GIORNALI2005

Messaggero Veneto, 24 giugno 2005 – La scelta riformista

Titubanze ed errori dei riformisti condizionano credibilità e prospettive del centrosinistra.

LA SCELTA RIFORMISTA

La vecchia collocazione strategica dell’Italia che altri decisero per noi nel dopoguerra è in via di superamento e quella nuova non ce la darà nessuno: ce la conquisteremo solo se saremo capaci di ricollocare il paese nel mondo nuovo delle sfide globali. E’ qui, come va ripetendo Enrico Morando, che si gioca la battaglia tra riformisti e conservatori: tra quanti intendono reagire al declino e quanti, cercando di difendere i vecchi equilibri, finiscono per assecondarlo. Perché la riforma dell’Italia (cioè la sua ricollocazione) sconvolge posizioni consolidate.
Essa premia gli interessi di alcuni e colpisce quelli di altri. Favorisce, per esempio, tra le imprese quelle esposte alla competizione internazionale; tra i lavoratori, quelli a più alta produttività; tra gli orientamenti culturali, quelli che sollecitano l’apertura (per esempio, verso l’immigrazione) piuttosto che le chiusure e la paura.
Se si vuole, dunque, costruire uno schieramento che sappia non solo vincere le elezioni, ma governare il paese, cioè guidarlo in quello sforzo di ricollocazione che è condizione per evitare il declino (l’Italia ha perso il 30% della sua quota di commercio mondiale in otto anni), allora bisogna superare la debolezza dei soggetti politici del centro-sinistra sulla quale in molti, nel recente passato, hanno fatto leva per bloccare i tentativi riformisti: incompiuto il processo di riforma costituzionale, col fallimento della Bicamerale; incompiuto il processo di liberalizzazione, con troppi monopoli e oligopoli privati al posto di quelli pubblici, ecc.
Naturalmente, è facile sottolineare la distanza tra le discussioni sull’architettura politica (la lista unitaria, la Fed, l’Unione) e i problemi della gente. Ma se i problemi della gente (il salario che non basta ad arrivare a fine mese o l’incertezza sul futuro) sono gli effetti della mancata riforma del paese, allora il progetto di ricollocazione dell’Italia nel nuovo contesto internazionale ha a che fare tanto con le scelte necessarie per rimuovere le cause strutturali della crisi (lo spiazzamento della specializzazione produttiva; l’insufficiente dimensione aziendale; le infrastrutture materiali e immateriali, formazione, vecchie e carenti; il sistema politico e istituzionale debole e screditato; ecc.) quanto con la costruzione del soggetto politico unitario capace di dare alla più ampia alleanza di centro-sinistra il leader, la sostanza del consenso elettorale e l’ispirazione di fondo del programma di governo. Certo che la gente al bar, in famiglia o nel luogo di lavoro non discute di contenitori. Discute di lavoro, di salario, di servizi pubblici che non funzionano, di risparmio bruciato dai bond argentini o da quelli Cirio-Parmalat. Ma anche nella testa della gente contenuto e contenitore stanno assieme perché la domanda che invariabilmente conclude questi discorsi va al cuore della crisi del centro-sinistra: «D’accordo, questi non ce la fanno a governare. Ma se vincono Prodi e i suoi saranno capaci di stare assieme? O faranno come nel ’98?».
L’idea della Federazione dell’Ulivo (e, in prospettiva, la strada della fusione in salsa liberale dei riformismi che la nostra storia ci consegna, in particolare, di quelli cattolici e socialisti) nasceva dall’esigenza di rispondere a questa domanda. Ora si torna a parlare di «divisione del lavoro» tra Ds e Margherita (come se la conquista del voto moderato potesse essere delegata a uno solo dei partiti della coalizione e non al profilo complessivo dell’alleanza); della centralità dell’Unione (quel che conta, si dice, è aggregare tutte le forze di opposizione attorno al leader, poi si vedrà); di lista «del presidente». Ma come si fa a non vedere l’enorme distanza che separa ognuna di queste ipotesi di ristrutturazione del centro-sinistra dalle esigenze del paese?
L’errore (anzitutto di Prodi) è stato quello di aver riproposto il tema della lista unitaria senza aver mai fatto vivere (nel concreto delle scelte: l’Iraq, la riforma costituzionale, la politica economica) la Federazione dell’Ulivo come autonomo soggetto politico. Vale a dire autonomo dall’Unione, per poterne costituire credibilmente l’asse riformista; autonomo dai partiti, per metterne a frutto le energie senza ereditarne anche i limiti strutturali; autonomo da Prodi perché destinato a esistere e a svilupparsi molto oltre la sua stessa leadership. La Federazione doveva essere la sede per discutere e decidere la piattaforma dei riformisti. Come ha fatto Rifondazione comunista, che al congresso ha definito le sue proposte per il paese. Ma dalla Federazione, a distanza di un anno, non è venuto nulla. E se la Federazione non c’è, se la lista unitaria alle politiche non è parte di un progetto volto a dare all’Italia quello che non ha mai avuto, un grande partito riformista, se la lista unica è solo una tattica elettorale o al massimo una premessa, allora perché farne un motivo di lacerazione?
Ora che le cose si sono riaggiustate col ‘patto di via Margutta”, il nodo da sciogliere rimane lo stesso: dov’è la sede di elaborazione e di decisione dei riformisti? E proprio i settori della Margherita più attenti al profilo di centro-sinistra della coalizione e preoccupati di un condizionamento radicale dovrebbero riflettere sul fatto che arrendersi alla divisione dei riformisti rischia di portare proprio all’esito che si vuole evitare. Senza contare che l’autosufficienza della Margherita dovrebbe essere motivata non dalla politologia (il partito che cattura i voti di centro in fuga da Forza Italia), ma dall’egemonia nella proposta per fare uscire il paese dalla crisi strutturale che lo travaglia. Posso sbagliare, ma ho l’impressione che sia un’impresa al di fuori della portata della Margherita, almeno quanto lo è dei Ds. Infatti, il rischio insito nella divisione del lavoro è che il lavoro che bisognerebbe fare finisce che non lo fa nessuno. Se poi le primarie si concedono a Prodi come contentino perché non si vuole costruire una Federazione vera, allora sono solo un regalo a Bertinotti. È come capo dello schieramento dei riformisti liberali, come capo della Federazione, largamente maggioritaria nel centro-sinistra, che Prodi dovrebbe essere candidato premier, non come una specie di arbitro che i centristi e la sinistra più radicale accettano e che poi deve in ogni occasione ricercare il sostegno degli uni e degli altri. Se la Federazione dell’Ulivo, il perno dell’alleanza, non è una cosa seria e Prodi non ne è il capo riconosciuto, come si fa a dare sicurezza e insieme a convincere gli italiani che molti cambiamenti sono necessari, perché i guai dell’Italia sono guai seri? Il progetto della Federazione (cioè l’unità dei riformisti) è difficile, ma c’è davvero chi pensa che basti Prodi o basti far leva sulle punte alte delle istituzioni, sui sindaci e sui presidenti in questi giorni in pellegrinaggio dal Professore, come cantava Vasco Rossi (e com’è naturale), «ognuno in fondo perso dietro ai fatti suoi»?
Deputato Ds-L’Ulivo

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