Domenica scorsa, Donald Trump ha difeso Vladimir Putin dall’accusa di essere un ‘assassino’ dicendo a Bill O’Reilly, nel corso dell’intervista su Fox News, ‘anche da noi ci sono molti assassini. Pensa che la nostra nazione sia così innocente?’.
La frase shock, che suggerisce un’equivalenza morale tra Stati Uniti e Russia (un altro tabù violato da Trump), ha provocato sdegno anche tra i Repubblicani. “No, qui da noi non avveleniamo gli oppositori. Non siamo uguali a Putin”, è sbottato il senatore Marco Rubio, già rivale di Trump per la nomination repubblicana.
Niente di nuovo, a ben guardare: la considerazione per Putin ed il desiderio di collaborare esibiti da Trump sono stati uno dei temi più gettonati della campagna elettorale. Indubbiamente, nel suo costante plauso a Vladimir Putin e nell’accanimento con il quale ribadisce che gli Stati Uniti si avvantaggerebbero da relazioni più cordiali con la Russia, Donald Trump è sostanzialmente un caso isolato nel mainstream della politica americana, ma la tendenza a vedere Putin più come un alleato che come una minaccia lo pone in linea con i movimenti populisti che stanno guadagnando terreno sia in America che in Europa. E ciò significa che i dissidi sulla Russia interni al Partito Repubblicano, fra Trump e gli analisti di politica estera più tradizionali (come, ad esempio, i senatori John McCain e Lindsey Graham), sono destinati a provocare un dibattito più ampio sulle priorità che devono guidare la politica estera americana.
Putin è percepito come una minaccia dalla maggior parte degli analisti di politica estera, indipendentemente dal loro colore politico, sia negli Stati Uniti che in Europa, in larga misura perché sta cercando di espandere l’influenza russa in tutta l’Europa orientale e nel Medio Oriente con modalità che potrebbero destabilizzare le alleanze e le regole globali che hanno definito l’ordine internazionale fin dalla Seconda guerra mondiale.
Questa preoccupazione ha raggiunto un picco dopo un susseguirsi di azioni provocatorie da parte di Putin: dall’aggressione in Ucraina nel 2014 alla violenta campagna militare contro gli oppositori del regime di Damasco in Siria, fino alle conclusioni della Comunità di intelligence americana che ha confermato che la Russia avrebbe hackerato gli account di posta elettronica del Partito democratico per influenzare le elezioni presidenziali americane del 2016.
Ma i nazionalisti e i populisti conservatori, sia negli Stati Uniti che in Europa, vedono in Putin un potenziale alleato perché le loro priorità internazionali sono molto diverse: resistere alla radicalizzazione islamica, smantellare l’integrazione economica globale e combattere la secolarizzazione delle società occidentali. E anche i consiglieri di alto livello di Trump come Stephen Bannon, il Chief strategist della Casa Bianca, ed il consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, hanno espresso punti di vista molto simili.
In questo senso, le visioni contrastanti su Putin non riflettono solo le differenze sul come rapportarsi specificatamente alla Russia, ma il contrasto su quali siano gli obiettivi che devono guidare la politica estera americana nel XXI secolo e quali alleati siano necessari per raggiungere quegli obiettivi. Su entrambi i lati dell’Atlantico, la spinta a “resettare” i rapporti con Putin riflette il desiderio di mettere l’accento su un diverso set di priorità e ridimensionare, e perfino abbandonare, le alleanze che hanno legato più strettamente le nazioni europee tra loro e agli Stati Uniti per decenni.
Resta da vedere quanta strada farà questo cambiamento di prospettiva all’interno del Partito Repubblicano. Nel GOP, infatti, la maggior parte degli eletti e degli analisti di politica estera ritiene ancora che la stabilità globale dipenda da un network di regole e di alleanze guidato dall’America, e vede ancora Putin come una minaccia crescente verso quest’ordine. Tuttavia, sebbene il sostengo a Putin dei conservatori e dei populisti, così comune in Europa, resti ancora confinato ai margini del Partito Repubblicano, con Trump sembra aver acquisito una testa di ponte.
I principali movimenti nazionalisti e populisti in Europa, compreso il Fronte nazionale francese, l’Independence Party inglese, Alternative für Deutschland, il Partito per la Libertà olandese, il Partito della Libertà austriaco, lo Jobbik ungherese, lo stesso M5S e la Lega, non hanno esattamente le medesime vedute su Putin. Geert Wilders, il leader del Partito per la Libertà olandese, per esempio, è molto più “freddo” verso Putin di quanto lo sia Marine Le Pen del Fronte nazionale francese, che ha ottenuto un prestito da una banca russa per finanziare la campagna elettorale del partito nel 2014, o il Partito della Libertà austriaco, che ha firmato un “accordo di cooperazione” con il partito Russia Unita di Putin.
Ma i partiti populisti europei condividono una serie di priorità comuni che riguardano le limitazioni all’immigrazione, lo smembramento dell’integrazione politica ed economica globale (rinunciando all’Unione europea e, per alcuni di questi partiti, anche alla NATO), intervenire in modo più deciso per combattere il radicalismo islamico e, nella maggior parte dei casi, opporsi, in casa propria, al liberalismo culturale e alla secolarizzazione. E ai loro occhi, Putin appare non come una minaccia, ma come un alleato.
Ovviamente, nessuno di questi partiti “segue” Putin allo stesso modo in cui i partiti comunisti si uniformavano all’Unione sovietica. Ma ne apprezzano davvero la “forza”, quella che percepiscono come la difesa di solidi valori tradizionali, il nazionalismo e l’opposizione all’Islam. E non c’è dubbio che Putin si sia posizionato come un baluardo dei valori conservatori. Prima in Cecenia e più di recente in Siria, può vantare di aver dato battaglia agli estremisti islamici, in modo più aggressivo di ogni altra nazione occidentale, almeno da quando l’America ha rovesciato i talebani in Afghanistan (anche se in realtà la campagna russa in Siria si è dedicata più ad annientare gli oppositori di Assad che a combattere lo Stato Islamico).
I populisti conservatori come Marine Le Pen guardano, inoltre, all’avversione di Putin nei confronti delle istituzioni globali come ad un modello da imitare per ritornare alla “sovranità nazionale” in opposizione alla cooperazione multilaterale e all’integrazione. In particolare dopo il suo ritorno alla presidenza russa nel 2012, Putin si è venduto come il difensore dei tradizionali valori sociali, specialmente in opposizione ai diritti degli omosessuali e come alternativa, in linea con i precetti religiosi, ai paesi occidentali che, come si affanna a ripetere, “stanno negando i principi morali e tutte le identità tradizionali: nazionale, culturale, religiosa e perfino sessuale”. Sebbene l’idea che sia Putin ad impartire lezioni al mondo sui “principi morali” risulti ai più piuttosto irritante, è un atteggiamento che suscita l’ammirazione non solo dei populisti di destra in Europa, ma anche di quegli attivisti americani che la pensano allo stesso modo, come Patrick J. Buchanan, la cui candidatura per la nomination repubblicana ha anticipato molti dei temi isolazionisti di Trump.
Non per caso, i partiti populisti europei hanno quasi universalmente minimizzato le mosse destabilizzanti di Putin, compresa l’incursione in Ucraina e l’annessione della Crimea, declassandole al livello di preoccupazioni secondarie. Nigel Farage, il fondatore dell’Independence Party inglese (e il leader populista europeo più vicino a Trump), ha sostenuto, infatti, che sebbene l’incursione di Putin in Ucraina non fosse giustificata, sia stata una reazione comprensibile. È stato l’Occidente a spingersi troppo in là.
L’opinione di Farage è molto comune tra i populisti conservatori. Stando a loro, non c’è ragione di preoccuparsi. Non credono che la Russia voglia ripristinare l’Unione sovietica. Ritengono che la Russia stia difendendo unicamente sé stessa dal globalismo e vorrebbero che l’Unione europea e la NATO si tenessero fuori dall’Europa centrale e orientale. Ma non credono che la Russia voglia davvero riprendersi quella parte d’Europa e che abbia l’intenzione di minacciare l’Europa occidentale.
I consiglieri più vicini a Trump hanno espresso opinioni simili negli anni recenti. E, come i populisti europei, Steve Bannon ritiene che la minaccia potenziale posta da Putin sia di molto inferiore rispetto alle preoccupazioni più urgenti, che impongono di allearsi con i russi contro il terrorismo islamico. Anche Flynn ha ricordato che la nuova minaccia globale del terrore richiede un mutamento nelle priorità che veda Stati Uniti e Russia non più come avversari, ma come compagni in una lotta che è destinata a durare a lungo.
Quanto queste opinioni siano condivise da Trump non è dato sapere. Ma non dovremmo sottovalutare che l’obiettivo fondamentale delle mosse di Putin è quello di indebolire il tessuto della società occidentale e la stessa legittimità della democrazia liberale. Siamo in un periodo che ha molto più a che fare con gli anni Venti e Trenta di quanto abbia a che fare con il primo decennio degli anni Duemila. Siamo ad un punto di svolta. Ed il successo dei movimenti populisti solleva questioni fondamentali sulla possibilità stessa di sopravvivenza dell’ordine internazionale in cui viviamo.