Torno, all’indomani del primo dibattito presidenziale (nel quale, sotto ogni punto di vista, Hillary Clinton ha sbaragliato Donald Trump), sul discorso (l’ultimo) che il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha tenuto, la scorsa settimana, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York.
Ci torno per diverse ragioni. È stato, anzitutto, uno dei suoi discorsi migliori sulla politica mondiale. Inoltre, come sappiamo, l’8 novembre negli Stati Uniti si sceglierà il suo successore. Ma le scelte che stanno di fronte agli Stati Uniti non sono diverse dalle scelte che stanno di fronte al mondo. A tutti noi. Come ha detto Obama, «tutti noi affrontiamo una scelta in questo momento. Possiamo scegliere di proseguire con un modello migliore di cooperazione e di integrazione. O ci possiamo ritirare in un mondo diviso nettamente e alla fine in conflitto lungo le linee annose della nazione e della tribù e della razza e della religione. E vi dico oggi che dobbiamo andare avanti e non tornare indietro». Torno, infine, sul discorso del presidente Obama perché fare le scelte sbagliate – o non avere neppure riconosciuto la natura delle scelte che stanno di fronte a noi – può avere conseguenze catastrofiche.
Dicevo, appunto, che quello del presidente Obama di martedì scorso, all’assemblea generale delle Nazioni Unite, è stato uno dei suoi discorsi migliori sulla politica mondiale. E la sua importanza sta proprio nella consapevolezza che sia le tendenze più incoraggianti sia quelle più preoccupanti dell’ultimo quarto di secolo scaturiscono dalla stessa fonte.
L’integrazione economica globale, ha rilevato Obama, ha migliorato la vita di miliardi di persone; l’incidenza della povertà estrema si è ridotta da oltre il 40% della popolazione a meno del 10%; Internet ha messo la totalità della conoscenza umana nelle mani di chiunque abbia accesso ad un computer o ad uno smartphone; il crollo del colonialismo e del comunismo ha raddoppiato il numero delle democrazie, consentendo ad altri milioni di persone di scegliere i propri leader.
Eppure, al tempo stesso, la rapida crescita economica ha approfondito le diseguaglianze. Il divario tra ricchi e poveri non è certo una novità, ma oggi la tecnologia permette di «vedere» come vivono i più fortunati tra di noi ed il contrasto tra le loro vite e quelle degli altri. Il che accresce le aspettative ad «un ritmo così rapido che i governi non sono in grado di soddisfare» e «un senso di ingiustizia dilagante mina la fiducia della gente nel sistema». E mentre i governi sono «male equipaggiati» per gestire queste domande, visioni alternative di ordine si fanno avanti: «fondamentalismo, tribalismo, nazionalismo aggressivo e rozzo populismo».
Fred Kaplan ci ha ricordato, su Slate, che da tempo gli storici hanno riconosciuto questa dinamica. Crane Briton, nel suo «The Anatomy of Revolution» del 1938, l’ha definita «la rivoluzione delle aspettative crescenti». Il che spiega perché le persone le cui vite di recente sono migliorate moltissimo si stanno improvvisamente ribellando. Ma si tratta di una matassa difficile da sbrogliare. Per questo l’intervento di Obama è così insolito e coraggioso.
La pace, sostiene insomma il presidente americano, non deriva semplicemente dall’aumento della ricchezza (che aiuta, ovviamente, ma acutizza anche i contrasti interni), conta anche la sua diffusione. Per questo, ha rivendicato Obama, gli Stati Uniti hanno lavorato con altre nazioni «per mettere un freno agli eccessi del capitalismo». Non per «condannare la ricchezza», ha precisato, «ma per prevenire il ripetersi di crisi che la possono distruggere», poiché, ha aggiunto, «una società che pretende meno dagli oligarchi che dai cittadini comuni si decompone dall’interno». E vale anche per il divario tra paesi ricchi e paesi poveri; un gap che «i paesi ricchi devono fare di più per colmare». Per questo, ha detto, «abbiamo lavorato per raggiungere intese commerciali che alzassero gli standard del lavoro e quelli ambientali, come abbiamo fatto con la Trans-Pacific Partnership, in modo che i vantaggi siano condivisi in modo più ampio». Certo che, ha riconosciuto il presidente americano, è arduo politicamente (non per caso, all’inizio del primo dibattito presidenziale il candidato repubblicano ha messo Hillary Clinton in difficoltà proprio sulle intese commerciali). Ed è difficile spendere in aiuti internazionali. Ma non si tratta di carità, è nel nostro interesse.
Non ci sono, confessa Obama, «risposte facili». Sebbene l’integrazione globale generi inevitabilmente uno «scontro di culture», ha invitato i suoi colleghi a respingere fondamentalismo e razzismo, a propugnare un orgoglio etnico che non implichi il dominio di una parte e a sperimentare insieme libero mercato e società civile (anziché ammettere solo il primo senza quest’ultima, come avviene in Cina).
Ha convenuto che «la storia ci racconta oggi una realtà diversa» da quella che vorremmo. C’è «una visione della storia più cupa e più cinica» nella quale gli uomini «sono motivati dall’avidità e dal potere», i grandi paesi calpestano quelli più piccoli, e le tribù o gli Stati nazione definiscono se stessi non solo in rapporto alle idee che li uniscono ma, più ancora, «da quello che odiano». Molte volte nella storia, ha detto, gli uomini hanno pensato di essere giunti all’età della Ragione, «solo per ripetere fasi di conflitto e di sofferenza» e «forse è questo il nostro destino». Ma, ha proseguito, «le scelte degli individui» che ci hanno condotto alle guerre mondiali, ci hanno condotto anche alle Nazioni Unite, che sono state create proprio per prevenire queste guerre. «Ognuno di noi come leader, ogni nazione, può scegliere di respingere quanti fanno appello ai nostri impulsi peggiori e sostenere quanti incoraggiano i nostri impulsi migliori», ha detto Obama. «Poiché abbiamo dato prova di poter scegliere una realtà migliore.»
Obama non ha ignorato la scelta che sta oggi di fronte ai cittadini americani. Non basta un muro per impedire che l’estremismo condizioni le nostre società: il mondo è troppo piccolo. Ed ha aggiunto: «una comunità circondata da mura finirebbe solo con l’imprigionare se stessa». Ma, appunto, le scelte che affrontano gli Stati Uniti non sono diverse da quelle che stanno di fronte al mondo intero. E si tratta, anzitutto, di riconoscere la natura delle scelte da compiere.