Category : GIORNALI2005

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Notizie Novice, N. 1 – Gennaio 2005 – Non basta essere ad un metro dal confine

I ritardi dell’ Isontino nel costruire una efficace presenza economica oltreconfine.

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Messaggero Veneto, 3 gennaio 2005 – Il declino italiano

La competitività dell’economia italiana dentro lo scenario europeo. Ritardi ed errori nelle scelte industriali.

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Notizie Novice, N. 2 – Febbraio 2005 – Riflessioni sulla Giornata del Ricordo

Il centrodestra istituisce la Giornata del Ricordo cercando di leggere e interpretare separatamente le complesse vicende storiche al confine Orientale.

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Il Piccolo, 8 febbraio 2005 – Non soltanto le foibe

L’istituzione della “Giornata della memoria”. Un occasione per capire e ricostruire la complessità delle vicende storico a cavallo del confine Orientale.

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Il Piccolo, 30 aprile 2005 – Antifascismo, base della nuova Europa

Le aspirazioni che sono state alla base della lotta al nazifascismo sono ancora il solido fondamento della democrazia in Europa.

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Notizie Novice, N. 3 – Giugno 2005 – Assegnare alla Regione il coordinamento delle iniziative transfrontaliere tra gli enti locali di Italia, Austria e Slovenia

Una ragionevole strada per affrontare concretamente la cooperazione transfrontaliera con Austria e Slovenia.

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Messaggero Veneto, 24 giugno 2005 – La scelta riformista

Titubanze ed errori dei riformisti condizionano credibilità e prospettive del centrosinistra.

LA SCELTA RIFORMISTA

La vecchia collocazione strategica dell’Italia che altri decisero per noi nel dopoguerra è in via di superamento e quella nuova non ce la darà nessuno: ce la conquisteremo solo se saremo capaci di ricollocare il paese nel mondo nuovo delle sfide globali. E’ qui, come va ripetendo Enrico Morando, che si gioca la battaglia tra riformisti e conservatori: tra quanti intendono reagire al declino e quanti, cercando di difendere i vecchi equilibri, finiscono per assecondarlo. Perché la riforma dell’Italia (cioè la sua ricollocazione) sconvolge posizioni consolidate.
Essa premia gli interessi di alcuni e colpisce quelli di altri. Favorisce, per esempio, tra le imprese quelle esposte alla competizione internazionale; tra i lavoratori, quelli a più alta produttività; tra gli orientamenti culturali, quelli che sollecitano l’apertura (per esempio, verso l’immigrazione) piuttosto che le chiusure e la paura.
Se si vuole, dunque, costruire uno schieramento che sappia non solo vincere le elezioni, ma governare il paese, cioè guidarlo in quello sforzo di ricollocazione che è condizione per evitare il declino (l’Italia ha perso il 30% della sua quota di commercio mondiale in otto anni), allora bisogna superare la debolezza dei soggetti politici del centro-sinistra sulla quale in molti, nel recente passato, hanno fatto leva per bloccare i tentativi riformisti: incompiuto il processo di riforma costituzionale, col fallimento della Bicamerale; incompiuto il processo di liberalizzazione, con troppi monopoli e oligopoli privati al posto di quelli pubblici, ecc.
Naturalmente, è facile sottolineare la distanza tra le discussioni sull’architettura politica (la lista unitaria, la Fed, l’Unione) e i problemi della gente. Ma se i problemi della gente (il salario che non basta ad arrivare a fine mese o l’incertezza sul futuro) sono gli effetti della mancata riforma del paese, allora il progetto di ricollocazione dell’Italia nel nuovo contesto internazionale ha a che fare tanto con le scelte necessarie per rimuovere le cause strutturali della crisi (lo spiazzamento della specializzazione produttiva; l’insufficiente dimensione aziendale; le infrastrutture materiali e immateriali, formazione, vecchie e carenti; il sistema politico e istituzionale debole e screditato; ecc.) quanto con la costruzione del soggetto politico unitario capace di dare alla più ampia alleanza di centro-sinistra il leader, la sostanza del consenso elettorale e l’ispirazione di fondo del programma di governo. Certo che la gente al bar, in famiglia o nel luogo di lavoro non discute di contenitori. Discute di lavoro, di salario, di servizi pubblici che non funzionano, di risparmio bruciato dai bond argentini o da quelli Cirio-Parmalat. Ma anche nella testa della gente contenuto e contenitore stanno assieme perché la domanda che invariabilmente conclude questi discorsi va al cuore della crisi del centro-sinistra: «D’accordo, questi non ce la fanno a governare. Ma se vincono Prodi e i suoi saranno capaci di stare assieme? O faranno come nel ’98?».
L’idea della Federazione dell’Ulivo (e, in prospettiva, la strada della fusione in salsa liberale dei riformismi che la nostra storia ci consegna, in particolare, di quelli cattolici e socialisti) nasceva dall’esigenza di rispondere a questa domanda. Ora si torna a parlare di «divisione del lavoro» tra Ds e Margherita (come se la conquista del voto moderato potesse essere delegata a uno solo dei partiti della coalizione e non al profilo complessivo dell’alleanza); della centralità dell’Unione (quel che conta, si dice, è aggregare tutte le forze di opposizione attorno al leader, poi si vedrà); di lista «del presidente». Ma come si fa a non vedere l’enorme distanza che separa ognuna di queste ipotesi di ristrutturazione del centro-sinistra dalle esigenze del paese?
L’errore (anzitutto di Prodi) è stato quello di aver riproposto il tema della lista unitaria senza aver mai fatto vivere (nel concreto delle scelte: l’Iraq, la riforma costituzionale, la politica economica) la Federazione dell’Ulivo come autonomo soggetto politico. Vale a dire autonomo dall’Unione, per poterne costituire credibilmente l’asse riformista; autonomo dai partiti, per metterne a frutto le energie senza ereditarne anche i limiti strutturali; autonomo da Prodi perché destinato a esistere e a svilupparsi molto oltre la sua stessa leadership. La Federazione doveva essere la sede per discutere e decidere la piattaforma dei riformisti. Come ha fatto Rifondazione comunista, che al congresso ha definito le sue proposte per il paese. Ma dalla Federazione, a distanza di un anno, non è venuto nulla. E se la Federazione non c’è, se la lista unitaria alle politiche non è parte di un progetto volto a dare all’Italia quello che non ha mai avuto, un grande partito riformista, se la lista unica è solo una tattica elettorale o al massimo una premessa, allora perché farne un motivo di lacerazione?
Ora che le cose si sono riaggiustate col ‘patto di via Margutta”, il nodo da sciogliere rimane lo stesso: dov’è la sede di elaborazione e di decisione dei riformisti? E proprio i settori della Margherita più attenti al profilo di centro-sinistra della coalizione e preoccupati di un condizionamento radicale dovrebbero riflettere sul fatto che arrendersi alla divisione dei riformisti rischia di portare proprio all’esito che si vuole evitare. Senza contare che l’autosufficienza della Margherita dovrebbe essere motivata non dalla politologia (il partito che cattura i voti di centro in fuga da Forza Italia), ma dall’egemonia nella proposta per fare uscire il paese dalla crisi strutturale che lo travaglia. Posso sbagliare, ma ho l’impressione che sia un’impresa al di fuori della portata della Margherita, almeno quanto lo è dei Ds. Infatti, il rischio insito nella divisione del lavoro è che il lavoro che bisognerebbe fare finisce che non lo fa nessuno. Se poi le primarie si concedono a Prodi come contentino perché non si vuole costruire una Federazione vera, allora sono solo un regalo a Bertinotti. È come capo dello schieramento dei riformisti liberali, come capo della Federazione, largamente maggioritaria nel centro-sinistra, che Prodi dovrebbe essere candidato premier, non come una specie di arbitro che i centristi e la sinistra più radicale accettano e che poi deve in ogni occasione ricercare il sostegno degli uni e degli altri. Se la Federazione dell’Ulivo, il perno dell’alleanza, non è una cosa seria e Prodi non ne è il capo riconosciuto, come si fa a dare sicurezza e insieme a convincere gli italiani che molti cambiamenti sono necessari, perché i guai dell’Italia sono guai seri? Il progetto della Federazione (cioè l’unità dei riformisti) è difficile, ma c’è davvero chi pensa che basti Prodi o basti far leva sulle punte alte delle istituzioni, sui sindaci e sui presidenti in questi giorni in pellegrinaggio dal Professore, come cantava Vasco Rossi (e com’è naturale), «ognuno in fondo perso dietro ai fatti suoi»?
Deputato Ds-L’Ulivo

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Il Piccolo, 29 settembre 2005 – Illy, più coraggio sulle riforme

Colpisce, nella politica riformatrice della giunta di centrosinistra, una certa timidezza in contrasto con le riflessioni che ne avevano accompagnato la nascita e con le attese diffuse nella società regionale.

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Messaggero Veneto, 7 ottobre 2005 – Scorciatoia pericolosa

Cambiare, con un colpo di mano, la legge elettorale alla vigilia delle elezioni politiche è grave, deprecabile e pericoloso.

SCORCIATOIA PERICOLOSA

Cambiare, con un colpo di mano, le regole del gioco (la legge elettorale) quando la partita si è già iniziata (alla vigilia delle elezioni politiche) sarebbe una cosa grave, deprecabile e pericolosa. In primo luogo, perché in questo modo si contraddirebbe la volontà popolare. Non sarebbe male, infatti, ricordare che fu il pronunciamento popolare, furono due distinti referendum a imporre, in Italia, il passaggio dal proporzionale al maggioritario. E gli obiettivi dei due referendum erano proprio quelli di garantire agli elettori il diritto di scegliere direttamente il governo.
Di garantire il diritto di eleggere i propri rappresentanti in modo più vicino e trasparente, prima riducendo i voti di preferenza per poi superarli col collegio uninominale.
In secondo luogo, perché gli attuali sistemi elettorali per la Camera e il Senato, pur con i loro difetti, hanno favorito la nascita e il consolidamento di un sistema politico più competitivo. In particolare hanno consentito di conseguire tre obiettivi importanti.
Il primo è il bipolarismo. Oggi la competizione elettorale è saldamente strutturata su due coalizioni pre-elettorali. L’Ulivo e la Casa delle libertà, nonostante la presenza di numerosi terzi poli, raccolgono di gran lunga la maggioranza dei voti e dei seggi. I partiti sono ancora tanti, ma il sistema elettorale li ha costretti inesorabilmente a entrare nell’una o nell’altra coalizione. E in questo modo la frammentazione è stata imbrigliata in un formato bipolare.
Il secondo merito di questo sistema elettorale sta nella sua capacità di produrre una maggioranza di seggi al momento del voto. In altre parole, sono i cittadini con il loro voto a decidere governo e maggioranza parlamentare e la decisione non è rinviata alle trattative fra i partiti dopo il voto.
Il terzo risultato importante è l’indicazione del capo del governo. Con questo sistema elettorale i cittadini decidono non solo quale coalizione avrà la maggioranza dei seggi in Parlamento, ma anche chi sarà il presidente del consiglio. Certo, sul piano formale non si tratta di una vera e propria elezione diretta, ma nella pratica è così. E questo accade perché vengono soddisfatte alcune condizioni: l’indicazione del candidato premier da parte delle coalizioni in competizione; il conseguimento, da parte di una delle coalizioni in competizione, di una maggioranza assoluta dei seggi; la nomina a presidente del candidato premier della coalizione vincente.
Perché, allora, si vuole cambiare? Si dice che questo sistema elettorale abbia favorito la frammentazione. Ma non è vero. È certamente vero che il nostro sistema politico è troppo frammentato: siamo la democrazia più frammentata fra quelle dell’Europa occidentale dopo il Belgio. Però la crescita della frammentazione precede l’introduzione dei nuovi sistemi elettorali. La causa della crescita della frammentazione (che i nuovi sistemi elettorali hanno consentito di imbrigliare in un formato bipolare) è la destrutturazione del sistema dei partiti della prima repubblica.
Si dice, inoltre, che i nuovi sistemi elettorali favoriscano la formazione di coalizioni eterogenee e quindi di governi instabili. Ma l’eterogeneità delle coalizioni dipende anzitutto dall’eccessiva frammentazione del sistema dei partiti. Ed è accentuata dal mancato riconoscimento reciproco tra i poli, che, pur di prevalere nella competizione elettorale, sono ‘costretti” a formare coalizioni acchiappatutto. Ma di questo il sistema elettorale non è responsabile. Senza contare che se si tornasse alla formazione di coalizioni di centro, forse queste potrebbero rivelarsi meno eterogenee ma non necessariamente più stabili e meno rissose. L’enorme debito pubblico che ci sovrasta (e che venne accumulato quando il bipolarismo non esisteva) è, del resto, la misura contabile di un malgoverno che aveva raggiunto livelli parossistici.
Le vere ragioni della proposta di riforma elettorale della Casa delle libertà sono più semplici. La Cdl prende più voti nell’arena proporzionale, dove i partiti si presentano da soli, rispetto all’arena maggioritaria, dove la coalizione si presenta con i suoi candidati comuni. Nelle elezioni del 2001 la differenza è stata di circa 1.500.000 voti. La stessa cosa si era verificata nel 1996. Per l’Ulivo è vero il contrario. Tra le ragioni di questi diversi rendimenti coalizionali c’è il fatto che l’elettorato di centro-destra tende a votare i partiti della Cdl, ma non sempre i suoi candidati nei collegi. Ecco perché si vuole modificare la legge elettorale. Ma, contrariamente a quel che si dice, un sistema proporzionale con premio di maggioranza simile al modello De Gasperi del 1953 favorirà la crescita della frammentazione politica.
Per questo, pur con tutti i difetti e i fastidi che comporta, mi auguro che il sistema attuale non venga messo in discussione. Nella situazione italiana di oggi nessun sistema elettorale può fare miracoli ricomponendo una rappresentanza politica così frammentata. E l’attuale sistema non solo permette di imbrigliare la frammentazione in un formato bipolare, ma contiene incentivi all’aggregazione che possono, col tempo, trasformarsi in incentivi alla formazione di nuovi partiti.
L’alternativa in questi giorni in discussione alla Camera non ci farebbe fare alcun passo avanti verso il contenimento della frammentazione partitica e invece rischierebbe di renderne gli effetti ancora più deleteri, eliminando il freno rappresentato dal collegio uninominale e dalle attuali soglie di sbarramento della Camera e del Senato. Per non parlare degli effetti corruttori delle preferenze, qualora venissero reintrodotte, con esiti descritti dai verbali delle inchieste su Tangentopoli.
Sarebbe meglio, invece, pensare a riforme minori relative alla legislazione di contorno che limitino la proliferazione di candidati e partiti. Pensiamo alle norme sui rimborsi elettorali e sul finanziamento dell’editoria di partito, alla riforma dei regolamenti parlamentari e consiliari, alla raccolta delle firme per la presentazione di candidati e liste, alla par condicio. Su questo terreno molto si potrebbe utilmente fare per accompagnare la ristrutturazione bipolare del nostro sistema partitico e il rafforzamento dell’istituzione governo. Ma anche in questo caso è lecito essere scettici circa la fattibilità politica di riforme del genere. Infatti la strada che la maggioranza di governo preferisce battere non a caso è un’altra: rafforzare i poteri del premier senza affrontare il problema della frammentazione. È questa infatti la filosofia di fondo alla proposta di revisione della Costituzione: separare rappresentanza e governo.
Ma per risolvere il secondo problema, quello del governo, sarebbe più utile se si abbandonassero le scorciatoie e si affrontasse il primo problema, quello della rappresentanza, favorendo il formarsi di partiti degni di questo nome.
Deputato Ds-L’Ulivo

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Il Piccolo, 18 ottobre 2005 – La coesione sociale frantumata

Il Paese rischia il declino schiacciato dalle mancate riforme: per il terzo anno consecutivo la crescita sarà inferiore all’1%; la mobilità sociale è bloccata; la transizione politico-istituzionale sembra non avere fine; la competitività e le esportazioni non reggono il passo con gli altri Paesi europei.
Al punto che il settimanale inglese «The Economist» ha descritto l’Italia come «The real sick man of Europe», il malato d’Europa. Inoltre da una decina d’anni stiamo cadendo in una spirale di illegalità e di immoralità che non ha eguali in nessun paese avanzato.

Non è «normale» un Paese dove il lavoro nero è pari al 27% del Pil, segnalando il fallimento di tutte le leggi per l’emersione del sommerso (fonte Ocse); dove l’evasione fiscale è di 200 milioni di euro: più del doppio che in Francia (fonte Secit); dove il fatturato annuo delle mafie è stimabile in 90 miliardi di euro e lavorano per la mafia spa il 27% dei calabresi, il 12% dei campani, il 10% dei siciliani (fonte Dia). Senza contare che, come ha scritto Ilvo Diamanti su Repubblica, con il berlusconismo «non c’è scandalo che riesca a scandalizzare» ed «è dilagato un sottile, ma profondo, disincanto. La convinzione che tutto è lecito. Basta non farsi scoprire». Al punto che «il senso cinico ha avvolto e logorato il senso civico».
C’è quanto basta per ridare fiato sia ai nostalgici della prima Repubblica che ai profeti delusi della seconda. A quanti propongono di riabilitare il proporzionale e ripristinare la partitocrazia e a chi invece vorrebbe riprendere la rivoluzione interrotta e punta sul presidenzialismo. Eppure l’esperienza dovrebbe averci insegnato che non ci sono scorciatoie, che modificare i meccanismi elettorali non basta e che gli effetti di riforme costituzionali poco meditate possono essere devastanti.
Ma in giro non c’è una adeguata consapevolezza della profondità della crisi. Basta riflettere sul candore con il quale i giornali hanno improvvisamente scoperto gli episodi dell’implosione di un sistema di potere che qualcuno aveva pensato di poter salvare dal declino buttando a mare solo la zavorra costituita dai partiti della prima Repubblica. Per cui, giorno dopo giorno, l’opinione pubblica è stata informata della crisi della più grande industria nazionale, degli scandali finanziari che hanno travolto i due imperi dell’agro-alimentare, delle incerte regole di governance del sistema creditizio, dell’ingovernabilità del servizio pubblico radiotelevisivo, ecc.
Quello a cui stiamo assistendo, in realtà, è il fallimento della pretesa delle grandi corporations e dei nuovi padroni del vapore (che hanno usato i soldi del mercato per regolare i conti tra loro anziché investire nella crescita vera della grande impresa) di autogovernarsi e negoziare fra loro il governo del Paese. Una pretesa che Silvio Berlusconi ha incarnato. Proprio per questo sarebbe bene che la crisi venisse affrontata tenendo conto finalmente che da Jefferson in poi, grandi partiti e grandi costituzioni sono un binomio obbligato. Dal momento che i partiti sono, come ha scritto Mauro Calise, i «corpi di appoggio nell’elettorato di massa per l’edificio costituzionale universalistico».
Non per caso, il sistema dei partiti, all’inizio della prima Repubblica, ha svolto una essenziale funzione di difesa dell’unità nazionale (messa a rischio dalla guerra), ha fatto da incubatore della società civile, ha riedificato lo Stato, ha incluso grandi masse nella democrazia liberale, allargandone i ristretti confini di classe. Al punto che Luigi Covatta sostiene che il sistema dei partiti fu il primo «miracolo italiano» del dopoguerra e addirittura l’unica «riforma» che si realizzò per governare il cambiamento politico.
Non c’è dubbio che oggi la maturazione di una coscienza esigente di cittadinanza, i processi di laicizzazione e di secolarizzazione, i mutamenti economici e sociali, il cambiamento del quadro internazionale uscito dal secondo dopoguerra hanno tolto centralità e spessore alla mediazione partitica. E la crisi della prima Repubblica ha sconvolto il vecchio equilibrio nel rapporto cittadini-partiti-Stato. Ma il guaio è che la lunga transizione in corso non ha potuto o saputo ricostruirne un altro. Eppure una dimensione «rappresentativa» che temperi la pulsione immediata di interessi e valori e che filtri la loro immissione diretta sul tavolo pubblico, oggi è più necessaria di prima. Perché se non c’è una intercapedine di rappresentanza e di mediazione, gli interessi e i valori, guidati dal solo principio della capacità di minaccia, praticano un conflitto primitivo e distruttivo, mettendo a rischio la coesione sociale.
Non è un caso che whigs e tories, antenati del sistema partitico moderno, siano nati nell’alveo della rivoluzione inglese, dopo una sanguinosa guerra civile. E solo se riusciremo a imperniare il bipolarismo su due grandi forze fondamentali – beninteso, su forze politiche di tipo nuovo, adeguate ai tempi – si potrà rendere il sistema politico meno dipendente dalle persone, più equilibrato nel rapporto tra personalizzazione della politica e ruolo dei partiti e si potrà consentire al sistema politico di funzionare come si deve. Perché nessuno degli attuali «sostituti» dei partiti può sostituirne la capacità di portare avanti politiche egualitarie.
Non significa auspicare una nuova Repubblica dei partiti. Significa prendere atto che nell’epoca moderna le repubbliche senza partiti non si sono mai viste. E significa essere consapevoli che senza partiti non si esce da questo sviluppo senza guida, da questo cambiamento senza riforme, e che c’è uno sforzo da fare per consentire il formarsi di soggetti politici degni di questo nome e superare la regressione corporativa delle istituzioni. Anche per questo mi auguro (anche se, tanto per cambiare, la maggioranza ha deciso di usare gli ultimi mesi utili per fare qualcosa di buono per sé, invece che per il Paese) che il sistema elettorale non venga messo in discussione.
Nella situazione di oggi nessun sistema elettorale può fare miracoli ricomponendo una rappresentanza politica così frammentata. E l’attuale sistema non solo permette di imbrigliare la frammentazione in un formato bipolare, ma contiene inoltre gli incentivi che possono, col tempo, trasformarsi in incentivi alla formazione di nuovi partiti. L’alternativa in questi giorni in discussione alla Camera non ci farebbe fare nessun passo in avanti verso il contenimento della frammentazione partitica e invece rischierebbe di renderne gli effetti ancora più deleteri eliminando il freno rappresentato dal collegio uninominale e dalle attuali soglie di sbarramento della Camera e del Senato. Inoltre, non sarebbe male ricordare ai proporzionalisti vecchi e nuovi che l’enorme debito pubblico che ci sovrasta (e che venne accumulato quando il bipolarismo non esisteva) è la misura contabile di un malgoverno che aveva raggiunto livelli parossistici.

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