Il G-7 è un’organizzazione intergovernativa che comprende sette delle prime dieci economie del mondo: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America. Si tratta di un ristretto club nato nel 1975 e formato da sette democrazie avanzate il cui peso politico, economico, industriale e militare è (o meglio, era) considerato di centrale importanza su scala globale. Ma che cosa fa veramente? Non molto, secondo l’ex diplomatico indiano Jayant Prasad che ha scritto un saggio sul «disfacimento del gruppo dei sette» apparso su The Hindu qualche giorno fa.
Dopo che la cancelliera tedesca Angela Merkel ha annunciato che non avrebbe partecipato al summit di quest’anno a causa delle restrizioni imposte dal Covid-19, il presidente degli Stati Uniti è stato costretto a rinviare il vertice dei sette grandi che voleva tenere a fine giugno alla Casa Bianca. Sembra che Trump voglia organizzare il vertice a settembre, ma a questo punto, potrebbe persino slittare a dopo le elezioni presidenziali americane di novembre.
Secondo Prasad, dopotutto non si tratta di una cattiva notizia, considerato che queste riunioni, almeno negli ultimi tempi, «hanno avuto esiti discontinui». Il G-7 non è riuscito a scongiurare la crisi finanziaria del 2008, il che ha portato alla creazione del più ampio G-20 che, nel breve arco della sua esistenza, si è rivelato più dinamico e ha ristabilito un certo grado di fiducia, promuovendo l’apertura dei mercati e scongiurando il crollo del sistema finanziario globale. Il G-7 non si è coperto di gloria neppure in relazione ai temi di attualità come la pandemia da Covid-19, il cambiamento climatico, la sfida del Daesh e la crisi derivante dal collasso dello stato in Asia occidentale.
Lo stesso Trump ha dichiarato che, in ogni caso, il G-7 è un gruppo di paesi «superato» che «non rappresentano più adeguatamente quel che accade nel mondo». E si è chiesto, retoricamente: «Perché non un G-10 o un G-11, con l’inclusione dell’India, della Corea del Sud, dell’Australia e possibilmente della Russia?» (la Russia è sospesa dal G-7 dal 2014, dopo la guerra di annessione condotta da Putin in Crimea).
Anche Prasad sostiene, tuttavia, che sarebbe saggio allargare il club. Quando nei primi anni ’70 venne costituito il gruppo, i paesi del G-7 rappresentavano i due terzi del Pil globale. Ora, stando al rapporto del 2017 di PwC, «The World in 2050», rappresentano meno di un terzo del Pil mondiale, mentre le sette economie emergenti (E-7 o «Emerging 7») che comprendono il Brasile, la Cina, l’India, l’Indonesia, il Messico, la Russia e la Turchia, ne rappresentano più di un terzo. Quella dell’India è già la terza economia più grande del mondo (anche se molto indietro rispetto all’economia americana e a quella cinese). E il rapporto prevede che nel 2050, le prime dieci economie più performanti saranno, nell’ordine, la Cina, l’India, gli Stati Uniti, l’Indonesia, il Brasile, la Russia, il Messico, il Giappone, la Germania e il Regno Unito. Prased sostiene perciò che un raggruppamento che comprenda questi paesi più la Francia, la Turchia, la Corea del Sud e l’Australia, sarebbe senz’altro una soluzione migliore dell’attuale G-7.
«Il mondo è in uno stato di disordine. L’economia globale è bloccata e il Covid- 19 creerà inevitabilmente sofferenze diffuse. I paesi hanno bisogno di destrezza e resilienza per fronteggiare il cambiamento continuo attuale e anche di un revival del multilateralismo, poiché hanno cercato soluzioni nazionali per problemi che sono irrisolvibili sul piano interno. Le istituzioni internazionali esistenti si sono dimostrate non all’altezza del compito». Perciò, conclude Prasad, «un nuovo meccanismo potrebbe essere d’aiuto per mitigarli».
Su Foreign Policy, Erik Brattberg e Ben Judah sostengono un’idea simile, anche perché il gruppo dei sette, con Trump al timone, non era destinato comunque a combinare granché (tanto che per i leader mondiali è stato facile prendere il largo). Ma, secondo Brattberg e Judah, il momento sarebbe propizio per creare un summit delle democrazie.
L’idea di un D-10 delle principali democrazie (l’attuale G-7, Italia compresa, più la Corea del Sud, l’India e l’Australia) non è nuova. Il think tank americano Atlantic Council la promuove da anni, ma dopo la pandemia da coronavirus ha acquistato nuovo slancio. Si tratterebbe, infatti, di gruppo che non includerebbe la Cina e potrebbe concentrarsi su questioni spinose, dalla tecnologia 5G alle supply chain. Brattberg e Judah vedono la cosa come anche un modo per consentire alla Gran Bretagna, nonostante la Brexit, di ricavarsi un ruolo di «cerniera». Ma che gli alleati e i partner transatlantici e transpacifici si tengano per mano in un periodo in cui cresce la competizione tra le grandi potenze, di per sé, non è una idea strampalata; e un D-10 in grado di concentrarsi rapidamente su questioni cruciali (e limitate), e non un altra fabbrica di parole, potrebbe essere d’aiuto e rendere più difficile per Washington portare avanti un approccio unilaterale nei confronti della Cina. In fondo, scrivono Brattberg e Judah, potrebbe essere un modo per aggiornare la celebre massima (del 1949) di Hasting Ismay, secondo la quale la Nato serviva a «tenere i russi fuori, gli americani dentro e i tedeschi sotto». Nel mondo del 5G e delle supply chain fragilissime, un summit delle democrazie potrebbe servire, nei turbolenti anni che verranno, a «tenere a bada i cinesi, vicini gli indiani e tranquilli gli americani».