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TORNARE ALLA LIRA?

Senato della Repubblica

Resoconto stenografico 8 luglio 2015

Deliberazione sulla richiesta di dichiarazione d’urgenza, ai sensi dell’articolo 77 del Regolamento, in ordine al disegno di legge costituzionale: Indizione di un referendum di indirizzo sull’adozione di una nuova moneta nell’ordinamento nazionale in sostituzione dell’euro.

MARAN (PD). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAN (PD). Signor Presidente, colleghi, voteremo contro questa proposta, e vado alla sostanza. Il referendum per chiedere l’opinione ai cittadini sull’uscita dalla moneta unica era uno dei punti del programma elettorale del Movimento 5 Stelle per le europee del 2014, senza particolare successo allora, e oggi rispolverato in occasione della tragedia greca; da qui un carattere evidentemente pretestuoso.

Voteremo contro… (Commenti del senatore Crimi). Dico quello che mi pare! (Commenti dal Gruppo M5S). Signor Presidente, mi consenta di terminare l’intervento, anzi di iniziarlo, visto che ho ascoltato diligentemente gli altri colleghi.

PRESIDENTE. Colleghi, lasciamo parlare il collega Maran.

MARAN (PD). Dico che voteremo contro, anche se noi non ci nascondiamo le difficoltà e il fatto che, all’indomani del referendum greco, lo scenario sia preoccupante. La tragedia greca è diventata una noiosa partita di poker, con tanto di apertura al buio, bluff, controbluff; e  ammesso che anche questa volta si riesca ad evitare la Grexit, il rischio è che si tratti dell’ennesima soluzione di basso profilo, magari per ritrovarsi tra qualche tempo nella stessa situazione. Il Regno Unito è incamminato sulla strada della «Brexit» e, vista l’ideologia del nuovo Premier polacco, diventa possibile anche l’uscita della Polonia, che doveva essere il prossimo candidato per l’annessione alla moneta unica e la principale testimonial dei successi europei, come la Spagna di Mariano Rajoy, dove l’affermazione di Podemos la dice lunga sulla popolarità delle politiche economiche imposte dall’Europa, indipendentemente anche dai relativi successi economici.

Non ci nascondiamo che l’Europa nel suo complesso e` ancora immersa nei postumi di una crisi finanziaria, di origine americana, ma che gli Stati Uniti sembrano ormai essersi lasciati alla spalle da un pezzo. Per non parlare dell’incapacità di formulare una strategia comune in termini di politica estera o di energia, che pure dovrebbero rappresentare interessi europei comuni.

Certo che ci sono difficoltà e problemi che noi non ci nascondiamo, ma continuiamo a pensare che le ragioni a favore dell’Unione europea siano oggi persino più forti di ieri. Con il ribaltamento delle fonti di crescita mondiale e il successo di grandi Nazioni, come la Cina, l’India o gli Stati Uniti, un’Europa frantumata in tanti piccoli Paesi non  avrebbe nessuna chance.

Viviamo, in tutti i Paesi europei, una fase storica di drammatiche sfide esterne. Tutto cambia intorno a noi. I cambiamenti strutturali stanno rimodellando non solo la politica italiana, ma il vasto mondo. Quando gli storici, tra cent’anni, guarderanno ai primi anni di questo secolo, l’evento più rilevante probabilmente non sarà la crisi finanziaria che attanaglia da anni il mondo occidentale. La storia più importante sarà quella che gli americani chiamano the rise of the rest: l’ascesa dei resto del mondo, la crescita, il risveglio di Paesi come la Cina, l’India, il Brasile, la Russia, il Sudafrica, il Messico, l’Arabia Saudita, la Turchia e potrei continuare nell’elenco. E`la più grande uscita di massa dalla povertà nella storia del mondo. Qui ha origine gran parte dei nostri problemi.

Trent’anni fa, quando una Regione come la mia era alle prese con la ricostruzione del Friuli terremotato, una città come Shenzhen non esisteva ancora; oggi ha quasi 9 milioni di abitanti, più o meno la popolazione dei cinque distretti di New York, e molti dei suoi residenti sono nati in campagna, nella miseria, e oggi hanno un tenore di vita grossomodo equivalente a quello di Brooklyn. In una sola generazione, un villaggio di pescatori e` diventato il quarto porto al mondo, che movimenta, da solo, più di quanto riescono a fare insieme Los Angeles e Long Beach, i due maggiori porti americani. Nel giro di soli trent’anni, circa 300 milioni dI cinesi sono passati dalla miseria più nera a standard economici capaci di reggere il confronto con quelli occidentali: un’impresa senza precedenti nella storia mondiale.

Si tratta di una crescita che è più visibile in Asia, ma non e` confinata all’Asia: più dı trenta Paesi africani (due terzi del Continente) sono cresciuti negli anni recenti ad un tasso superiore al 4 per cento annuo. E`ovvio che il sistema internazionale costruito dopo la seconda guerra mondiale sia diventato praticamente irriconoscibile a fronte a questo enormecambiamento.

Non è scritto da nessuna parte però che il declino, la decadenza, un destino di minor potere regionale e globale, sia un esito inevitabile per l’Europa e per il nostro Paese. La tecnologia, il ruolo dell’immigrazione, i miglioramenti nella sanità pubblica, norme che  incoraggino una partecipazione più grande delle donne nell’economia, sono solo alcune delle misure che potrebbero cambiare la traiettoria delle tendenze attuali, e sarà cruciale ancora una volta circa gli esiti il ruolo della leadership, perché i leader e le loro idee contano, ma salta agli occhi che il nostro futuro è necessariamente legato a quello dei nostri partner europei. E si tratta di cogliere fino in fondo la lezione della crisi dell’eurozona in quanto conseguenza dell’incompiutezza e contraddittorietà del cammino seguito dall’Unione dopo Maastricht. Quel che occorre non è solo una politica monetaria, ma è una politica fiscale, di bilancio e macroeconomica effettivamente europea. Insomma, è verso un’Europa più federale, più integrata, più forte nella sua capacità di parlare ed agire all’unisono che è inevitabile e, noi riteniamo, indispensabile muoversi. Noi vogliamo andare avanti e non tornare indietro.

Le cose che dovrebbe fare l’Europa sono piuttosto evidenti. Approfittando anche del referendum britannico, per l’Unione europea va trovata una nuova forma di convivenza fra Paesi che sono interessati soltanto ad un’area di libero scambio e chi vuole invece una maggiore integrazione, tanto da condividere la moneta. L’attuale modello istituzionale, con tutti i parlamentari europei che votano su politiche che interessano solo una parte, cioè i Paesi dell’euro, non ha senso. Non funziona un’unione monetaria basata su complicatissime regole che nessuno capisce, affidate per la gestione ad un organismo presumibilmente tecnico, come la Commissione, ma che in realtà decide in modo discrezionale. Per tenere assieme l’area monetaria ci vuole senz’altro maggiore  convergenza, maggiore cessione di sovranità. Lo ripetiamo: maggiore cessione di sovranità. Ma questa deve essere accompagnata da un rafforzamento della legittimità democratica dei centri decisionali europei e da meccanismi solidaristici e di distribuzione del rischio tra i Paesi membri. Ciò significa rafforzare il Parlamento europeo rispetto al Consiglio e alla Commissione sulla gestione del bilancio e sulla politica economica europea, ma significa prevedere anche che figure apicali della governance europea, tipo il Presidente dell’Unione, siano elette direttamente da tutti i cittadini europei, non soltanto da una parte. Non è un caso che lo stesso Draghi non perda occasione per dire che la politica monetaria è di per sé insufficiente.

E`di questo che noi dovremmo discutere e parlare. Ma l’impressione è che piuttosto che affrontare un difficile dibattito tra se stessi e con le proprie opinioni pubbliche, i Governi europei e molti dei partiti europei preferiscano non far nulla e cullarsi nell’illusione che la nuova politica monetaria della BCE li tenga fuori dai guai. Ma la scelta dell’Europa e della Grecia non è quella fra euro e dracma e la scelta dell’Italia non è quella fra euro e lira, fra democrazia e autocrazia, quanto tra piccoli sacrifici distribuiti fra tutti i Paesi europei ed enormi sacrifici per il popolo greco oggi e per noi domani.

Voglio ricordare un bel libro pubblicato negli ultimi anni, in occasione del centenario della Prima guerra mondiale: «I sonnambuli», di Christopher Clark, che si concentra sull’analisi delle ragioni che hanno condotto allora la guerra. Quel che più colpisce nell’analisi di Clark è che nemmeno gli statisti capirono perchè entrarono in guerra. Ognuno di loro, tedeschi compresi, si sentiva attaccato e riteneva di combattere una guerra puramente difensiva. Emerge un quadro sconcertante di statisti prigionieri delle loro paranoie, che si divertono a bluffare e a giocare continuamente al rialzo, nella speranza che l’avversario non reagisca. Anche allora ognuno degli Stati aveva qualche valida ragione e, nel contempo, tutti hanno avuto torto nel non essere riusciti a trovare una soluzione pacifica alla crisi determinata dall’attentato di Sarajevo. Come allora, a trascinarci in basso non sono soltanto i Governi (non lo furono allora, come oggi), ma anche la politica, la cultura politica comune, l’orgoglio, il nazionalismo, le cose di cui abbiamo sentito parlare poco fa. Anche i popoli barcollano sperduti, spesso disinformati, impauriti, fantasticando recinti nazionali eretti contro l’economia mondo; credono di contestare i Governi, ma ne sono in realtà i complici, condotti e come sempre guidati da qualche imbroglione disposto a gettare il pitale su Montecitorio e disposto a invocare le radiose giornate.

Non per caso, uno degli architetti della moneta unica come Helmut Kohl ha ribadito, all’inizio della crisi greca, che l’euro nientemeno ha a che fare con la possibilità di impedire la guerra. Gli spiriti malvagi del passato non sono stati messi al bando una volta per tutte, ma possono sempre tornare. Il che significa che l’Europa resta una questione di guerra e di pace e che l’aspirazione alla pace rimane la forza motrice dell’integrazione europea. «L’Europa e` il nostro futuro» – ha insistito Kohl – «Non c’e` alternativa all’Europa e abbiamo tutte le ragioni per essere fiduciosi che la nostra Europa uscirà rafforzata dalla crisi attuale, se lo vogliamo». Ed ha aggiunto: «Non facciamoci fuorviare».Anche per questo noi voteremo contro, per non farci fuorviare. Non vogliamo farci fuorviare, ma vogliamo andare avanti e non tornare indietro. (Applausi dal Gruppo PD e dei senatori Marino Luigi e Bencini).

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