Che il problema, tanto per il Pd che per i partiti della sinistra europea, sia la politica (e le politiche), dovrebbe essere un’ovvietà. Ma vale la pena ricordarlo con degli esempi. A Stoccarda, sede di Daimler, Porsche, Bosch e altre importanti fabbriche tedesche, è in corso un conflitto sul progetto miliardario di ricostruzione della stazione ferroviaria denominato “Stuttgart 21”.
L’intento è quello di fare della città tedesca uno snodo ferroviario collegato con la linea dell’alta velocità tra Parigi a Bratislava. Da mesi migliaia di manifestanti protestano contro il megaprogetto (echeggiando le Montagdemostrationen, i «cortei del lunedì » che, nel 1989, caratterizzarono la rivoluzione pacifica nell’ex Germania Est) sollevando questioni generali circa la partecipazione democratica e la necessità stessa di grandi progetti infrastrutturali. Il caso ha assunto rilievo nazionale e, alle amministrative del 2011, rischia di far perdere alla Cdu di Angela Merkel un land che controlla da cinquant’anni. La Cdu ha difeso appassionatamente il progetto che vorrebbe trasformare Stoccarda nel «nuovo cuore dell’Europa», mentre i Verdi si sono schierati con i manifestanti. E i socialdemocratici?
Nel Baden-Württenberg sono all’opposizione ma, sfortunatamente, sin dagli anni ’90 hanno sostenuto l’iniziativa. Di conseguenza, sono finiti tra due fuochi. A ben guardare però, lo stesso schema si potrebbe applicare al dibattito in corso sull’integrazione, sulle operazioni militari in Afghanistan o sull’energia nucleare. Al punto che il settimanale tedesco Der Spiegel ha definito il («solido») partito socialdemocratico un «budino». La «narrazione» (con visione o senza visione) sembrerebbe il discrimine dell’offerta politica italiana oggi. Ma tutto il mondo è paese. E fin dalla sua elezione nel novembre del 2009, il nuovo presidente della Spd, Sigmar Gabriel, ha sollecitato il partito a riconquistare l’egemonia nel dibattito pubblico in Germania. Tuttavia, sulle principali questioni la Spd ha assunto il più delle volte posizioni tentennanti, in netto contrasto con le posizioni chiare dei suoi avversari.
È verosimile che la presa di distanza dalle riforme socio-economiche che la Spd ha perseguito al governo («Agenda 2010») abbia incontrato il favore di parte dei militanti, ma questo ritorno indietro ha minato ulteriormente ciò che alla Spd manca di più: la credibilità. E, quel che più conta, ha reso impossibile per la Spd rivendicare il merito del recupero economico della Germania.
Comprensibilmente, questo atteggiamento non ha pagato fra gli elettori. Nelle elezioni nazionali del settembre 2009 la Spd ha ottenuto il 23%, il peggior risultato del dopoguerra. E nei giorni scorsi un sondaggio realizzato per il settimanale Stern colloca la Spd al 24%. Lo scontento nei confronti del governo liberal-conservatore si è trasferito nel sostegno crescente per i Verdi. Se le elezioni si tenessero oggi, i Verdi potrebbero aspettarsi oltre il 20 per cento dei voti: il doppio rispetto al 2009. Insomma, mentre la Spd fatica a dire da che parte sta, i Verdi promuovono fiduciosamente il loro New Deal «verde», una forma dettagliata di capitalismo ecologico. Ma se la Spd dovesse sviluppare, in alternativa, un New Deal «rosso», questo richiederebbe un doloroso processo di chiarificazione: un processo che tuttora molti socialdemocratici non ritengono necessario, nella convinzione che il più grande partito d’opposizione diventerà automaticamente quello più popolare. Malgrado ciò, i leader di partito hanno cominciato a lavorare sulla «visione». E non mancano le discussioni sulla necessità di fare dei «progressi». Ma c’è chi vede il progresso come un male necessario per mantenere lo status quo: «Se vogliamo difendere le nostre conquiste sociali in un mondo globale, non possiamo fare a meno di cambiare alcune cose». E c’è chi vede il progresso come un processo desiderabile e fortificante, concepito per creare un mondo migliore, in analogia col motto di Barack Obama «Il mondo com’è non è il mondo come dovrebbe essere». Come ha osservato Michael Miebach, direttore di Berliner Republik, «quest’ultima nozione di progresso che guarda in avanti potrebbe essere più attraente per i militanti e gli elettori potenziali.
Ma vista la struttura demografica del partito, è più probabile che la Spd si accontenterà di uno status quo conservatore». La crisi di strategie e di idee che attraversa i partiti socialisti e socialdemocratici è la stessa che attraversa il Pd. In discussione è la nostra credibilità nel proporre e perseguire davvero politiche nuove. La politica non tornerà «normale», neppure con l’uscita di scena di Berlusconi. Neppure in Germania. E se il Pd vuole provare a conquistare quelle parti di elettorato che si renderanno disponibili con il mutare dei rapporti di forza all’interno del centrodestra, non si dovrà «accontentare di uno status quo conservatore».
Maran (Pd): «I progressisti devono rientrare subito in sintonia con i cittadini»
ROMA Il consenso su Berlusconi nel Paese non si incrina neppure dopo la bufera del Rubygate. Come se lo spiega onorevole Maran?
La sopravvivenza di Berlusconi – risponde il veltroniano Alessandro Maran, vicecapogruppo del Pd alla Camera – e la sua permanenza al potere, nonostante ne abbia fatte di tutti i colori, è dovuta solo al fatto che non c’è un’alternativa credibile al suo governo.
In sostanza parte dell’elettorato dice: se non voto lui chi dovrei votare?
Berlusconi è quello che è, ma tutto sommato gli altri potrebbero essere peggio. E ciò perché si ricorda l’esperienza del secondo governo Prodi, cioè l’Unione, caratterizzata da litigi interni e pareri discordanti e che si è tradotta nell’impotenza a cambiare il Paese. Proprio quella vicenda ci aveva persuasi nel 2008 che il problema non era allargare l’alleanza, ma piuttosto conquistare nuovi elettori.
Veltroni però ha perso le elezioni.
Il problema non era riuscire in quell’occasione a sconfiggere Berlusconi poiché la valutazione dell’elettorato era basata sull’esperienza precedente e non sul programma. Ma la convinzione era, ed è, che su quella strada dobbiamo muoverci, cioè allargare la base elettorale
Giusto. Come si fa?
Il Pd deve cambiare, mettere in discussione la propria identità e la politica che propone. Deve cercare di rispondere a tutte quelle domande che gli elettori hanno rivolto al centrodestra sul fisco, sulla politica economica, sulla giustizia e che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte. I progressisti devono sforzarsi di costruire una alternativa credibile sulla capacità di entrare in sintonia con gli italiani come sono oggi, battendo Berlusconi dove gli fa più male: la sua impotenza a cambiare l’Italia dopo aver detto che l’avrebbe rivoltata come un calzino.
Il segretario Bersani, in questi giorni, sembra solo cavalcare la questione giudiziaria che investe il premier.
L’opposizione, come è naturale deve raccogliere l’indignazione morale del Paese e lo sconcerto a cui hanno dato voce lo stesso presidente Napolitano e le autorità religiose, anche con la mobilitazione di piazza. Attenzione, però, questo non basta: non si costruisce una alternativa di governo soltanto con la denuncia morale.
La vicenda Mirafiori vi ha penalizzato nei sondaggi a favore di Vendola che si è schierato contro Marchionne.
Il problema è che il Pd non può rappresentare solo il suo elettorato come fa Vendola. Per competere nella sfida per il governo deve conquistare la maggioranza degli italiani. Il nostro Paese ha bisogno che le ragioni del lavoro e quelle dell’impresa si riconoscano in uno sforzo collettivo.
Dopo il Lingotto il rapporto dei Modem con Bersani è migliorato?
Un passo avanti si è fatto. È evidente che in un partito moderno ci sono opinioni diverse. Tante teste tante idee, il punto e che tutte siano al servizio di un progetto collettivo.
Come ha scritto malignamente Max Gallo, l’Italia «è la metafora d’Europa», la società in cui tutto si manifesta in modo caricaturale ed eccessivo; dove le malattie latenti, che negli altri paesi moderni sono solo in incubazione, si presentano in modo evidente ed esplodono. Perfino le grottesche vicende italiane sono però un capitolo della storia europea di questi anni.
Basta guardare all’Olanda, uno dei paesi più civili del mondo. L’Olanda ha avuto un sistema politico stabile per tutto il dopoguerra ma, dalla «Rivolta dei cittadini» di Pim Fortuyn del 2002, è divenuta preda della frammentazione politica e dell’instabilità. Grazie al sistema elettorale proporzionale (lo sbarramento è dello 0,7%), la politica olandese funziona come un sismografo che registra puntualmente i mutamenti d’umore (postideologici) nelle democrazie mature.
E, infatti, gli spostamenti che rileva il sismografo olandese sono fin troppo familiari. A destra, ci si imbatte nel «populismo di governo », come lo chiama Rene Cuperus, vice direttore del think tank del partito laburista olandese. A sinistra, c’è lo spettacolo deprimente della frammentazione e della battaglia culturale tra «socialconservatori » e «social-progressisti».
Dopo le elezioni, i liberalconservatori del Vvd (Partito popolare per la libertà e la democrazia) e i cristiano-democratici del Cda (Appello cristiano democratico) hanno raggiunto un’intesa con l’appoggio esterno del Partito per la libertà, xenofobo e anti-islamico, di Geert Wilders (Pvv) per formare un governo di minoranza. Il Pvv si limita infatti a «tollerare» la coalizione. «Il collante di questa peculiare alleanza – osserva Rene Cuperus – è l’avversione verso la sinistra. L’ostilità verso la sinistra cosmopolita, elitaria, (multi)culturale. Il rigetto del modo in cui la sinistra affronta l’immigrazione, l’integrazione e le questioni connesse alla sicurezza.
I populisti governativi presentano il loro esecutivo come un governo di buonsenso. In termini di visione del mondo, lo si potrebbe descrivere come un governo dei tabloid – un governo per e della gente comune, che rappresenta una reazione alla rivoluzione culturale degli anni ’60 e ’70 dell’establishment progressista. La vendetta è nell’aria. E il populismo governativo è la sua faccia». Nel sistema multi-partito olandese la sinistra è polarizzata e frammentata.
E invece di un grande partito laburista c’è una costellazione di partiti: la «vecchia sinistra» populista del Partito socialista (Sp) che mantiene robusti legami con i sindacati; la «nuova sinistra» dei Democratici 66 (D66), un partito riformista liberal-socialista; i Verdi di sinistra (Gl), un partito ambientalista e di sinistra; il Partito per gli animali (Pvdd), animalista e ambientalista; e, infine, il Partito laburista (Pvda), socialdemocratico, che cerca di fare da «ombrello» per l’intera famiglia progressista.
All’origine dello sconquasso c’è il Partito della libertà di Geert Wilders, un partito populista che rappresenta una curiosa combinazione di islamofobia e di sciovinismo del welfare state, che sta causando l’esodo (lento ma continuo) della base operaia di sinistra. Ovviamente, la frammentazione e la polarizzazione sono causate da nuove fratture che nelle società affluenti si aprono lungo linee politico-culturali. E di fonte alle tendenze di un mondo nuovo, è proprio il contrasto tra una visione cosmopolita e un approccio nazional- comunitario-populista all’origine di questa rivolta paneuropea dello scontento, che prende le mosse dall’ansia generata dalla globalizzazione e dal trauma dell’immigrazione.
Questa nuovo dissidio attraversa proprio l’insediamento della sinistra e produce un sorta di «guerra culturale» tra gli intellettuali, i professionisti (in Italia, diremmo la sinistra di Repubblica) e la gente comune, la classe medio-bassa che guarda la tv e si sente tradita da una sinistra che è diventata establishment. Così, invece di costruire un progetto alternativo di governo, la sinistra (anche) in Olanda sembra alle prese con la guerra civile tra le persone più istruite e quelle meno istruite. E c’è chi evoca lo spettro della Repubblica di Weimar.
Ma il senso, la stessa ragion d’essere dell’alleanza riformista, in Olanda come in Italia, non può essere che «l’alleanza tra il merito e il bisogno». «Le donne e gli uomini di merito, di talento, di capacità, sono le persone – sosteneva Claudio Martelli nel lontano 1982 a Rimini – utili a sé e utili agli altri. Coloro che progrediscono e fanno progredire un insieme o un’intera società con il loro lavoro, con la loro immaginazione, con la loro creatività, con il produrre più conoscenze: sono coloro che possono agire. Le donne e gli uomini immersi nel bisogno sono le persone che non sono poste in grado di essere utili a sé e agli altri, coloro che sono emarginati o dal lavoro o dalla conoscenza o dagli affetti o dalla salute: sono coloro che devono agire».
Vale la pena ricordarlo. Dato che i quieti equilibri del passato non si possono ricreare e il mestiere dell’opposizione (più ancora di fare la voce grossa e convocare piazze indignate) è ovunque quello di costruire (con le necessarie alleanze) una alternativa e renderla convincente.
Davanti alle violenze che, come ha dichiarato Obama, «violano le norme internazionali e qualunque standard di decenza comune », la difesa del passato non è più una possibilità, comunque vadano le cose a Tripoli. L’Unione europea si prepara finalmente ad adottare sanzioni contro la Libia (che includono l’embargo sulle armi, il congelamento dei beni, il divieto di visto, contro esponenti del regime) e non esclude un intervento militare a scopo umanitario per assistere l’evacuazione dei propri cittadini.
L’Europa però non sembra in grado di giocare un ruolo all’altezza dei rischi che corre. È circondata da un arco d’instabilità che ne minaccia la sicurezza. Ma, alle tradizionali carenze di proiezione esterna della Ue, si sono aggiunte le risposte tardive alle crisi in Tunisia e in Egitto, le esitazioni nel contribuire ad una soluzione della crisi politica in Albania (che potrebbe rimettere in discussione le tappe dell’allargamento e, dunque, la stessa politica europea nei Balcani occidentali) e, più in generale, la mancata comprensione dei cambiamenti delle società arabe.
Eppure, la crisi in Medio Oriente potrebbe offrire all’Europa l’occasione per riacquistare credibilità presso il mondo arabo. Si è aperta una concreta prospettiva di cambiamento democratico che potrà realizzarsi solo se avrà il sostegno di attori esterni, in particolare dell’Europa oltre che degli Usa.
Quel che sta accadendo dimostra che la stabilità può essere illusoria e che è rischioso limitarsi a sostenere i regimi al potere affidando la nostra sicurezza alla loro stabilità. Sebbene sia necessario lavorare con i regimi esistenti (per quanto moralmente ripugnanti) per conseguire obiettivi regionali, è impossibile prevedere quando la presa del regime verrà meno. E quando accadrà, l’assenza di forti istituzioni politiche capaci di gestire la transizione può condurre a una situazione di pericolosa instabilità. Anche perché per gli atrofizzati e disorganizzati gruppi di opposizione, ottenere la stabilità è ancora più difficile. Per quanto possa essere arduo, dovremmo perciò incoraggiare, in quei paesi, lo sviluppo di istituzioni politiche più forti, più autonome, e di alternative credibili. Il che significa regole, partiti, sindacati.
Il ministro degli esteri Franco Frattini ha affermato che, a suo avviso, l’Ue «non deve interferire» nei processi di transizione in corso nel mondo arabo cercando di esportare il proprio modello di democrazia. Bisognerebbe, invece, ripensare (sempre che non sia già troppo tardi) le politiche europee progettate per portare stabilità e democrazia in queste aree. Non si tratta di adottare deleterie politiche di diffusione della democrazia con la forza, ma di offrire un riferimento e aiuti economici, sociali e culturali alle società civili e alle forze disponibili all’avvio di un processo di partecipazione popolare più ampio. La stabilità non può più essere perseguita al prezzo della democrazia.
Non sarebbe male ricordare che, dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione della Jugoslavia, l’estensione all’Europa centrorientale di uno spazio di pace, di diritto e di democrazia (che fa dell’Europa a 27 il più grande agglomerato al mondo di uomini liberi e benestanti) è stato un successo storico innegabile, tanto più che per realizzarlo è bastata la sola forza di attrazione del modello europeo, la sua capacità di creare un cambiamento. Il disegno che ha guidato l’allargamento dell’Unione ai paesi ex comunisti è lo stesso disegno di pace architettato alla fine della Seconda guerra mondiale, di cui prima la Comunità europea e poi la successiva Unione europea sono la parte centrale: la guerra sarebbe stata «non solo impensabile ma effettivamente impossibile» a causa del livello d’interdipendenza che si sarebbe creato tra gli Stati della nascente comunità.Questo modello deve servire ai paesi europei per promuovere i propri valori anche fuori dall’Europa.
Nel corso della discussione sulla ratifica del trattato Italia- Libia che ha chiuso un contenzioso che ha origine nella guerra coloniale (oggi di fatto sospeso), ne abbiamo denunciato gli aspetti negativi, ma raccomandandone l’approvazione abbiamo ribadito che «lo Stato non è soltanto un governo, è un territorio popolato con un governo nazionale e una società. In altre parole, è un paese, e la nostra scommessa è quella che l’aumento dell’interdipendenza determini un cambiamento non soltanto nelle relazioni tra gli Stati ma anche nelle relazioni interne a quello Stato, determini, in altre parole, l’avanzare della società civile internazionale». Gli arabi stanno scoprendo un potere che non sapevano di avere. Ora si tratta di stare dalla loro parte. Il governo sembra ridurre il dramma della Libia (che non per caso è visto da Bossi come un utile diversivo) al pericolo di un’ondata migratoria. C’è in gioco, invece, una grande questione di libertà che impegna anche noi.
Appello contro l’antidemocrazia intollerante e anticostituzionale
Matura in ambienti democratici una tendenza alla ripulsa della democrazia liberale e a contestare il regolare funzionamento delle istituzioni repubblicane. L’ultima trovata è una “prova di forza dall’alto” che “congeli le Camere” e imponga “d’autorità una nuova legge elettorale” con l’aiuto, esplicitamente richiesto, degli apparati preposti alla tutela dell’ordine pubblico, Carabinieri e Polizia di stato (Alberto Asor Rosa, il manifesto, 13 aprile 2011). E questo è solo l’ultimo di numerosi e allarmanti pronunciamenti in favore di vie extraistituzionali al cambiamento di governo.
Abbiamo opinioni diverse, e in qualche caso opposte, sullo stato della democrazia in Italia, sulle politiche di governo e maggioranza, sulle decisioni in materia di giustizia e di legalità.
Ma giudichiamo estremamente gravi le soluzioni anticostituzionali invocate, anche in forme meno rozze, da alcuni leader d’opinione che mostrano di voler rinunciare all’unico metodo possibile di iniziativa e di lotta in una democrazia repubblicana europea e occidentale: la costruzione, nel conflitto ordinato e istituzionalmente normato, di una alternativa di governo fondata sul consenso dei cittadini.
Siamo convinti che occorra vigilare contro ogni impulso alla prova di forza e contro una torsione culturale verso la trasformazione della politica in intolleranza, chiusura settaria, demonizzazione del nemico, antidemocrazia comunque motivata o mascherata.
Luigi Amicone (direttore di Tempi),
Ritanna Armeni (editorialista del Riformista),
Giovanni Belardelli (storico, editorialista del Corriere della sera),
Sergio Belardinelli (docente, animatore del progetto culturale della Cei),
Alessandro Campi (docente universitario),
Stefano Ceccanti (parlamentare del Pd),
Franca Chiaromonte (parlamentare del Pd),
Stefano Fassina (responsabile economia del Pd),
Domenico Delle Foglie (giornalista cattolico),
Ruggero Guarini (scrittore),
Massimo Introvigne (docente universitario) ,
Giorgio Israel (docente universitario),
Raffaele La Capria (scrittore),
Claudia Mancina (docente universitario),
Alessandro Maran (vicecapogruppo del Pd alla camera),
Letizia Moratti (sindaco di Milano),
Enrico Morando (senatore del Pd),
Piero Ostellino (editorialista del Corriere della sera, liberale),
Marco Tarquinio (direttore di Avvenire),
Giorgio Tonini (senatore del Pd)