino la vittoria di Donald Trump ed il voto della Gran Bretagna per lasciare l’Unione impallidirebbero a confronto») ma la sua formula, che mescola sicurezza ed identità, sembra sinistramente efficace.
E, prosegue il columnist del quotidiano newyorkese, «la sua vittoria potrebbe avvenire all’incirca così. Si qualifica per il secondo turno con circa il 24% dei voti. Macron è il suo avversario con più o meno lo stesso punteggio. I sostenitori più di destra di Fillon migrano verso Le Pen. I supporter del candidato dell’estrema sinistra, Mélenchon, si rifiutano di votare per Macron. Non ne vogliono sapere del cosiddetto “voto utile” e ritengono che Macron, che va dicendo di essere un progressista, favorirà il capitalismo globale “neoliberale”. Anche alcuni sostenitori di Hamon si rifiuteranno di sostenere Macron. L’astensionismo cresce. Le Pen riesce a superare il 50% dei voti e a diventare presidente. Potrebbe succedere. Solo un pazzo, dopo Brexit e Trump, potrebbe escluderlo».
Il cambiamento della Francia potrebbe favorire Le Pen
Specie se si considera che la Francia è molto cambiata. E l’inchiesta che la giornalista Anne Nivat ha condotto nella Francia “periferica” dove vive la maggioranza dei francesi (il libro “Dans quelle France on vit”, “In che Francia viviamo”, è pubblicato da Fayard), spiega bene com’è cambiato il paese.
Roger Cohen, non per caso, conclude: «I francesi vivono meglio di quanto siano disposti ad ammettere ma in uno stato di ansia crescente alimentato da insuccessi che non sono disposti ad affrontare. Questo è lo sfondo della possibile vittoria di Le Pen. Ed è una prospettiva che fa paura».
Ecco cosa c’è in ballo nel voto per l’Eliseo. E Macron, con un partito creato dal nulla e con un po’ di fortuna, è diventato l’unica alternativa agli anti-liberali, agli antiglobalisti e alla rincorsa al risentimento. Vedremo domenica se i francesi pensano davvero «que l’on peut être libéral, européen, atlantiste, progressiste et de gauche».
Quasi tutti i sistemi politici del nostro continente si stanno ridefinendo a partire dalla frattura sull’Europa. Sono anni che Pietro Ichino si affanna a ripeterlo. Ora lo vedono anche i ciechi.
«Rispetto a questa frattura – come ha scritto Sergio Fabbrini sabato scorso sul Sole 24 Ore – destra e sinistra non sono distinguibili. Sia nell’una che nell’altra c’è chi vuole ritornare alle sovranità nazionali del passato e chi invece vuole difendere l’integrazione sovranazionale». E se non si riconosce questo dato, non c’è modo di raccapezzarsi di fronte a quel che succede in Europa da un po’ di tempo a questa parte.
Nella sua bella newsletter settimanale (qui sotto) sulle presidenziali francesi, Francesco Maselli, domenica scorsa ha descritto, infatti, una situazione «inedita e difficilmente prevedibile»: a pochi giorni dal voto sono quattro i candidati che possono qualificarsi al ballottaggio.
Dal Regno Unito all’Italia, dalla Colombia all’Ungheria, negli ultimi tempi i referendum popolari hanno sconvolto il mondo. Ma quello turco di domenica prossima è davvero unico nel suo genere.
La democrazia turca, si sa è in rianimazione; e il 16 aprile i turchi sono chiamati a votare per decidere se rimpiazzare il sistema parlamentare con un sistema presidenziale.
Per uno che ha fatto campagna elettorale su una piattaforma che voleva evitare coinvolgimenti e conflitti all’estero e che ha ripetutamente messo in guardia il suo predecessore contro qualunque azione militare in Siria, Trump ha fatto una capriola mozzafiato nello spazio di appena 63 ore dopo l’attacco chimico.