Monthly Archives: Ago 2016

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Siria: perché le cose non fanno che peggiorare?

La guerra civile siriana non accenna purtroppo a finire. Nonostante le molte offensive, malgrado le conferenze di pace e gli interventi stranieri, incluse le incursioni turche di questa settimana nelle città di confine, le cose non fanno che peggiorare.

Nei giorni scorsi, Max Fischer, sul New York Times, ha cercato di spiegare, raccogliendo le opinioni degli esperti, perché le cose in Siria vanno sempre peggio e quali sono i motivi che stanno frustrando ogni tentativo di risoluzione della guerra civile. La ricerca accademica sulle guerre civili, prese nel loro insieme, rivela perché quello siriano è un caso così difficile. I conflitti di questo tipo durano mediamente un decennio, circa il doppio (finora) di quello siriano. Ma ci sono alcuni fattori che li possono far durare più a lungo, li possono rendere più violenti e più difficili da fermare. E praticamente tutti questi fattori sono presenti in Siria. Molte di queste condizioni sono la conseguenza degli interventi stranieri che, pensati per porre fine alla guerra, l’hanno invece intrappolata in una situazione di stallo nella quale la violenza si auto-alimenta e le normali strade per la pace sono tutte ostruite. Il fatto poi che lo scontro avvenga tra più gruppi anziché tra due parti soltanto, lavora contro la risoluzione del conflitto. Stando agli esperti, quello siriano è davvero un caso difficile, posto che storicamente nessun conflitto precedente ha avuto dinamiche simili.

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Autonomia a prova di voto – Il Gazzettino, 13 agosto 2016

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Il Gazzettino, 13 agosto 2016 – Autonomia a prova di voto

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l’Unità, 5 agosto 2016 – Elezioni USA, un nuovo mondo

Non sono elezioni come le altre. Lo ha scandito Barack Obama nel suo discorso alla Convenzione democratica di Philadelphia. Trump non è un avversario come gli altri, non rientra nella dialettica tra Repubblicani e Democratici che ha fatto crescere l’America. È, invece, un candidato cinico che vuole speculare sulle paure. Lo ha ribadito anche l’Economist: le convenzioni hanno messo in luce un una nuova frattura politica, non tra sinistra e destra, ma tra apertura e chiusura. E anche per Thomas L. Friedman, lo scontro non è tra Democratici e Repubblicani, ma tra «Wall People» e «Web People», tra costruttori di muri e costruttori di reti (cioè di legami).

L’obiettivo principale dei primi è quello di scovare qualcuno in grado di placare i venti impetuosi del cambiamento che non ci danno requie: nel nostro posto di lavoro, dove le macchine stanno minacciando le occupazioni di colletti bianchi e tute blu; nel nostro quartiere, dove si stanno riversando immigrati di diverse religioni, razze e culture; e globalmente, dove parecchia gente rabbiosa uccide innocenti con preoccupante regolarità. «Vogliono un muro per fermare tutto questo», scrive il columnist del New York Times. Sia Donald Trump che Bernie Sanders sono due candidati che vanno a pennello ai «Wall People»: entrambi fanno appello alla pancia del paese; il primo, si vanta di essere in grado di fermare il vento con un muro e il secondo promette di fare lo stesso stracciando i grandi accordi commerciali globali e facendo abbassare la cresta ai ricchi e alle grandi banche.

Dall’altra parte ci sono i «Web People», i difensori di un mondo aperto, che, scrive Friedman, «si rendono conto che sia i Democratici che i Repubblicani hanno costruito le loro piattaforme in gran parte in risposta alla rivoluzione industriale, al New Deal e alla Guerra fredda, e che oggi un partito del XXI secolo ha bisogno invece di costruire la propria piattaforma in risposta alle accelerazioni imposte dal progresso scientifico e tecnologico, alla globalizzazione, al cambiamento climatico, che sono le forze che stanno trasformando i luoghi di lavoro, la geopolitica e lo stesso pianeta». Sanno che quel che conta davvero è concentrarsi nel sostenere le persone, gli individui, «per permettere loro di competere e collaborare in un mondo senza muri»; che «i sistemi aperti sono più flessibili, resilienti e capaci di imprimere una spinta in avanti e offrono l’opportunità di sentire e reagire per primi al cambiamento. Perciò preferiscono più espansione commerciale, lungo le linee della Trans-Pacific Partnership, più immigrazione regolata per attrarre le menti più acute e le persone più dinamiche, e più strumenti per un apprendimento lungo tutta la durata della vita. E capiscono anche che bisogna prevenire gli eccessi di irresponsabilità a Wall Street, senza però strozzare chi assume dei rischi, perché questo è il motore della crescita e dell’imprenditorialità».

Hillary Clinton sa perfettamente che l’America deve costruire il suo futuro su questa piattaforma; sa che gestire la globalizzazione (mantenendo i benefici dell’apertura cercando di attenuare gli effetti negativi) non vuol dire rinunciarvi; sa che un mondo di costruttori di muri sarebbe più povero e più pericoloso. Ma invece di sfidare i «Wall People» del suo partito, sta cercando un accordo con loro, opponendosi a cose che lei stessa ha contribuito a negoziare, come l’accordo commerciale del Pacifico, offrendo più sussidi statali e, scrive Friedman, «astenendosi dal dire alla gente la dura verità: per restare nella classe media, limitarsi a lavorare duro rispettando le regole non basta più. Per avere un lavoro che duri tutta una vita bisogna apprendere per tutta una vita, cercando di migliorarsi costantemente».

L’America (ma anche il vecchio mondo) ha bisogno disperatamente di una coalizione in grado di governare efficacemente in tempi di rapido cambiamento. Non per caso, Thomas Friedman si augura che i pro-global repubblicani, che ora si tengono in disparte, si uniscano al Partito Democratico per formare un partito per il XXI secolo. Un partito «sensibile ai bisogni della gente che lavora, che valorizza la funzione stabilizzante di comunità solide e in buona salute, ma che sta dalla parte del capitalismo, dei mercati liberi e del libero commercio, in quanto motori vitali della crescita per una società moderna e per dotare ogni americano degli strumenti di apprendimento per realizzare il proprio potenziale». Vale anche per noi (a proposito, il PD non era nato per questo?).

Hillary Clinton ha la possibilità di rompere, oltre al soffitto di cristallo per le donne, anche il muro che ha diviso i due grandi partiti americani. Ma deve promuovere l’apertura con coraggio e senza ambiguità. Dal suo successo, dipende il futuro dell’ordine mondiale liberale.

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Elezioni USA, un nuovo mondo l’Unità, 5 agosto 2016

Non sono elezioni come le altre. Lo ha scandito Barack Obama nel suo discorso alla Convenzione democratica di Philadelphia. Trump non è un avversario come gli altri, non rientra nella dialettica tra Repubblicani e Democratici che ha fatto crescere l’America. È, invece, un candidato cinico che vuole speculare sulle paure. Lo ha ribadito anche l’Economist: le convenzioni hanno messo in luce un una nuova frattura politica, non tra sinistra e destra, ma tra apertura e chiusura. E anche per Thomas L. Friedman, lo scontro non è tra Democratici e Repubblicani, ma tra «Wall People» e «Web People», tra costruttori di muri e costruttori di reti (cioè di legami).

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RIFONDARE IL PD?

Non si fonda la Terza Repubblica senza rifondare il Pd, si sa. O meglio, dovremmo saperlo. Martedì scorso Antonio Funiciello, Consigliere alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ha scritto un lungo articolo sul Foglio (Manifesto per un nuovo Pd) nel quale illustra, dal referendum al modello Milano, il metodo americano sognato a Palazzo Chigi per rivoluzionare i democratici italiani. Va detto che non è la prima volta che Matteo Renzi preannuncia la riorganizzazione del partito per poi lasciar cadere la questione. Dopo le elezioni amministrative sembrava che fosse arrivata la volta buona, ma siamo giunti ad agosto e anche stavolta non è successo niente. Vedremo se, dopo l’estate, ci sarà una svolta. Intanto, vale la pena di leggere il manifesto di Antonio Funiciello. Anche sotto l’ombrellone.

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Il nuovo spartiacque politico

Se le elezioni presidenziali del prossimo 6 novembre negli Stati Uniti sono probabilmente le elezioni più attese e seguite del mondo, non é solo perché, come direbbe Nando Mericoni, «l’americani so forti! … ammazza gli americani, aoh!». Il fatto è che la lunga corsa alla Casa Bianca, pur essendo un affare tutto americano, è l’evento politico che più di ogni altro influenza le sorti economiche e politiche del resto del mondo. Inoltre, le campagne elettorali americane sono eventi di grande teatro, forte emotività e laboratori di strategia mediatica senza paragoni. In aggiunta, questa volta c’è una ragione in più: non sono elezioni come le altre. Lo ha scandito Barack Obama nel suo (bellissimo) discorso alla Convenzione democratica di Philadelphia (Full Speech Obama at DNC. July 27, 2016. Democratic National Convention 2016. Philadelphia. – …)

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