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La frattura politica che conta

Quasi tutti i sistemi politici del nostro continente si stanno ridefinendo a partire dalla frattura sull’Europa. Sono anni che Pietro Ichino si affanna a ripeterlo. Ora lo vedono anche i ciechi.

«Rispetto a questa frattura –  come ha scritto Sergio Fabbrini sabato scorso sul Sole 24 Ore – destra e sinistra non sono distinguibili. Sia nell’una che nell’altra c’è chi vuole ritornare alle sovranità nazionali del passato e chi invece vuole difendere l’integrazione sovranazionale». E se non si riconosce questo dato, non c’è modo di raccapezzarsi di fronte a quel che succede in Europa da un po’ di tempo a questa parte.

Nella sua bella newsletter settimanale (qui sotto) sulle presidenziali francesi, Francesco Maselli, domenica scorsa ha descritto, infatti, una situazione «inedita e difficilmente prevedibile»: a pochi giorni dal voto sono quattro i candidati che possono qualificarsi al ballottaggio.

Il fatto è che la frattura sull’Europa sta, inevitabilmente, riorganizzando anche il sistema politico francese.

«Ci sono – scrive Franceso Maselli –  due insegnamenti che possiamo trarre da queste istantanee. Il primo è che il sistema politico che ha retto il paese dal 1958 ad oggi è completamente saltato. Tra i quattro candidati che possono aspirare alla qualificazione al ballottaggio solo uno, François Fillon, è il leader di un partito tradizionale, che tra l’altro ha scalato da outsider; Marine Le Pen rappresenta il partito erede del governo collaborazionista di Vichy, quel Front national considerato fino a pochi anni fa una vergogna nazionale; Emmanuel Macron è un giovane funzionario di 39 anni, ex banchiere, che ha fondato un movimento politico un anno fa con l’esplicito proposito di andare oltre le divisioni tradizionali destra-sinistra; Jean-Luc Mélenchon è il candidato della sinistra radicale, un politico di lungo corso che ha lasciato il partito socialista dopo anni di cocenti e umilianti sconfitte ai congressi interni.Forse non cambierà il sistema istituzionale con cui funziona la Francia, avremo ancora un Presidente della Repubblica eletto a suffragio universale e un Parlamento eletto con un maggioritario a doppio turno, ma il sistema dei partiti che vedremo affermarsi dopo il 7 maggio sarà completamente diverso».

«L’altro insegnamento – prosegue Maselli – tale per la tendenza a considerare i sondaggi come degli oracoli, è che le campagne elettorali servono a modificare le preferenze dei cittadini, a imporre temi all’opinione pubblica. Il modo in cui sono gestiti i mesi precedenti allo scrutinio può far vincere o perdere un’elezione. Affrontare una campagna presidenziale è un esercizio lungo ed estenuante dove nulla è acquisito: ogni voto va conquistato e poi difeso. Esistono favoriti, non esistono vincitori designati».

Dunque, la vittoria di Marine Le Pen non è da escludere. Roger Cohen ha scritto sul New York Times di ritenerla «verosimile se non probabile». «Ritornando in Francia il mese scorso, alle luci di Parigi e alla malinconia della provincia, – racconta il giornalista – sono stato colpito da quanto il partito di Le Pen, la cui ideologia razzista una volta era un tabù, sia ormai parte del mainstream. Il modello prevalente, l’alternanza tra centrosinistra  e centrodestra, sembra defunto. I francesi sono stufi di presidenti socialisti e repubblicani sempre più indistinguibili».

«Marine Le Pen dice di voler portare la Francia fuori dall’euro e restaurare il franco. L’uscita dall’Unione Europea potrebbe poi seguire. Il che costituirebbe una rottura politica ed economica così violenta che persino la vittoria di Donald Trump ed il voto della Gran Bretagna per lasciare l’Unione impallidirebbero a confronto».

Eppure, prosegue il columnist del quotidiano newyorkese, «la sua vittoria potrebbe avvenire all’incirca così. Si qualifica per il secondo turno con circa il 24% dei voti. Macron è il suo avversario con più o meno lo stesso punteggio. I sostenitori più di destra di Fillon migrano verso Le Pen. I supporter del candidato dell’estrema sinistra, Mélenchon, si rifiutano di votare per Macron. Ce l’hanno con il cosiddetto “voto utile” e ritengono che Macron, che va dicendo di essere un progressista, favorirà l capitalismo globale “neoliberale”. Anche alcuni sostenitori di Hamon si rifiuteranno di sostenere Macron. L’astensionismo cresce. Le Pen riesce a superare il 50% dei voti e a diventare presidente. Potrebbe succedere. Solo un pazzo, dopo Brexit e Trump, potrebbe escluderlo».

Anche Francesco Maselli è rimasto colpito dalla conversazione che ha avuto con Didier, commerciante di Lille, ad un comizio di Mélenchon, al quale ha chiesto:“al ballottaggio andrà a votare contro il Front national o si asterrà?”. «L’intervistato, venuto al comizio da solo, prima di rispondere si è guardato intorno, come impaurito che qualcuno potesse sentirlo, e poi ha detto: “guardi che al secondo turno voterei Mélenchon o Marine Le Pen. Il sistema non funziona più, voterò per chi promette di farlo saltare”». E l’inchiesta che la giornalista Anne Nivat ha condotto nella Francia “periferica” dove vive la maggioranza dei francesi (il libro “Dans quelle France on vit”, in che Francia viviamo, è pubblicato da Fayard), spiega bene com’è cambiato il paese.

Roger Cohen, non per caso, conclude: «I francesi vivono meglio di quanto siano disposti ad ammettere ma in uno stato di ansia crescente nutrita dai fallimenti che non sono disposti ad affrontare. Questo è lo sfondo della possibile vittoria di Le Pen. Ed è una prospettiva che fa paura. Le strade francesi potrebbero diventare campi di battaglia. L’insurrezione e un’altra di quelle abitudini francesi che non muoiono facilmente».

Torno perciò sul punto che Sergio Fabbrini ha ripreso sabato scorso: “la frattura politica che conta, da noi come altrove, non è tra onesti e disonesti, ma tra chi vuole ritornare al sovranismo della vecchia moneta nazionale e chi vuole riformare e rafforzare il governo della moneta comune. Invece di seguire i populisti sovranisti sul loro terreno (come insiste incomprensibilmente a fare il Pd di Matteo Renzi), va cambiata l’agenda e le sue priorità. Il futuro dell’Italia non dipende da nuove regole sui vitalizi o sugli avvisi di garanzia, in sé certamente utili, ma dalle riforme necessarie per ridurre il debito pubblico e per portare l’Unione europea fuori dal guado. Dando centralità alla frattura sull’Europa, è possibile aggregare un fronte europeista, vasto perché trasversale, anche in Italia. Se si abbandona il narcisismo delle piccole rivalità, quel fronte potrà assumere le caratteristiche di una vera e propria coalizione riformista di governo, da contrapporre al populismo dei sovranisti, nelle elezioni del prossimo febbraio. La posta in gioco è molto alta. È ora di attrezzarsi per vincerla”.

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