Milano 28 gennaio 2017 – Libertàeguale. Appunti dell’intervento di Enrico Morando

1.Vorrei partire dalla sentenza della Corte Costituzionale sulla Legge elettorale. Ho sentito molti che la iscrivono nel contesto di tipo “reazionario” – ritorno a prima della grande stagione dei referendum elettorali del ’91-’93 – instaurato dal risultato del 4 dicembre.

Secondo questa interpretazione, il progetto del PD del Lingotto – alla cui elaborazione e affermazione abbiamo tanto lavorato, noi di LibertàEguale – sarebbe definitivamente sconfitto: prima la bocciatura della riforma costituzionale (i cittadini con il voto scelgono rappresentanza e Governo, che ha la fiducia nella unica Camera politica) e ora – con la decisione della Corte – il ritorno al proporzionale. Risultato: il partito di centro-sinistra a vocazione maggioritaria è un pesce che non ha più l’acqua dove nuotare. Non ci resterebbe che prenderne atto e prepararci a gestire al meglio una lunga fase di accordo per il governo con Forza Italia di Berlusconi. Sperando che basti.

Sbaglierò, ma non sono d’accordo. Non lo sono per ragioni più generali, non venute meno a causa del risultato referendario. E non lo sono per ragioni più specifiche, relative alla sentenza della Corte. Dovevano, i Giudici, prendere una decisione su tre questioni (ballottaggio tra i primi due; premio di maggioranza e capilista “bloccati”). Sulla prima, hanno deciso per l’incostituzionalità (e, dopo il referendum, era inevitabile che accadesse: leggeremo le motivazioni, ma a Senato mantenuto come Camera politica…). Ma sulla seconda, hanno confermato il premio: nella legge elettorale “autoapplicativa” resta ben fermo il principio maggioritario. Chi vince superando il 40%, ha un premio che lo porta al 54% dei seggi.

E poiché per il Senato – dove è in vigore la legge “approvata” dalla Corte con la sentenza sul Porcellum – la disproporzionalità scaturisce dal basso, cioè dalle elevatissime soglie di accesso (8% regionale per chi va da solo e 20% regionale per le coalizioni), a me sembra si possa concludere che l’acqua-sistema elettorale in cui siamo chiamati a nuotare non è tornata a farsi proporzionale pura: dunque, abbiamo preso un colpo durissimo, maturato anche grazie agli errori di cui ci ha parlato poco fa il Prof. Segatti (quelli sì, errori politici grandi, altro che personalizzazione…), ma affrontando i problemi che questa sconfitta fa emergere possiamo dar vita ad un nuovo decollo del nostro progetto.

Del resto, io resto perfettamente convinto di ciò che –a proposito di partito a vocazione maggioritaria – abbiamo detto e scritto tante volte: essa è data dalla cultura politica, dalla funzione, dal programma, dalla capacità di rappresentanza, dalla qualità della leadership del partito stesso. Il contesto politico-costituzionale in cui il partito opera può favorire la piena affermazione di questa vocazione o ostacolarla: ma non può sopprimerla quando essa c’è o garantirne la sopravvivenza se essa viene meno (quello che sta accadendo al PS francese  e al Labour inglese).

Dunque, la via della (piccola) coalizione con Berlusconi – dei “responsabili”, degli “europeisti” o comunque la si voglia chiamare – non è una via obbligata, non è l’unica soluzione per contrastare la montante marea grillina. Può essere una necessità. Ma questo è un altro discorso.

Anche qui, ricorro agli studi di Segatti: il PD è una realtà, è un soggetto “che c’è”. Non perché quel 40% di SI’ identifichi la nostra cifra elettorale. Ma perché è un partito dotato di un autonomo profilo, che lo fa “riconoscere”, ed ha una leadership forte (purchè ci si metta d’accordo su ciò che vuol dire: De Gaulle che, al culmine del suo successo, “aggiunge” il 4,5% dà l’idea…).

È però un partito che ha conosciuto una sconfitta molto pesante e deve reagirvi. Non basta una buona manutenzione del progetto. Come ha scritto Petruccioli, ci vuole un nuovo decollo, non un semplice rilancio.

La mia opinione è che sarebbe stata necessaria, a questo scopo, la immediata convocazione del Congresso. Subito, il giorno dopo il voto del 4 dicembre.

Questa è l’esigenza che resta in campo, cui, se si vuole, si possono dare risposte solo parzialmente diverse: le Primarie tra gli elettori, come quelle che Bersani, da Segretario del PD, accettò di tenere contro Renzi.

Che contributo può dare, LibertàEguale, a questo nuovo decollo? Quello, se ne è ancora capace, che ha dato nella lunghissima gestazione del partito a vocazione maggioritaria, dalla seconda metà degli anni ’90 fino al 2007: una visione sul futuro, un progetto che contenga le architravi del programma di governo dei riformisti e le innovazioni di cultura politica che consentano al partito di essere e di essere avvertito come “il partito che in Italia non c’è mai stato”.

2.Non c’è dunque nulla di scritto: dipenderà da noi riformisti – dalla strada che sceglieremo per uscire dalla drammatica difficoltà in cui siamo precipitati col risultato del referendum – se il nostro progetto avrà un futuro o no.

Su quali basi dobbiamo lavorare? Provo ad abbozzare qualche prima risposta, solo per dare un contributo all’avvio di un lavoro che proseguirà col Seminario della Presidenza di LibertàEguale del 10 febbraio e con l’Assemblea di Orvieto che vogliamo tenere in primavera.

2a- Prima di tutto, Europa. Se quello che sta accadendo nel mondo – e mette le ali a Trump, a Brexit, al No in Italia – è la manifestazione sul piano politico-elettorale di un profondo e crescente disagio sociale verso la globalizzazione, che esaspera le fratture sociali e culturali e spinge alla chiusura sovranista e al rancore verso un establishment economico, culturale e politico che la esalta e la cavalca acriticamente, allora i riformisti debbono sapere che la loro sfida può essere vincente solo se prendono posizione netta su questo fronte decisivo: più Europa, come precondizione per il governo “democratico” della globalizzazione, che ha conseguenze drammatiche sul piano economico, sociale e culturale che non possono essere ignorate, ma debbono essere affrontate a viso aperto proprio da chi pensa – come noi riformisti – che il segno dominante della società di domani debba essere l’apertura, e non la chiusura. Il riformismo in una sola nazione – per grande e influente che essa sia – ha da tempo piegato le ginocchia sotto l’urto della globalizzazione: può tornare a far pesare il suo sistema di valori e di interessi sole se combatte a viso aperto contro l’illusione sovranista (di destra o di sinistra che sia) e costruisce il contesto sovranazionale nel quale operare per un nuovo secolo “democratico”.

Ha scritto, più di dieci anni or sono, Prem Shankar Jha: “la socialdemocrazia è stato il risultato più alto raggiunto dal capitalismo organizzato… Non c’è da stupirsi dunque che sia diventata la prima vittima del capitalismo globale”. (pag. 226- Il caos prossimo venturo).

Se lo stato nazionale è stata la culla dei trent’anni gloriosi del secolo socialdemocratico, oggi l’Europa è il contesto dentro cui far crescere un’esperienza di governo che abbia la stessa capacità di sostenere la crescita economica e di promuovere l’inclusione sociale. In poche parole: tocca ai Democratici fornire una “organizzazione” al capitalismo globale così come i socialdemocratici la fornirono, in Europa, al capitalismo nazionale.

Una parte importante della sinistra – non solo in Italia –purtroppo – sembra ritenere che le vecchie ricette – abbandonate per “tradimento” dei suoi dirigenti o per subalternità al pensiero unico del liberismo neoconservatore – possano essere adattate al nuovo contesto, attraverso un mero spostamento dell’asse delle sue politiche verso gli esclusi e gli ultimi. Una strada senza sbocco, perchè ci mantiene nell’ambito dello stato nazionale. Lo spazio angusto dello Stato nazionale dà fiato al rancore del populismo sovranista, riduce a comprimari i massimalisti di sinistra del “tutto o niente” (da sempre parenti stretti del populismo si vedano le impressionanti assonanze tra Le Pen e Melanchon), mentre mette in luce l’impotenza dei riformisti.

Non così per un riformismo che si pensi e sia continentale. Europa aperta al commercio mondiale mentre Trump minaccia chiusure protezioniste; Europa che riprende il progetto di Comunità di difesa (1952-’54!) mentre Trump minaccia disimpegno; Europa capace di presidiare i suoi  confini  e di governare il fenomeno della migrazione, aperta a chiunque chieda rifugio, mentre Trump costruisce muri e vieta gli ingressi agli appartenenti a intere nazioni o religioni.

Dunque, la sottolineatura dei limiti e dei ritardi della costruzione europea deve cessare di essere – come è stata, almeno in parte, anche per il PD di Renzi – la fonte cui attingere per giustificare i limiti della nostra azione riformatrice, o i nostri insuccessi: Europa prima di tutto. È in nome di questa priorità che dobbiamo batterci per la politica estera e di difesa comune. Adesso, subito. Per il completamento immediato della Unione Bancaria, con la garanzia europea sui depositi. Per attuare la proposta di Padoan  per uno strumento europeo di contrasto alla disoccupazione congiunturale… Non c’è nessuna forza politica che faccia propria questa posizione? Non è più del tutto vero: guardate a quello che accade attorno a Macron in Francia e alla posizione della Merkel sulla esigenza di procedere nel progetto europeo “con chi ci sta”…

Anche le scelte che dobbiamo compiere in Italia per rispettare appieno le regole europee debbono essere collocate in questo nuovo contesto: noi vogliamo rispettare le regole – anche quelle che il mutare delle condizioni ha reso almeno in parte obsolete -, proprio perché vogliamo essere protagonisti della costruzione della nuova Europa, quella che “ha il fisico” per dare un’organizzazione al capitalismo globale.

2b- In secondo luogo, un programma di governo che non giustapponga, in un elenco di “cose da fare”, le risposte alle esigenze dei portatori del “merito” a quelle rivolte ai  portatori del “bisogno”.

Le politiche dei riformisti, in tutti i campi, devono essere ispirate ad un principio guida: devono rappresentare il filo di sutura tra merito e bisogno. E ogni scelta di governo, nel campo economico, sociale e culturale, deve essere sottoposta ad un vero e proprio test: essa è tale da “cucire” meriti e bisogni, così rafforzando la coesione sociale, o è tale da rispondere “separatamente” agli uni o agli altri?

Non sembri una discussione di lana caprina. Poiché la variabile tempo è tutt’altro che ininfluente, è naturale che il Governo che intenda agire sia sul fronte della promozione del merito, sia sul fronte della lotta all’esclusione sociale, possa ritenere che sia il tempo, di volta in volta, il fattore che riconduce ad unità le sue scelte: prima svilupperà un’iniziativa a fini di promozione del merito, e poi metterà mano al cambiamento necessario per rispondere alla domanda di protezione degli esclusi. O viceversa. Oppure, potrà agire contemporaneamente, ma attraverso azioni parallele.

Il problema è la separazione dei due terreni, l’incapacità di concepire una strategia riformatrice che costituisca – essa stessa, in sé – il filo che lega l’uno all’altro, indissolubilmente.

Qualche esempio servirà a chiarire. Prendiamo le detrazioni IRPEF per gli investimenti delle famiglie in ristrutturazioni e risparmio energetico delle abitazioni. Da quando le mettemmo in vigore, nel lontano 1999, hanno ottenuto risultati impressionanti: prendendo solo gli anni tra il 2009 e il 2014, le famiglie italiane hanno realizzato dieci milioni di interventi per ristrutturazioni edilizie, per un ammontare di investimenti pari a 68 mld; e 3 milioni di interventi per il risparmio energetico, per un ammontare di investimenti pari a 20 mld. Poiché le detrazioni superano, mediamente, il 40% dell’investimento, si può ben dire che lo Stato, coi soldi di tutti i contribuenti, ha fornito negli stessi anni a milioni di famiglie italiane un contributo pari a circa 23-24 mld di Euro, aiutandole a realizzare investimenti che hanno accresciuto il loro patrimonio; sostenuto l’economia; migliorato la qualità urbana e ridotto il contributo italiano al riscaldamento globale; accresciuto la loro capacità di acquisto di beni diversi dagli energetici.

Dunque, grande successo. Misure da confermare e rafforzare (come si è fatto, con la Legge di Bilancio 2017-19).

Ma…., c’è un problema, che ha a che fare col rapporto tra merito e bisogno. Quali sono le abitazioni che vengono migliorate grazie alle forti detrazioni IRPEF? La risposta è molto facile: tutte quelle che non sono grandi condomini anni ’50-’60-’70. In questi ultimi, infatti, gli interventi realizzati sono pochi; e, quei pochi, sono limitati al cambio di caldaie e infissi.

Perché così pochi e per investimenti così modesti? Perché nei grandi condomini è più difficile decidere (si veda la letteratura sulle assemblee di condominio); e perché tra le famiglie proprietarie di appartamento nei grandi condomini sono numerose quelle con IRPEF incapiente.

Risultato: sia gli effetti economici, sia gli effetti sociali, sia gli effetti ambientali, sia gli effetti di innovazione tecnologica (solo i grandi interventi sono realizzabili con tecnologie più avanzate), dell’impegno dello Stato sono stati molto al di sotto di quelli che avrebbero potuto essere se… la misura fosse stata fin dall’inizio sottoposta a quello che ho chiamato “il test del merito e del bisogno”.

Ci si può mettere rimedio? Sì, e abbiamo elaborato una soluzione che consentirà, spero, di realizzare nei prossimi dieci anni un gigantesco intervento di risparmio energetico e riqualificazione urbana degli edifici che più hanno perso di valore in questi anni di crisi e sono tra i principali responsabili del degrado e dell’inquinamento delle nostre città.

Per chi voglia capire meglio, c’è un nota che descrive bene quanto ho richiamato sommariamente.

Qui, basterà aggiungere che – qualche mese fa, nella sessione di bilancio in Parlamento – c’erano numerose proposte che riguardavano questo tema: tutte, salvo una – presentata da un deputato PD su proposta elaborata da ENEA e dal MEF – riguardavano la estensione delle detrazioni agli investimenti in verde (giardini), pertinenze, tendaggi..

Morale della favola: le detrazioni IRPEF per questi investimenti delle famiglie vanno benissimo, ma se quando le decidi non ti poni subito il problema di come favorire ancora più intensamente gli investimenti per migliorare le case di chi guadagna meno, ha meno proprietà immobiliari e spende un sacco di soldi per il riscaldamento, perché il suo appartamento è un colabrodo, metterai in atto una scelta buona, che col trascorrere del tempo accrescerà le fratture sociali: chi possiede l’appartamento in un grande condominio dove vive con la sua famiglia sa che la sua proprietà ha perso in questi anni più del 50% del suo valore; sa che potrebbe risparmiare il 50% di quello che spende per riscaldarla, se solo fosse in grado di realizzare quegli interventi che… il proprietario della villetta unifamiliare con giardino ha realizzato in questi anni, nella sua stessa città, grazie ad un intervento dello Stato che gli restituisce quasi il 50% di quello che ha speso.

Di qui, frustrazione, rabbia, rancore…

Della globalizzazione e dei suoi opposti effetti sui portatori del merito e del bisogno ho già detto.

Termino, su questo punto, con un rapido cenno alla scuola. La Buona Scuola ha determinato un aumento della spesa dedicata, rispetto all’anno precedente, di più di 3 mld.

Bene. Applicandole il test del merito e del bisogno, resta senza risposta la seguente domanda: se Autonomia dei singoli istituti scolastici, creazione della “dotazione” dell’autonomia (personale da impegnare in progetti specifici) e valutazione di tutto e di tutti sono le architravi su cui la Buona Scuola si costruisce, come è possibile che non si sia neppure tentato di selezionare qualche centinaio di istituti scolastici inseriti in contesti di maggiore disagio sociale e deficit di istruzione delle famiglie, per impegnare in queste realtà – tramite forti aumenti di stipendio e altri riconoscimenti di carriera – il personale dirigente e insegnante migliore? La scuola è più di ogni altro luogo di incontro tra merito e bisogno, ma il primo non potrà essere promosso, né il secondo essere alleviato, se si continuerà a non riconoscere che fare parti uguali tra disuguali è il modo migliore per sprecare energie positive e ribadire gli esclusi nella loro situazione.

Non proseguo con gli esempi, anche perché in questa sede mi interessa individuare un criterio guida per la riscrittura del programma dei riformisti e la riflessione critica sulla nostra esperienza di governo.

2c- Vengo al tema delle riforme del sistema politico-costituzionale. Lo so, c’è una fatica addirittura di tipo psicologico a rimetterci su questa strada. Troppi, tra noi, esortano a lasciare perdere. Almeno per un po’. Purtroppo, temo che non ce lo possiamo permettere. Perché non era l’invenzione di un cattivo propagandista quella di descrivere la riforma del sistema politico-costituzionale come la madre di tutte le riforme. Era un giudizio ben meditato: a- il Paese ha bisogno di riforme; b- poiché esse sono difficili, il Governo che deve realizzarle deve essere forte; c- il Governo descritto in Costituzione è debole.

Quella subita dai riformisti, il 4 dicembre scorso, è una sconfitta durissima, destinata ad influenzare in modo duraturo il corso del conflitto con i conservatori e i populisti.

È una sconfitta molto dura, innanzitutto, per le sue dimensioni: quaranta contro sessanta, in un contesto di elevatissima partecipazione. E, in secondo luogo, per il carattere e la natura della riforma sulla quale si è subita: il cambiamento dell’assetto politico-costituzionale del Paese. Una delle due riforme – l’altra essendo quella della costruzione, riuscita, del partito di centrosinistra a vocazione maggioritaria – che costituiscono la condizione necessaria per il successo dei riformisti in tutte le altre.

Qualsiasi sottovalutazione della portata del rovescio subito sarebbe dunque colpevole e, essa sì, disarmante: solo la piena consapevolezza della sua profondità può indurci a vedere le possibilità e la necessità di un nuovo decollo della strategia riformista: quel 60% di No è un muro molto consistente, ma non è tenuto assieme da un progetto politico condiviso, che lo renderebbe per lungo tempo invincibile.

La riforma del sistema politico-costituzionale resta dunque un obiettivo irrinunciabile. Ed è raggiungibile, alla condizione che si sappia prendere atto che la strada percorsa per conseguirlo – un unitario ridisegno del sistema (seconda parte della Costituzione più legge elettorale), da approvare anche a stretta maggioranza e da sottoporre al voto popolare – offre a conservatori e populisti uno strumento troppo facile per sbarrarla: la trasformazione del voto referendario in voto sul governo che si rende protagonista (per necessità, ben oltre gli errori  di personalizzazione, che pure ci sono stati) della iniziativa riformatrice.

Dunque, resta l’esigenza di avere ben chiara in testa – e squadernata di fronte al Paese – una riforma organica dell’assetto politico-costituzionale. Deve invece mutare il metodo attraverso cui operare per realizzarla: un unico mutamento “chiave”, su cui costruire un consenso che vada molto al di là della maggioranza di governo (fino ai due terzi del Parlamento), e sia comunque in grado di reggere il  confronto referendario per il suo intrinseco carattere di riforma “popolare”.

Qual è questa riforma “chiave”, capace di aprire la porta a quella dell’intero sistema politico-costituzionale? Bisogna prendere atto che quello sconfitto il 4 dicembre è stato l’ultimo tentativo di procedere sulla strada della forma di governo parlamentare, secondo il modello definito col programma dell’Ulivo del 1996: il premierato forte, con unica camera politica che dà (e toglie) la fiducia al Governo, combinato con un sistema elettorale che consenta ai cittadini, con un unico voto, di scegliere sia un rappresentante, sia il Governo. Questo ultimo, messo in grado di realizzare il suo programma, ma costretto a fare i conti con un più forte sistema delle autonomie regionali, reso protagonista del procedimento legislativo nazionale attraverso la camera delle regioni.

Per conseguire lo stesso obiettivo – il rafforzamento dell’esecutivo in un robusto sistema di contrappesi, a partire dall’assetto federale – non resta dunque che percorre la strada alternativa: semipresidenzialismo alla francese. Essa ha il pregio di poter essere proposta senza dover intervenire su altri articoli della Costituzione, poiché il Presidente delle Repubblica italiano ha già oggi funzioni e poteri sostanzialmente assimilabili a quelli del Presidente francese (scioglimento e nomina del Presidente del Consiglio): basterà modificare gli articoli 83 e 85 della Costituzione, per affermare che è eletto a suffragio universale diretto, con ballottaggio tra i primi due. E che dura in carica cinque anni. Come dimostra la vicenda francese, il combinato disposto di potere di scioglimento e la coincidenza temporale del mandato tendono a ridurre drasticamente il rischio di “coabitazione”, anche se in Italia il mantenimento dell’assurdo della doppia camera appare destinato a creare qualche difficoltà in più.