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«Da una prigione turca un messaggio di speranza per il mondo post-pandemia» – Il Riformista, 4 giugno 2020

Ahmet Altan è uno degli autori più noti e popolari della Turchia. I suoi romanzi e i suoi saggi hanno venduto milioni di copie, e sono stati premiati in Turchia e all’estero.

Dal 2006, lo scrittore e giornalista turco che è stato direttore del quotidiano liberal di sinistra «Taraf» (critico nei confronti del presidente Erdogan e ora chiuso), è detenuto per reati di opinione. Ahmed Altan è stato arrestato, con migliaia di altre persone, con l’accusa di aver favorito il fallito colpo di stato del luglio 2016 e nel 2018 è stato condannato all’ergastolo al termine di un processo-farsa (la sentenza è stata poi rovesciata dalla Corte d’appello). Nella sua memoria difensiva, un pamphlet sferzante pubblicato in Italia con il titolo «L’atto di accusa come pornografia giudiziaria» (2017, Edizioni E/O), ridicolizza e demolisce gli argomenti dell’atto di accusa kafkiano del pubblico ministero: un manifesto a favore della libertà d’espressione e della legalità, contro l’idiozia e la violenza del potere.

Lo scrittore, nato ad Ankara nel 1950, è stato scarcerato il 4 novembre 2019 ma, a seguito del ricorso della procura contro la sentenza di scarcerazione, è tornato in carcere il 12 novembre 2019 ed il 7 gennaio 2020 la Corte di appello di Istanbul ha confermato la condanna a ulteriori 5 anni e 11 mesi (che si aggiungono ai 10 anni per una precedente sentenza). Secondo Amnesty International, dietro questa decisione non c’è altro che la volontà di punire ulteriormente una persona determinata a non restare in silenzio e lo scrittore turco è un «prigioniero di coscienza» che deve essere rilasciato immediatamente e incondizionatamente. A nulla però è valsa la mobilitazione internazionale di scrittori e intellettuali. Anzi, sebbene la recente controversa amnistia, votata dal Parlamento turco per svuotare le carceri sovraffollate dopo la crisi provocata dalla pandemia di coronavirus, abbia permesso a circa 90mila carcerati di uscire di prigione, dal provvedimento sono esclusi tutti coloro che sono condannati o anche solo soggetti alla detenzione preventiva per «terrorismo». E così, lo scrittore e giornalista settantenne, uno dei più lucidi e coraggiosi intellettuali turchi, condannato per i presunti legami con il movimento gulenista, è rimasto dentro.

Qualche giorno fa, Ahmet Altan ha scritto sul Washington Post che a settant’anni, «in un penitenziario dove i casi di Covid-19 si stanno diffondendo rapidamente», aspetta il virus nella sua cella. Eppure, dalla prigionia, scrive: «Vorrei dirvi una cosa: non arrendetevi alla disperazione». Rinchiuso in una prigione turca, Altan riesce a trovare motivi di speranza per il futuro del mondo, dato che «Così vanno le cose in questo strano pianeta. Migliori condizioni si raggiungono solo con le catastrofi. Feriti dalla guerra e dalla pandemia, facciamo progressi». «Questa sciagura ci ha rivelato molte verità che avevamo a lungo ignorato» e ci ha anche dato «indicazioni» preziose. Altan ritiene che la pandemia ci abbia mostrato «che quelle costruzioni chiamate ‘Stati’ non servono a nulla. L’intera struttura degli stati è chiaramente superata» e prevede che «in un futuro non così lontano il mondo diventerà una federazione di città-stato». La pandemia, secondo Altan, è stata anche «la prova generale» di un cambiamento di portata storica: «Grazie ad Internet, il contributo intellettuale delle persone alla produzione è cresciuto mentre dal punto di vista fisico il loro ruolo è diminuito in modo significativo». Nel XXI secolo, le persone «non si limiteranno al lavoro fisico». E abbiamo compreso «l’inevitabilità del cambiamento» proprio mentre stavamo vivendo questa esperienza, scoprendo così «un nuovo ordine economico». Abbiamo compreso, inoltre, un’altra verità: «la bravura nel vincere le elezioni e la capacità di guidare una società sono attitudini molto diverse tra loro e in conflitto l’una con l’altra. Le elezioni sono spesso vinte da chi racconta più frottole e suona la musica motivazionale più forte. Ma quelle stesse persone non sono poi in grado di esercitare una leadership responsabile». E gli esempi, ovviamente, non ci mancano. Anche la condivisione delle esperienze diventerà un tratto prevalente, scrive Ahmed Altan, dato che il Covid-19 dimostra che «se non si salva un lavoratore del mercato del pesce in Cina, non si salva il Primo Ministro della Gran Bretagna». Il che potrebbe portare ad un altro grande cambiamento: «se vuoi proteggere te stesso, devi proteggere gli altri». La gente ha compreso forse per la prima volta così chiaramente che fa parte di «un grande flusso chiamato umanità». Che ciascuna di queste specifiche previsioni si riveli vera oppure no, poco importa. Quel che più conta, scrive Altan, è che il Covid-19 segnerà un progresso verso una società diversa, più avanzata: «Credo che XXI secolo comincerà quando la pandemia sarà finita», scrive. «Per un po’ ci potrà sembrare di scivolare all’indietro, ma non durerà a lungo». E guardando la crisi del coronavirus da una prigione turca, si dice fiducioso, poiché «il virus non abbatte soltanto i vecchi come me, ma ogni genere di vecchie concezioni, credenze ed idee. Stiamo attraversando dolorosamente la soglia di un nuovo mondo e, quel che più conta, di un nuovo genere di essere umano». «Non sono ottimista per me ma per l’umanità di cui faccio parte», scrive Ahmed Altan. Un soldato della speranza, direbbe Giuseppe Ungaretti.
Alessandro Maran

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