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GIORNALI2014

Il Foglio, 25 luglio 2014 – Vista dal Palazzo. Intolleranza per l’innovazione e passione per la conservazione. Diario di un senatore smarrito

Al direttore – Il vagheggiamento acritico del passato, il disprezzo del tempo presente e l’avversione e l’intolleranza per ogni innovazione, per ogni influsso «straniero», è forse quel che più colpisce nella discussione in corso sulla riforma del Senato. Le critiche di principio all’impianto della riforma nascono, infatti, da un modo nostalgico di atteggiarsi di fronte al tema: si prende atto, cioè, che non è più possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma si ritiene che quella specifica forma della partecipazione politica e quel particolare sistema politico-istituzionale siano i migliori; si cerca dunque di avvicinarsi il più possibile a quel modello e di salvare più elementi possibile di quella esperienza.

Messe così le cose, una seconda camera eletta dai consigli regionali e non dai cittadini sarebbe, in sostanza, una istituzione non democratica. Eppure, in Europa quella dell’elettività diretta della seconda Camera non è affatto una regola, ma tutto all’opposto. Ciò non avviene in Germania, né in Austria, né Francia e tantomeno nel Regno Unito. Solo 13 dei 28 paesi dell’Unione europea hanno una seconda camera e, tra questi, solo in cinque paesi i suoi membri sono eletti direttamente. Solo in tre di questi cinque paesi la seconda camera ha dei poteri legislativi rilevanti. E solo in Italia il Senato ha gli stessi poteri della Camera: un «relitto» di quando ciascuno degli schieramenti temeva il 18 aprile dell’altro. La combinazione di premio di maggioranza e senato non elettivo sarebbero poi una «macchinazione autoritaria». Dunque, il Regno Unito e la Francia non sono sistemi democratici? Il Senato francese non è eletto dai cittadini e la Camera dei Lords non è certo una istituzione eletta dal popolo. Eppure, come ha ricordato il prof. Roberto D’Alimonte, nel 2005 Tony Blair ha vinto il suo terzo mandato con il 35% dei voti e con questa percentuale il Labour ha ottenuto il 55% dei seggi. E con il 29% dei voti ottenuti al primo turno, il partito socialista di Francois Hollande ha conquistato il 53 % di seggi nella Assemblea nazionale.

Inoltre, chissà perché, «innalzare» le regioni e i governi locali al piano delle istituzioni parlamentari sembra ad alcuni inadeguato e perfino sacrilego. Dimenticando che sindaci e presidenti di regione sono autorità democratiche, elette direttamente, che non hanno nulla da invidiare in termini di pedigree democratico a senatori e deputati, magari eletti all’estero. Dimenticando che dall’azione delle regioni e dei comuni dipende larga parte dell’erogazione dei servizi sociali, dell’attuazione delle leggi e delle politiche statali, e della spesa pubblica. Dimenticando che porre all’interno delle istituzioni costituzionali il luogo del coordinamento tra la legislazione dello Stato e la sua attuazione nei territori è una necessità imprescindibile per il buon funzionamento del sistema costituzionale, visto che nostra Repubblica è già cambiata e oggi risulta incompiuta, a metà. Infatti, comunque la si consideri, la riforma del Titolo V, voluta dal centrosinistra e confermata dal voto popolare nel referendum del 2001, ha apportato alla Parte della Costituzione che regola i rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali, modifiche profondissime. E la mancanza del luogo parlamentare di mediazione è forse il principale punto critico della riforma. In carenza di una stanza di compensazione istituzionale degli interessi, l’incertezza ha, infatti, generato numerosissimi conflitti e la Corte costituzionale si è trovata costretta a dirimere questioni che hanno un alto tasso di opinabilità interpretativa e dunque un alto tasso di politicità.

Ciò nonostante, c’è chi continua sostenere che una riforma «copiata» da modelli nati in altre culture e in differenti circostanze storiche, male si attaglia alla nostra situazione perché, manco a dirlo, «l’Italia è diversa». Eppure, non c’è Paese che non si sia adattato ai grandi cambiamenti che, nel dopoguerra, sono intervenuti nell’organizzazione, nella funzione, nella stessa filosofia dello stato moderno. Dappertutto le sollecitazioni sono state più o meno le stesse, più o meno gli stessi sono stati i problemi che i sistemi di relazione centro-periferia hanno dovuto affrontare, e più o meno le stesse anche le risposte che hanno elaborato. Tutti i sistemi federali (o regionali) hanno poi cercato di far tesoro delle esperienze degli altri sistemi federali (o regionali). I tre sistemi federali di lingua tedesca si sono evoluti «copiando» a turno l’uno dall’altro; le esperienze regionali in Italia sono state studiate dagli spagnoli (che, ad esempio, ora stanno discutendo l’introduzione dell’elezione diretta del sindaco) e le esperienze costituzionali spagnole assieme all’esperienza federale (soprattutto) tedesca sono uno dei punti di riferimento del dibattito italiano sulla riforma costituzionale. Certo, non basta riformare la Costituzione per risolvere i nostri problemi. Ma alle difficoltà del Paese non è estranea la debolezza delle nostre istituzioni e il conservatorismo costituzionale che da anni paralizza qualunque tentativo di riforma e che confonde i limiti del processo costituente del ’47 dovuti alla Guerra Fredda (che gli stessi costituenti percepivano come limiti: Costantino Mortati definì il Senato «inutile doppione» della Camera) con dei pregi da mantenere. Forse non per caso, il nostro declino si è accentuato negli ultimi trent’anni con l’invecchiamento della popolazione e anche delle sue categorie critiche, secondo la legge descritta da Keynes sulle élites ingabbiate dalla cultura che le precede.

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LIMES, Rivista italiana di geopolitica, n. 8/2014 – TTIP: SE DUE DEBOLEZZE FANNO UNA FORZA

TTIP: SE DUE DEBOLEZZE FANNO UNA FORZA

 L’ordine globale post-1945 vacilla: un’America stanca e un’Europa in crisi d’identità rischiano di gettare alle ortiche il primato occidentale. Il trattato transatlantico di libero scambio è più di un accordo commerciale. È l’unico modo di salvare il capitalismo democratico.

1. EUROPA E STATI UNITI STANNO CONDUCENDO negoziati volti a concludere un accordo di libero scambio tra i due maggiori mercati globali. La Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), attualmente in corso di negoziato, mira a rimuovere le barriere commerciali in una vasta gamma di settori per facilitare l’acquisto e la vendita di beni e servizi tra Europa e Stati Uniti. Sul tavolo delle trattative ci sono i temi legati al market access  (dazi doganali, misure contro le importazioni, regole per l’accesso agli appalti pubblici), all’omogeneizzazione regolamentare (con il rilevante tema delle barriere commerciali non tariffarie) e ad aspetti che travalicano le relazioni bilaterali (proprietà intellettuale, sviluppo sostenibile). L’accordo, secondo ricerche indipendenti, potrebbe accrescere di 120 miliardi di euro l’economia europea e di 90 miliardi quella statunitense. Come annunciato dal premier Renzi durante lo State of the Union di Firenze, l’Italia vorrebbe accelerare i negoziati durante il suo semestre di presidenza per mettere l’Unione europea nelle condizioni di chiudere questo fondamentale dossier per il 2015.

Il partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti non avrà, tuttavia, un cammino facile. Le difficoltà non mancano. Fatalmente, su entrambe le sponde dell’Atlantico la Ttip è diventata un bersaglio del populismo di chi è contro il libero mercato. Gli americani sono riluttanti a compiere passi significativi prima delle elezioni di metà mandato del prossimo novembre. Ci saranno poi le presidenziali nel 2016 e i politici Usa dei due schieramenti non vogliono essere accusati di avere aperto con troppa leggerezza il mercato interno alla concorrenza europea, o di aver introdotto nuovi vincoli burocratici al business a stelle e strisce. Specie se si considera Washington sta negoziando simultaneamente un accordo di libero scambio altrettanto ambizioso con undici paesi della regione Asia-Pacifico (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Peru, Singapore e Vietnam) denominato Trans-Pacific Partnership (Tpp). Le trattative sono in corso da più tempo rispetto alla Ttip e hanno raggiunto uno stadio più avanzato, ma hanno mancato l’appuntamento conclusivo previsto per lo scorso dicembre. Molti ritengono necessaria la preliminare approvazione di una Trade Promotion Authority (Tpa), nota anche come fast track (corsia preferenziale), per consentire il passaggio dei due accordi al Congresso. Molto dipenderà dalla determinazione con la quale Obama sarà disposto a spendersi in un anno elettorale con i suoi colleghi democratici (parecchi dei quali sono piuttosto scettici sui benefici di questi accordi) per supportare il Tpa bill. La corsia non è indispensabile alla conclusione del negoziato Ttip, ma senza di essa ogni proposta di accordo (ammesso che veda la luce) è potenzialmente ostaggio di ogni genere di lobby al Congresso.

Anche in Europa, l’irruzione nel Parlamento europeo di formazioni antisistema e di forze protezionistiche (come il Front national francese), potrebbe incrinare la maggioranza necessaria ad approvare l’intesa con gli Stati Uniti. Stando ai promotori della campagna Stop Ttip!, l’accordo «rappresenta un nuovo e ancor più massiccio attacco ai diritti sociali e del lavoro, ai beni comuni e alla democrazia». Al solito, la Ue viene additata come complice del capitalismo internazionale.

Per il Movimento 5 Stelle (M5S) se «l’obiettivo dell’accordo è abbattere queste barriere in Europa come negli USA armonizzando le differenti normative in materia economica, ciò significa permettere alle imprese di speculare sulla vita di tutte e tutti i cittadini, muovendo senza alcun vincolo capitali, merci e lavoro per tutto il globo». Secondo i grillini, «la Ttip è la celebrazione della dottrina neoliberista», o meglio «è l’ideologia liberista che avanza, si trasforma e cambia pelle cercando di innalzare questi standard di qualità per creare plusvalore da nuove forme di sfruttamento dei beni, delle risorse e dei bisogni delle persone (…) Qui non si tratta di analizzare i benefici della Ttip, ma di rivedere totalmente la politica europeista figlia della stessa ideologia che sta alla base di questo negoziato».  Stando così le cose, non sorprende che il viceministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda, supervisore per l’Italia della Ttip, lamenti di non aver mai sentito «argomentazioni concrete».

2. Nonostante le difficoltà, nel 2015 (poco dopo le elezioni americane di mid-term) potrebbe materializzarsi una finestra per chiudere l’accordo, magari attraverso quello che in gergo tecnico è detto un early harvest, un raccolto anticipato, cioè un pacchetto limitato alle misure sulle quali c’è già consenso. Una spinta ad accelerare il negoziato è venuta dal Consiglio europeo del 26 e 27 giugno scorsi, tra le cinque priorità dell’Unione ha indicato l’esigenza di completare i negoziati su accordi commerciali internazionali «compresa la Ttip, entro il 2015».

Tanto gli Stati Uniti che l’Unione europea sono interessati infatti a superare gli ostacoli interni (ed esterni: Cina e Russia, che hanno un forte potere di ricatto commerciale nei confronti di Berlino, faranno di tutto per allontanare le due sponde dell’Atlantico), perché ad entrambi sta a cuore stabilire norme in grado di regolare la futura economia mondiale. Infatti, solo se l’Europa e gli Stati Uniti saranno capaci di lavorare insieme per diffondere e far rispettare delle norme comuni in tutto il mondo, i servizi e le industrie americane ed europee potranno prosperare e garantire posti di lavoro ben pagati, in modo da combattere le disuguaglianze di reddito.

Alla base del trattato c’è, dunque, un motivo economico: come l’Europa, dopo la crisi anche l’America ha bisogno di aumentare le esportazioni. Con il più grande accordo di libero scambio mai realizzato finora, Europa e Stati Uniti darebbero vita ad un gigantesco mercato unico. Gran parte dei negoziati si giocherà sulle cosiddette barriere non tariffarie, ovvero su tutte quelle norme e quei regolamenti difformi tra le due sponde dell’Atlantico che frenano lo scambio di merci e gli investimenti reciproci. Fanno parte di questa categoria le restrizioni sanitarie sui prodotti agroalimentari, la richiesta di particolari requisiti per la fornitura di merci o di servizi alla pubblica amministrazione, le limitazioni dettate dalla cosiddetta «sicurezza nazionale» (militare, energetica eccetera) e tutte le regolamentazioni tecniche e normative sui prodotti e sui servizi. La riduzione o l’abolizione di queste barriere avrebbe effetti significativi su tutti i paesi coinvolti dall’accordo, sia direttamente perché accrescerebbe l’import-export di merci, sia per via indiretta agendo sulle variabili macroeconomiche. L’Italia sarebbe tra i paesi che più beneficerebbero in termini industriali dal buon esito dei negoziati. Particolarmente positivi potrebbero essere gli effetti per tutto il comparto dei mezzi di trasporto, dall’automotive all’aerospaziale, nonché per i principali settori di specializzazione italiana nel commercio mondiale: meccanica, sistema moda, alimentare e bevande.  Nello scenario più ottimistico, a prezzi costanti si stima un aumento complessivo delle esportazioni italiane di merci prossimo ai due miliardi di euro.

Ma l’importanza strategica di un accordo per la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti tra le due aree economiche più avanzate del pianeta va molto oltre la sua valenza economica. La disponibilità americana ha un significato strategico. Il negoziato transatlantico su commercio e investimenti è una grande occasione politica per l’Occidente, forse l’ultima, per riuscire a influenzare in modo determinante, attraverso un accordo che interessa quasi la metà del pil mondiale, regole e principi di funzionamento dell’economia globale. Non è un mistero per nessuno che il vecchio ordine nato dalle macerie della seconda guerra mondiale rischia ormai di crollare. Molte cose stanno cambiando rapidamente e possono determinare la transizione verso un diverso assetto o verso un disordine planetario sconosciuto dagli anni Trenta. L’America non ha più la scala, la forza e neppure il consenso interno per agire come Atlante che regge sulle spalle il mondo, fungendo al contempo da locomotiva economica e garante della sicurezza militare. Non a caso, Michael Mandelbaum l’ha definita una frugal superpower. Sicuramente, l’era marcata da una politica estera americana espansiva sta finendo. Nei settant’anni trascorsi dall’entrata in guerra dopo Pearl Harbor nel 1941, raramente le costrizioni economiche hanno limitato l’azione degli Stati Uniti nel mondo. Ma i deficit crescenti del paese, alimentati dai costi enormi della crisi economica-finanziaria e dai programmi di protezione sociale, obbligheranno l’America ad una presenza internazionale più modesta.

Certo, in pochi anni il paese ha avviato una grande rivoluzione tecnologica nell’estrazione del gas e del petrolio non convenzionali, mediante le tecniche della fratturazione idraulica (fracking) e della perforazione orizzontale, che ha prodotto risultati straordinari. L’estrazione di idrocarburi non convenzionali (shale gas e shale oil) degli Stati Uniti condurrà ad un cambiamento decisivo nei mercati energetici globali e una politica centrata sulla riduzione della dipendenza nazionale dal petrolio estero può fare per l’America e per il mondo odierni quel che fece il contenimento dell’Unione Sovietica nel XX secolo. Ma se si sta spezzando l’ordine mondiale costruito dall’America, non è perché l’America stia declinando. Come sostiene Robert Kagan, al centro del malessere americano c’è il desiderio di dismettere gli inusuali gravami della responsabilità che si sono sobbarcati nella seconda guerra mondiale e nella guerra fredda le precedenti generazioni di americani, tornando a essere una nazione normale, più in sintonia con i propri bisogni che con quelli del resto del pianeta. In fondo, è comprensibile. Per un pezzo, gli americani hanno portato il mondo sulle loro spalle. Si può comprenderli se oggi vogliono metterlo giù. Gli alleati dell’America non possono portare un po’ più di questo peso? Forse, se gli europei smetteranno di eludere il problema delle politiche di difesa (Obama lo ha ripetuto fino alla noia) e se il negoziato transatlantico su commercio e investimenti verrà condotto con piena coscienza della posta in gioco. Se si farà strada cioè la consapevolezza che in assenza di una nazione democratica sufficientemente forte da essere un punto di riferimento e contrastare le potenze emergenti del capitalismo autoritario, allora un nuovo centro capace di esercitare una funzione ordinatrice può emergere soltanto come alleanza globale tra democrazie, cementata da un mercato comune. L’ampiezza del negoziato mira infatti a costruire una relazione più strutturale e soprattutto più politica con l’Europa.

Non si tratta un sogno millenarista. Diffondere il modello democratico significa ridurre l’aggressività esterna e creare un mercato meno esposto ai rischi di guerra; vuol dire favorire la stabilità politica e finanziaria, perché la democrazia regola in modo non conflittuale i cambi di potere; significa realizzare l’obiettivo di un capitalismo democratico, che comporta una ricchezza più diffusa e non concentrata. Non è detto che le cose vadano davvero così. Ma non c’è dubbio che il negoziato in corso può incidere anzitutto sulla condizione europea. C’è chi ritiene che sia inevitabile (e indispensabile) muoversi verso un’Europa più federale, più integrata e più forte nella sua capacità di parlare e agire all’unisono. Con le buone o con le cattive. C’è chi ritiene invece del tutto irrealistica l’idea di proseguire il processo di integrazione europea (bloccato dall’indisponibilitá dei singoli Stati membri), che l’Ue abbia ormai esaurito i suoi motivi di utilità e convenga piuttosto mantenere un minimo comun denominatore per poter sottoscrivere unitariamente l’area di libero scambio con l’America e «usare l’integrazione raggiunta per produrre nuova integrazione». Resta il fatto che il processo di approfondimento dell’integrazione europea è stato interrotto in attesa di tempi migliori e senza nuovi stimoli resterà nel limbo. La convergenza economica euro-americana è il punto di partenza di un disegno che consoliderebbe l’Occidente come l’alleanza più potente del pianeta e darebbe alle nazioni che ne fanno parte un impulso formidabile alla crescita, consolidando l’Ue sul piano politico ed economico.

Com’è noto, tutti i paesi europei hanno difficoltà strutturali ad attuare riforme di efficienza economica. La formazione di uno spazio economico transatlantico potrebbe creare un’area privilegiata per le esportazioni, ridurre l’impatto competitivo dell’estero, minimizzare il rischio energetico, creare un sistema favorevole e non ostile agli interessi europei. Ma il negoziato in corso può incidere anche sulla condizione dell’America. Per mantenere un’influenza mondiale indiretta, la strategia americana ha bisogno di creare un’area di libero scambio atlantica e una pacifica standone al centro; ha bisogno cioè di includere l’Europa (Ttip) e le altre democrazie asiatiche (Tpp) in un’alleanza anche economica grande abbastanza per imporre standard occidentali ad un sistema globale dove emergono nuovi poteri globali e regionali. Imporre alla Cina al rispetto di standard di non aggressività esterna e di ordine democratico interno non è solo un obiettivo morale; serve anche ad evitare che l’Impero del Centro finisca per implodere, con un impatto globale devastante.

A cent’anni dalla Grande guerra, rischiamo di tornare al sistema di relazioni internazionali in vigore ai primi del Novecento, fatto di potenze in competizione tra loro. L’integrazione di Europa e Stati Uniti è dunque una priorità. Se l’Europa si propone davvero di «civilizzare la globalizzazione» e gli Stati Uniti, come ripete Obama, «vogliono stare in prima linea sullo scenario mondiale» dovranno farlo assieme. Altrimenti nessuno, da solo, potrà farlo.

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