Monthly Archives: Feb 2017

GIORNALI2017

Il Gazzettino, 22 febbraio 2017 – Debora non può andarsene

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«Debora non può andarsene» – Il Gazzettino, 22 febbraio 2017

di Maurizio Bait

 

TRIESTE – «Il vero problema in Friuli Venezia Giulia, adesso che la Sinistra si spacca, non sta nella tenuta della maggioranza che regge la Giunta di Debora Serracchiani. Sta nell’oggettiva difficoltà del “dopo”. Debora non può andarsene a Roma così, d’un botto.Tenendo presente che in Regione vigono elezioni diretta e  sistema maggioritario, ossia una condizione di partenza che induce a stare insieme».

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MARAN SFERZA I BERSANIANI «VIVONO FUORI DALLA REALTÀ» Messaggero Veneto, 17 febbraio 2017

UDINE – Alessandro Maran può avere tante etichette appiccicate addosso, ma tre, in particolare, calzano a pennello al senatore gradese: coerenza di visione in politica economica, fede renziana della prima ora e franchezza nell’esprimere le proprie opinioni. Per questo quando all’attuale vicecapogruppo dem al Senato si chiede un’analisi sulla tragedia greca che si sta consumando all’interno del partito, Maran parla, come sempre, senza peli sulla lingua. «La discussione sulla data del congresso è ridicola – spiega –, perché qui il nucleo centrale del ragionamento deve essere il progetto futuro del Pd, non quando e come andiamo a votare per la segreteria». Prima stilettata, questa, alla minoranza, cui ne segue un’altra di portata e intensità molto più ampia. «Il sistema proporzionale che si sta delineando – continua Maran – è sicuramente un incentivo alla frammentazione, ma io fossi in qualcuno starei molto attento nel fare i conti. È vero che al momento è previsto un premio di maggioranza esplicito soltanto alla Camera, ma al Senato c’è n’è uno implicito e tutt’altro che facile da cogliere».

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I’Unità, 16 febbraio 2017 – Usa e «vuoto» di leadership

In campagna elettorale, si sa, Donald Trump è stato molto indulgente con Putin. All’opposto, non ha attaccato nessun altro paese così intensamente come la Cina. Trump ha accusato i cinesi di «stuprare» e di «uccidere» gli Stati Uniti sul piano commerciale manipolando artificialmente la loro valuta per favorire l’export. Una linea che ha ripreso, una volta eletto, accentuando la sua bellicosità verso Pechino, e che è culminata in una inusuale telefonata alla presidente di Taiwan.

Eppure, come ha scoperto con una certa sorpresa Fareed Zakaria, il conduttore di Global Public Square sulla CNN, le élite cinesi si mostrano ottimiste. «Trump è un negoziatore e la retorica fa parte delle mosse iniziali della partita», ha detto al giornalista uno studioso cinese che preferisce non essere menzionato. «Gli piace fare affari», ha aggiunto, «e noi anche siamo dei bravi negoziatori. E ci sono diversi accordi che possiamo fare sul commercio».

Del resto, che Stati Uniti e Cina siano destinati ad essere nel lungo periodo partner strategici è opinione diffusa. Non per caso, Donald Trump è tornato rapidamente sui suoi passi e, in una «lunga e molto cordiale» conversazione telefonica con il presidente cinese Xi Jinping, ha riconosciuto, in linea con la tradizionale politica americana, che esiste «una sola Cina» e che dunque Taiwan ne fa parte.

Il fatto è che la Cina ha molte frecce al proprio arco. È un enorme mercato per le merci americane (e non solo per quelle, ovviamente) e solo l’anno scorso (secondo il Rhodium Group) il paese ha investito 46 miliardi di dollari nell’economia americana. Ma l’imperturbabilità delle élite cinesi deriva soprattutto dal fatto che la Cina sta diventando meno dipendente dai mercati esteri per il proprio sviluppo. Dieci anni fa, l’export ammontava ad un impressionante 37% del Pil cinese. Oggi ammonta appena al 22 per cento e sta calando.

La Cina è cambiata. I brand occidentali sono piuttosto rari e le compagnie cinesi ora dominano quasi ogni aspetto dell’enorme e fiorente economia nazionale. Sono pochi i business ancora influenzati dalle imprese americane (ed europee). Le imprese focalizzate sulle produzioni ad alto contenuto di conoscenza stanno innovando e molti giovani cinesi ostentano che le versioni locali di Google, Amazon e Facebook sono migliori, più veloci e più sofisticate delle originali. Il paese, insomma, procede per conto proprio.

In parte è il risultato delle politiche del governo. Da tempo le aziende estere e i giganti hi-tech americani devono lottare a causa di regole formali (e informali) concepite «contro» di loro. E, verosimilmente, ora la Cina cercherà di sfruttare il vuoto di leadership creato dal «ritiro» degli Stati Uniti. Mente Trump prometteva protezionismo e minacciava letteralmente di isolare con un muro gli Stati Uniti dal suo vicino meridionale, il presidente cinese Xi Jinping è tornato (per la terza volta in quattro anni) in America latina, ha firmato più di 40 accordi e si è impegnato con miliardi di dollari di investimenti nella regione. Inoltre, cercherà di approfittare della decisione di Trump di affossare la Trans-Pacific Partnership (TPP). L’accordo commerciale, negoziato tra gli Stati Uniti e altri 11 paesi, riduceva infatti le barriere al commercio e agli investimenti e spingeva le economie asiatiche più grandi (come il Giappone ed il Vietnam) in direzione di una maggiore apertura basata sul rispetto delle regole. Ora sarà la Cina ad offrire la propria versione dell’intesa, che, ovviamente, esclude gli Stati Uniti e favorisce l’approccio cinese, più mercantilista.

L’Australia, un convinto sostenitore del TPP, ha subito annunciato il proprio sostegno all’alternativa cinese. E presto altri paesi asiatici seguiranno. Al summit del Consiglio per la cooperazione economica asiatico-pacifica (APEC) del novembre scorso, l’allora il primo ministro della Nuova Zelanda, John Key, l’ha messa in modo molto semplice: «Il TPP era una dimostrazione di leadership americana nella regione asiatica (…) noi vogliamo davvero che gli Stati Uniti restino nella regione (…) Ma alla fine, se gli Stati Uniti non ci sono, quel vuoto deve essere riempito. E verrà riempito dalla Cina».

Non per caso, l’intervento di Xi Jinping (che ha elogiato il commercio, l’integrazione e l’apertura e ha promesso di adoperarsi affinché i paesi non si chiudano agli scambi e alla cooperazione globale) sembrava quello di un presidente americano. Il presidente cinese è intervenuto anche (per la prima volta) al 47° Forum economico di Davos, ergendosi a paladino del libero scambio. E nel frattempo, i leader occidentali stanno rinunciando al loro ruolo tradizionale. Assente Trump, anche Angela Merkel, Francois Hollande e Justin Trudeau hanno annullato la loro partecipazione al summit svizzero.

Pechino sembra aver concluso, infischiandosi dei tweet di Trump, che la sua presidenza potrebbe dimostrarsi per la Cina un regalo insperato. L’Europarlamento, che ieri ha approvato l’accordo con il Canada (CETA), sembra averlo capito.

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Usa e «vuoto» di leadership – I’Unità, 16 febbraio 2017

In campagna elettorale, si sa, Donald Trump è stato molto indulgente con Putin. All’opposto, non ha attaccato nessun altro paese così intensamente come la Cina. Trump ha accusato i cinesi di «stuprare» e di «uccidere» gli Stati Uniti sul piano commerciale manipolando artificialmente la loro valuta per favorire l’export. Una linea che ha ripreso, una volta eletto, accentuando la sua bellicosità verso Pechino, e che è culminata in una inusuale telefonata alla presidente di Taiwan.

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TONINI: LA SOCIETÀ APERTA E I SUOI NEMICI

Sono on line le slides della relazione svolta da Giorgio Tonini all’incontro di LibertàEguale che si è tenuto a Roma venerdì scorso. Nel suo intervento introduttivo, il presidente della Commissione Bilancio del Senato si è soffermato sulle ragioni della sconfitta referendaria (compreso «l’elefante di Milanovic»), su quel che ci attende nel futuro prossimo e sul che fare.

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In difesa dell’Europa

Nei giorni scorsi Mario Draghi è intervenuto in difesa di quei valori portanti e condivisi che hanno assicurato all’Europa sessanta anni di pace e crescita. Primo fra tutti, il libero mercato. Il presidente della Bce ha parlato a Lubiana, in Slovenia (Mario Draghi:  Security through unity: making integration work for Europe ), e poi in audizione alla Commissione Affari Economici del Parlamento europeo (Mario Draghi:  Hearing of the Committee on Economic and Monetary Affairs of the European Parliament). In entrambe le occasioni, Mario Draghi, ha indossato i panni del patriota europeo e ha sottolineato il bisogno di un’Ue unita e capace di reagire in modo compatto alle minacce che possono scaturire dai nuovi equilibri mondiali. Da leggere anche l’intervento di Enrico Morando alla riunione di Libertàeguale del 28 gennaio scorso a Milano.

 

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MODELLO POPULISTA, PUTIN RIMANE UN NEMICO DELLA LIBERTÀ OCCIDENTALE – Stradeonline, 8 febbraio 2017

Domenica scorsa, Donald Trump ha difeso Vladimir Putin dall’accusa di essere un ‘assassino’ dicendo a Bill O’Reilly, nel corso dell’intervista su Fox News, ‘anche da noi ci sono molti assassini. Pensa che la nostra nazione sia così innocente?’.

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Stradeonline, 8 febbraio 2017 – MODELLO POPULISTA, PUTIN RIMANE UN NEMICO DELLA LIBERTÀ OCCIDENTALE

Domenica scorsa, Donald Trump ha difeso Vladimir Putin dall’accusa di essere un ‘assassino’ dicendo a Bill O’Reilly, nel corso dell’intervista su Fox News, ‘anche da noi ci sono molti assassini. Pensa che la nostra nazione sia così innocente?’.

La frase shock, che suggerisce un’equivalenza morale tra Stati Uniti e Russia (un altro tabù violato da Trump), ha provocato sdegno anche tra i Repubblicani. “No, qui da noi non avveleniamo gli oppositori. Non siamo uguali a Putin”, è sbottato il senatore Marco Rubio, già rivale di Trump per la nomination repubblicana.

Niente di nuovo, a ben guardare: la considerazione per Putin ed il desiderio di collaborare esibiti da Trump sono stati uno dei temi più gettonati della campagna elettorale. Indubbiamente, nel suo costante plauso a Vladimir Putin e nell’accanimento con il quale ribadisce che gli Stati Uniti si avvantaggerebbero da relazioni più cordiali con la Russia, Donald Trump è sostanzialmente un caso isolato nel mainstream della politica americana, ma la tendenza a vedere Putin più come un alleato che come una minaccia lo pone in linea con i movimenti populisti che stanno guadagnando terreno sia in America che in Europa. E ciò significa che i dissidi sulla Russia interni al Partito Repubblicano, fra Trump e gli analisti di politica estera più tradizionali (come, ad esempio, i senatori John McCain e Lindsey Graham), sono destinati a provocare un dibattito più ampio sulle priorità che devono guidare la politica estera americana.

Putin è percepito come una minaccia dalla maggior parte degli analisti di politica estera, indipendentemente dal loro colore politico, sia negli Stati Uniti che in Europa, in larga misura perché sta cercando di espandere l’influenza russa in tutta l’Europa orientale e nel Medio Oriente con modalità che potrebbero destabilizzare le alleanze e le regole globali che hanno definito l’ordine internazionale fin dalla Seconda guerra mondiale.

Questa preoccupazione ha raggiunto un picco dopo un susseguirsi di azioni provocatorie da parte di Putin: dall’aggressione in Ucraina nel 2014 alla violenta campagna militare contro gli oppositori del regime di Damasco in Siria, fino alle conclusioni della Comunità di intelligence americana che ha confermato che la Russia avrebbe hackerato gli account di posta elettronica del Partito democratico per influenzare le elezioni presidenziali americane del 2016.

Ma i nazionalisti e i populisti conservatori, sia negli Stati Uniti che in Europa, vedono in Putin un potenziale alleato perché le loro priorità internazionali sono molto diverse: resistere alla radicalizzazione islamica, smantellare l’integrazione economica globale e combattere la secolarizzazione delle società occidentali. E anche i consiglieri di alto livello di Trump come Stephen Bannon, il Chief strategist della Casa Bianca, ed il consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, hanno espresso punti di vista molto simili.

In questo senso, le visioni contrastanti su Putin non riflettono solo le differenze sul come rapportarsi specificatamente alla Russia, ma il contrasto su quali siano gli obiettivi che devono guidare la politica estera americana nel XXI secolo e quali alleati siano necessari per raggiungere quegli obiettivi. Su entrambi i lati dell’Atlantico, la spinta a “resettare” i rapporti con Putin riflette il desiderio di mettere l’accento su un diverso set di priorità e ridimensionare, e perfino abbandonare, le alleanze che hanno legato più strettamente le nazioni europee tra loro e agli Stati Uniti per decenni.

Resta da vedere quanta strada farà questo cambiamento di prospettiva all’interno del Partito Repubblicano. Nel GOP, infatti, la maggior parte degli eletti e degli analisti di politica estera ritiene ancora che la stabilità globale dipenda da un network di regole e di alleanze guidato dall’America, e vede ancora Putin come una minaccia crescente verso quest’ordine. Tuttavia, sebbene il sostengo a Putin dei conservatori e dei populisti, così comune in Europa, resti ancora confinato ai margini del Partito Repubblicano, con Trump sembra aver acquisito una testa di ponte.

I principali movimenti nazionalisti e populisti in Europa, compreso il Fronte nazionale francese, l’Independence Party inglese, Alternative für Deutschland, il Partito per la Libertà olandese, il Partito della Libertà austriaco, lo Jobbik ungherese, lo stesso M5S e la Lega, non hanno esattamente le medesime vedute su Putin. Geert Wilders, il leader del Partito per la Libertà olandese, per esempio, è molto più “freddo” verso Putin di quanto lo sia Marine Le Pen del Fronte nazionale francese, che ha ottenuto un prestito da una banca russa per finanziare la campagna elettorale del partito nel 2014, o il Partito della Libertà austriaco, che ha firmato un “accordo di cooperazione” con il partito Russia Unita di Putin.

Ma i partiti populisti europei condividono una serie di priorità comuni che riguardano le limitazioni all’immigrazione, lo smembramento dell’integrazione politica ed economica globale (rinunciando all’Unione europea e, per alcuni di questi partiti, anche alla NATO), intervenire in modo più deciso per combattere il radicalismo islamico e, nella maggior parte dei casi, opporsi, in casa propria, al liberalismo culturale e alla secolarizzazione. E ai loro occhi, Putin appare non come una minaccia, ma come un alleato.

Ovviamente, nessuno di questi partiti “segue” Putin allo stesso modo in cui i partiti comunisti si uniformavano all’Unione sovietica. Ma ne apprezzano davvero la “forza”, quella che percepiscono come la difesa di solidi valori tradizionali, il nazionalismo e l’opposizione all’Islam. E non c’è dubbio che Putin si sia posizionato come un baluardo dei valori conservatori. Prima in Cecenia e più di recente in Siria, può vantare di aver dato battaglia agli estremisti islamici, in modo più aggressivo di ogni altra nazione occidentale, almeno da quando l’America ha rovesciato i talebani in Afghanistan (anche se in realtà la campagna russa in Siria si è dedicata più ad annientare gli oppositori di Assad che a combattere lo Stato Islamico).

I populisti conservatori come Marine Le Pen guardano, inoltre, all’avversione di Putin nei confronti delle istituzioni globali come ad un modello da imitare per ritornare alla “sovranità nazionale” in opposizione alla cooperazione multilaterale e all’integrazione. In particolare dopo il suo ritorno alla presidenza russa nel 2012, Putin si è venduto come il difensore dei tradizionali valori sociali, specialmente in opposizione ai diritti degli omosessuali e come alternativa, in linea con i precetti religiosi, ai paesi occidentali che, come si affanna a ripetere, “stanno negando i principi morali e tutte le identità tradizionali: nazionale, culturale, religiosa e perfino sessuale”. Sebbene l’idea che sia Putin ad impartire lezioni al mondo sui “principi morali” risulti ai più piuttosto irritante, è un atteggiamento che suscita l’ammirazione non solo dei populisti di destra in Europa, ma anche di quegli attivisti americani che la pensano allo stesso modo, come Patrick J. Buchanan, la cui candidatura per la nomination repubblicana ha anticipato molti dei temi isolazionisti di Trump.

Non per caso, i partiti populisti europei hanno quasi universalmente minimizzato le mosse destabilizzanti di Putin, compresa l’incursione in Ucraina e l’annessione della Crimea, declassandole al livello di preoccupazioni secondarie. Nigel Farage, il fondatore dell’Independence Party inglese (e il leader populista europeo più vicino a Trump), ha sostenuto, infatti, che sebbene l’incursione di Putin in Ucraina non fosse giustificata, sia stata una reazione comprensibile. È stato l’Occidente a spingersi troppo in là.

L’opinione di Farage è molto comune tra i populisti conservatori. Stando a loro, non c’è ragione di preoccuparsi. Non credono che la Russia voglia ripristinare l’Unione sovietica. Ritengono che la Russia stia difendendo unicamente sé stessa dal globalismo e vorrebbero che l’Unione europea e la NATO si tenessero fuori dall’Europa centrale e orientale. Ma non credono che la Russia voglia davvero riprendersi quella parte d’Europa e che abbia l’intenzione di minacciare l’Europa occidentale.

I consiglieri più vicini a Trump hanno espresso opinioni simili negli anni recenti. E, come i populisti europei, Steve Bannon ritiene che la minaccia potenziale posta da Putin sia di molto inferiore rispetto alle preoccupazioni più urgenti, che impongono di allearsi con i russi contro il terrorismo islamico. Anche Flynn ha ricordato che la nuova minaccia globale del terrore richiede un mutamento nelle priorità che veda Stati Uniti e Russia non più come avversari, ma come compagni in una lotta che è destinata a durare a lungo.

Quanto queste opinioni siano condivise da Trump non è dato sapere. Ma non dovremmo sottovalutare che l’obiettivo fondamentale delle mosse di Putin è quello di indebolire il tessuto della società occidentale e la stessa legittimità della democrazia liberale. Siamo in un periodo che ha molto più a che fare con gli anni Venti e Trenta di quanto abbia a che fare con il primo decennio degli anni Duemila. Siamo ad un punto di svolta. Ed il successo dei movimenti populisti solleva questioni fondamentali sulla possibilità stessa di sopravvivenza dell’ordine internazionale in cui viviamo.

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Cosa penso, da democratico, delle prime mosse di Donald Trump – formiche.net, 5 febbraio 2017

L’intervento del senatore Pd, Alessandro Maran

Bisogna riconoscere che, tra un tweet e l’altro, nella sua prima settimana in carica, il presidente Donald Trump ha tratteggiato un quadro di politica estera coerente e, immagino, accuratamente progettato. Gli executive order di Trump delineano, infatti, in linea con lo slogan “l’America prima di tutto”, il cambiamento più importante nella politica estera americana dall’attacco giapponese a Pearl Harbor nel dicembre del 1941.

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