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Il Piccolo, 4 gennaio 2010 – «Vanno migliorati i collegamenti ferroviari»

Intervista al parlamentare del Pd sui temi più attuali del 2010

Maran: le infrastrutture sono essenziali per garantire la centralità dell’Isontino
di FRANCO FEMIA
«La centralità geografica in un contesto europeo non basta per ritenere che un territorio, come può essere l’Isontino o anche la regione, goda di privilegi. Servono servizi di qualità e infrastrutture». Parla a l’onorevole Alessandro Maran, il parlamentare del Pd che rappresenta la nostra provincia a Montecitorio. Parla da una gelida Mosca dove sta trascorrendo gli ultimi giorni di vacanza con la famiglia.
Cosa intende per centralità?
La possibilità innanzitutto di essere collegati meglio con il resto d’Italia e dell’Europa. Servono strade, collegamenti ferroviari…
Intanto si sono avviati i lavori per trasformare il raccordo in autostrada.
Sì, è vero. Speriamo che si faccia presto, anche per quanto riguarda la terza corsia della A4. Ma non basta. Quello che serve è migliorare i collegamenti ferroviari. Arrivare a Gorizia da Mestre è spesso un’avventura.
Lei parla di servizi di qualità. Quali?
L’Isontino ha delle peculiarità che vanno sfruttate meglio. Per esempio sappiamo costruire ottime navi e abbiamo i migliori vini bianchi del mondo: sfruttiamo questi beni, questo nostro valore aggiunto. Anche questo significa dare centralità al territorio.
Ma sul piano dei servizi Gorizia e Monfalcone stanno perdendo pezzi. Basta vedere il ridimensionamento della sanità ospedaliera previsto dal piano regionale.
È un settore depauperato da anni. Diciamolo chiaramente: chi ha bisogno di curarsi da anni sceglie altri ospedali, a Udine o a Trieste. Più che sui muri, bisogna pensare a servizi di qualità con figure professionali valide. Se si può fare da soli è meglio, altrimenti ben vengano le collaborazioni con altre realtà regionali.
Gorizia per il suo rilancio punta sull’università. È d’accordo?
Certo, ma anche in questo settore bisogna puntare sulla qualità e non solo puntare sugli spazi e sui locali.
È quello che ha detto anche il sindaco Romoli.
Infatti, è importante attrarre studenti. E lo si fa con ricerca, studi e corsi appropriati. Siamo alla vigilia della riforma universitaria e, vista anche la situazione di ristrettezze economiche, il rischio è che si taglino i rami secchi, quelli improduttivi. E dobbiamo fare in modo che a Gorizia non ci siano questi rami secchi.
Ritiene che siano migliorati i rapporti con Nova Gorica?
Dai e dai qualcosa di nuovo emerge. Dobbiamo confrontarci con realtà che demograficamente sono piccole e che hanno le nostre stesse problematiche. Sarebbe, quindi, utile mettere insieme risorse e capacità di operare per dare vita a validi progetti concreti utili alle due realtà. Ma capisco che ci vuole tempo.
Nel Veneto è possibile che il prossimo governatore sia il leghista Zaia. Ci saranno contraccolpi nel Friuli Venezia Giulia?
La nostra regione ha più risorse che gli vengono dalla sua autonomia, quindi una capacità di manovra che le regioni ordinarie non hanno. Certo, il Veneto ha una dimensione industriale più forte della nostra e ciò vuol dire anche un’economia forte.
Ma è possibile una cooperazione?
Sì, se c’è interesse anche dall’altra parte. Uno dei settori dove si potrebbe stabilire delle alleanze è quello aeroportuale, anche per rilanciare il nostro scalo di Ronchi stabilendo degli accordi con quello di Venezia.
Torniamo a casa nostra. Monfalcone è alla vigilia delle elezioni comunali. E c’è la possibilità che dopo tanti anni vinca il centrodestra. Condivide questa ipotesi?
Da quando ci sono le elezioni dirette del sindaco sono aumentate le possibilità dell’alternanza. E questo vale anche per Monfalcone. Le esperienze di dicono che anche a Monfalcone può cambiare tutto. Ma questo deve essere uno stimolo in più per il centrosinistra, che ha un patrimonio solido ma che deve mettere in campo, prima che uomini, idee e progetti nuovi.

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Europa, 19 gennaio 2010 – Rosarno colpa di questa Italia

Stavolta Avvenire l’ha messa giù dura, esortandoci, nell’apertura dell’edizione di sabato scorso, a «smetterla di non vedere». L’editoriale di Antonio Maria Mira cominciava così: «Rosarno, Italia: cinquemila immigrati, in gran parte irregolari, pagati (quando va bene) 18-20 euro al giorno per 12-14 ore di lavoro a raccogliere agrumi, ammucchiati in ex fabbriche senza acqua e senza luce, sfruttati…».«Val di Non, Italia: settemila immigrati, tutti regolari, pagati 6,90 euro all’ora per 8 ore di lavoro a raccogliere mele, con vitto e alloggio assicurato dai datori di lavoro, sotto il rigoroso controllo della provincia di Trento e dei comuni della zona. Dietro alla drammatica rivolta degli immigrati africani della Piana di Gioia Tauro, dietro la reazione degli abitanti, sfociata ieri sera in due feroci gambizzazioni, c’è ancora una volta questa Italia spaccata in due, questo paese che, come ha denunciato più volte il capo dello stato, viaggia a velocità diversissime. Due Italie, forse addirittura due pianeti diversi».

Forse dovremmo davvero «smetterla di non vedere». Berlusconi è quello che è, ma il nodo irrisolto della storia della repubblica, il punto su cui si concentra la crisi, non è forse il divario terribile fra il Sud e il Nord? Non è forse questo il vero punto di rottura? Non è da qui che ha avuto origine l’idea federale? «Quell’idea che – come osserva Biagio de Giovanni nel suo ultimo libro – da allora non sarebbe più uscita dal dibattito politico, con – da destra a sinistra: ecco il senso dell’egemonia! – la parola d’ordine “tutti federalisti” (…) e la Lega federalista sembra addirittura diventare paladina di un rinnovamento possibile (l’unico, si comincia a dire) del Mezzogiorno: quante cose può significare l’egemonia!».

Dico di più. Sicuramente il Cavaliere di problemi ha risolto solo qualcuno dei suoi, ma di certo non è la sola fonte dei nostri guai. La mafia, la corruzione, il terrorismo, l’evasione fiscale, il debito pubblico, il disastro della scuola, della giustizia, di Alitalia, delle ferrovie, l’inefficienza dell’apparato pubblico, l’illegalità edilizia, il divario Nord-Sud, c’erano anche prima dell’arrivo di Berlusconi. E forse converrebbe abbandonare l’illusione che una volta tolto di mezzo il Caimano, ritornerà l’età dell’oro. O si pensa davvero che, come va dicendo Di Pietro, Berlusconi sia il fascismo? Non scherziamo: Berlusconi non ha la cultura politica di Mussolini e in Italia non c’è una dittatura fascista. Al contrario, Berlusconi ha aiutato la costituzionalizzazione della destra. Perché gli serviva, naturalmente. Il che non toglie che abbia contribuito anche all’evoluzione della democrazia italiana. Al punto che non sarebbe fuori luogo chiedersi se Berlusconi non stia svolgendo (addirittura) una funzione democratica: dopotutto, ha integrato la destra fascista nella democrazia italiana ed europea e sta tenendo a bada un partito secessionista.

Dico questo perché con il Caimano fuori dai piedi, le cose potrebbero persino peggiorare: con al Nord (un Nord ormai largamente disponibile a una «separazione di velluto » come quella cecoslovacca) un grande partito secessionista in grado di rompere l’argine emiliano e, al Sud, un’alleanza tra clan, formazioni autonomiste e i cocci del Pdl. Non è un mistero per nessuno che oggi il punto di vista della Lega (il peso insopportabile di un Mezzogiorno parassita, improduttivo e preda dell’illegalità criminale) sia ormai diventato senso comune. Anche in conseguenza del fallimento nel Mezzogiorno del compito riformatore che si era assegnato il centrosinistra. Non è un caso che uno come Vittorio Feltri abbia scelto, per l’edizione del Giornale dedicata alla «caccia al negro» scatenatasi a Rosarno, un titolo provocatorio: «Anziché ai negri, sparate ai mafiosi». «Se i calabresi – si legge nel sottotitolo dell’apertura – combattessero la ‘ndrangheta con la stessa foga con cui si ribellano agli immigrati, risolverebbero i problemi della loro regione. Ma preferiscono i criminali agli africani che sgobbano al posto loro: peccato…».E ora, per espandersi elettoralmente, la Lega cerca di riplasmare il senso comune locale, in direzione di un ritorno a un cattolicesimo preconciliare e dell’etnicizzazione della religione. Da qui l’insofferenza crescente verso quella Chiesa che si oppone a xenofobia e tramonto del solidarismo.

Come ha osservato Luciano Violante in una recente intervista: «Dobbiamo fare le riforme. Urge un gesto sano per il nostro paese che, oggi, ha un unico perno attorno cui bene o male ruota: il presidente del consiglio (…) E «l’indebolimento del carisma del capo mette in crisi partito e sistema. Possono naufragare entrambi». Per questo, sostiene Violante, dobbiamo «consolidare il sistema attraverso le riforme». Giusto. Il fatto è che la realtà di tutti i giorni non fa che dimostrare quanto sia velleitario il progetto di restaurare la «democrazia dei partiti» della (non rimpianta) Prima repubblica e quanto sia impraticabile e chimerica la delega ai «professionisti». Per la semplice ragione che non c’è modo di ripristinare il vecchio sistema con un intervento di restauro.

Il bello è che ormai si prende atto che non è più possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma si continua a ritenere che quella forma della partecipazione politica e quel sistema politico siano i migliori.

Perciò, si cerca di avvicinarsi il più possibile a quel modello e di salvare più elementi possibili di quella esperienza. Inevitabilmente, chi coltiva questo atteggiamento nostalgico e questa visione conservatrice ha anche una disponibilità incerta, temporanea e reversibile ad emancipare la politica dalle vecchie ipoteche. Finendo per dire una cosa la mattina (le primarie e il maggioritario sono nel dna del Pd) per poi contraddirla la sera (se si può, le primarie è meglio evitarle e sarebbe meglio tornare al proporzionale).

Abbiamo ripetuto fino alla noia che il Novecento è finito. E non possiamo restare impelagati nelle sue macerie. Ha scritto ancora De Giovanni:«Se non si riesce a pensare nel nuovo contesto si resta nel vecchio, dove la gran parte dei dirigenti è stata allevata, e aggirandosi tra i suoi frammenti vi si resta impigliati, e si ritrova quella parzialità delle anime riformiste, quell’avviticchiarsi a spezzoni di idee che non hanno più la forza di una visione complessiva, quel sedersi sulla resistenza di grandi e piccole corporazioni che di volta in volta costituiscono i punti di forza: ora gli studenti, ora i magistrati, ora gli immigrati, spesso elevati, loro malgrado, a soggetti generali della storia».

Dobbiamo cambiare. Evadere dalle vecchie idee. Per non arrenderci all’idea che il Sud è il Sud, l’Italia è l’Italia e che bisogna farsene una ragione.

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Europa, 26 marzo 2010 – Dal predellino all’ampolla

Bossi lo annuncia nei comizi, i giornali lo scrivono in prima pagina, gli analisti lo commentano nei fondi. Il sorpasso della Lega sul Pdl è, per ora, una notizia che non esiste. Dovremmo aspettare lunedì notte o martedì 29 per commentare quel che è successo nelle 13 regioni che si apprestano al voto. Come si sa, in questa settimana, è vietato pubblicare i sondaggi, ma ciò non significa che non si facciano, che non siano tema di discussione interna ed esterna nei partiti o tra gli addetti ai lavori. Dunque se tanta carta è stata utilizzata per discernere del “sorpasso” leghista, qualche appiglio ci dovrà essere.

Quel che mi stupisce non è che se ne scriva. Quel che mi preoccupa è che ci sia chi ritiene che è alla Lega che si affidano anche le speranze del Pd per il dopo elezioni.
Berlusconi è quello che è (anche se spesso si sottovaluta la sua dimensione politica), ma come si fa a non vedere che è la Lega che costituisce il reale (e iniziale) punto di rottura del sistema italiano. Il punto su cui si concentra la crisi non è forse il dualismo italiano? Non è questo il nodo irrisolto, la breccia aperta? Non è da qui che ha avuto origine l’idea federale, vista come la panacea di tutti i mali. E con il federalismo (che ha significato passare dalla questione meridionale a quella settentrionale) non si voleva forse dire che andava rinnovato il “patto” repubblicano? Sono più di vent’anni che la Lega insiste sul peso del Mezzogiorno: improduttivo, parassita, preda dell’illegalità criminale. E oggi comincia ad incassare i risultati della sua fatica. Anche perché la dirompente sfiducia nello stato ne investe ogni livello territoriale e non viene più surrogata dalla fede in un superiore destino europeo. Ormai c’è un pezzo di Nord che del Sud non vuole più sentirne parlare e vuole separare il suo destino dal Mezzogiorno. E c’è un altro pezzo di Nord che non è comunque disposto a tornare alla vecchia Italia. La responsabilità di questo non è soltanto della destra ma anche del fallimento delle politiche e delle culture politiche repubblicane che, in passato, sono state dominanti.

È dalla crisi degli anni novanta che la questione aperta è quella di un profondo cambiamento della cultura nazionale e del modo di stare insieme degli italiani. Ed è da allora che andiamo ripetendo che dalle macerie o dal fallimento di Roma, dello stato nazionale, non si potesse costruire un paese migliore. Ebbene lo penso ancora oggi e mi stupisco che qualcuno coltivi l’illusione che, tolto di mezzo Berlusconi, consegnata l’egemonia dall’uomo del predellino a quello dell’ampolla, si possa aprire uno spazio di cambiamento o di riforme. Oltretutto indolore. Berlusconi è quello che è, ma se la Lega dovesse davvero fare cappotto al Nord e si aprisse nel centrodestra una fase di forte instabilità, potrebbe riproporsi lo scenario che dipingevano i Bossi e i Miglio vent’anni fa: scardinare le istituzioni, creare il caos, dividere l’Italia. E c’è da dubitare che in uno scenario del genere sapremmo (o potremmo) gestire quel dialogo sulle riforme di cui parla oggi Calderoli.

Mentre, vent’anni fa, cominciava a soffiare questo vento, abbiamo saputo far volare qualche speranza. Ricordate la primavera di Napoli? Ricordate come, per qualche anno, siamo stati capaci di unire l’Italia coinvolgendo le amministrazioni, dalla Val D’Aosta alla Sicilia, nelle famose “Cento idee per lo sviluppo” fortemente volute dal ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica, Carlo Azeglio Ciampi? Era il 1998, governava Romano Prodi. Bossi dava del piduista e del mafioso a Berlusconi, ma dichiarava a Telelombardia: «Non è vero che la secessione è stata tolta. Il parlamento della Padania eletto da milioni di persone funziona: quello è lo strumento per la secessione. E il 27 settembre si vota per la secessione».
Sono passati molti anni, ora il Senatùr usa soltanto parole di elogio per il suo alleato, reclama posti nella «Roma ladrona». Ma se alle prossime regionali la Lega raccogliesse il malcontento verso Berlusconi, vorrebbe dire che quella speranza di cambiamento che abbiamo suscitato e poi fatto sopire sotto cumuli d’immondizia, ha trovato dove andare. E non è venuta da noi.

Abbiamo idee, donne e uomini da contrapporre a Berlusconi e a Bossi. Dobbiamo vincere su queste basi. Rivolgendoci anche a quei settori di classe media indipendente del Nord non catturabile dalla Lega e dal tremontismo, perché, come scrive oggi Panebianco, «delusi dalla dismissione del programma liberista» e «refrattari alle chiusure del comunitarismo leghista».Niente scorciatoie, né il cielo, né i giudici, né la Lega possono liberare l’Italia da un governo che non si merita. L’alternativa passa per la nostra credibilità e per speranze che, stavolta, non dovremmo deludere.

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Europa, 8 aprile 2010 – Coraggio, presidenzialismo e federalismo

«Gli italiani – ha detto lapidario Bossi commentando alla radio l’esito delle elezioni – vogliono il cambiamento. E la Lega è il cambiamento». E, aggiungo io, il centrosinistra è l’immagine della conservazione.
Se così stanno le cose, stavolta dovremmo sfidare quella che è stata descritta da due esponenti del progressive liberalism americano come la “politics of evasion”, cioè la politica della scappatoia, dello sfuggire ai problemi. I due usarono questa frase per riassumere quello che ai loro occhi era stato il ripetuto rifiuto dei democratici negli Stati Uniti di guardare in faccia la drammatica perdita di fiducia nel partito tra gli elettori, seguita da una serie di sconfitte consecutive nelle elezioni presidenziali.
Troppi americani erano arrivati a vedere i democratici come disattenti ai loro interessi economici, indifferenti se non ostili ai loro sentimenti morali e inefficaci nella difesa della loro sicurezza nazionale. Invece di affrontare la realtà, parecchi democratici scelsero di abbracciare la «politica dell’evasione», ignorando i problemi fondamentali del loro partito.
Diedero la colpa della sconfitta a ogni genere di cose: alle scarse sottoscrizioni e alla tecnologia inadeguata, alla debole presenza nei media, alle personalità, alle leadership “sbagliate”, al fallimento nel mobilitare la “base tradizionale”, costruirono scuse allo scopo di evitare di confrontarsi i problemi e le domande di fondo per un progetto di cambiamento.
In questo siamo bravissimi anche noi, ma stavolta dovremmo resistere alla tentazione: i problemi sono senza dubbio difficili, ma è ora di affrontarli.
Tanto per capirci, sul Corriere della sera, Giovanni Sartori sostiene che «l’interesse prioritario di tutte le opposizioni» sia quello «di battersi per un sistema elettorale meno iniquo » e che il Pd dovrebbe puntare «sul sistema tedesco tenacemente chiesto da Casini». Ora, ammesso e non concesso che sia auspicabile il ritorno ai governi fatti e disfatti in parlamento, perché mai Berlusconi dovrebbe concedere quel proporzionale senza premi? Ma il punto è un altro: l’interesse prioritario del Pd devono essere gli italiani. Anzi, per salvare se stesso deve occuparsi dei problemi del paese. Detto altrimenti, il Pd deve porsi una domanda che viene prima dei marchingegni elettorali e delle alleanze: come mai (anche in condizioni dovunque molto difficili per chi governa, anche in una situazione di malcontento diffuso) gli elettori non riescono a vedere nel Pd e nel centrosinistra una alternativa credibile? Senza dubbio le tradizioni, le culture politiche, da cui è derivato il Pd hanno perso da tempo consistenza e presa sulla realtà e sono inadeguate a interpretare le domande del Paese.
Ma senza idee nuove non si andrà da nessuna parte. È dalla crisi degli anni Novanta che la questione aperta è quella di un profondo cambiamento della cultura e del modo di stare insieme degli italiani. E la persistente sottovalutazione della dimensione politica di Berlusconi (fino alla attribuzione consolatoria di un carattere antiberlusconiano al successo della Lega) è la prova del nostro smarrimento.
Eppure, a modo loro, sia la Lega che Berlusconi sono l’espressione di un grande rivolgimento iniziato nel secolo scorso: la sollevazione dei ceti produttivi (dipendenti, imprenditori, agricoltori, professionisti, commercianti, artigiani e altri lavoratori del settore privato) contro la truffa e lo sfruttamento di una classe politico-burocratica che, spacciandosi per paladina dell’interesse generale, si appropria da quasi cent’anni di una parte sempre più cospicua del loro reddito, riuscendo a vivere ed arricchirsi nell’ozio, nella sicurezza e nel privilegio, alle spalle di chi lavora nella fatica e nell’insicurezza tipiche di ogni attività di mercato.
Questa sollevazione antiburocratica e antistatalista, una vera e propria rivolta dei produttori, è il filo rosso che collega la svolta reaganiana in America, quella thatcheriana in Gran Bretagna, quella antisocialista in Germania, Belgio, Scandinavia e Francia e perfino (fatte salve le ovvie specificità) quella anticomunista all’Est. Con questa «cosa», nella versione di casa nostra, dobbiamo fare i conti. La maggioranza moderata non è un castello di carte destinato a cadere all’improvviso. E proprio l’illusione che una volta sparito il Caimano ritornerà l’età dell’oro, impedisce di vedere e di comprendere la domanda di cambiamento del paese.
Continuo a ritenere che anziché inseguire alleanze improbabili, il Pd debba scommettere sul fatto che possa avvenire, in futuro, un mutamento nelle propensioni degli elettori. Ma per conquistare nuovi elettori bisogna cambiare. E oggi quel che occorre non è il ritorno alle antiche certezze, ma il dichiarato superamento di vecchi atteggiamenti e vecchie posizioni. Proprio per stare dalla parte degli italiani. Il problema fondamentale del paese è quello di una modernizzazione mancata. Ed è proprio lo stato il nostro peggior problema. Cioè la gravissima crisi di efficienza e affidabilità del sistema politico-istituzionale.
E visto che la nostra repubblica è già cambiata (in modo magari imprevisto) e oggi risulta incompiuta, a metà; visto che da un pezzo la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco, perché allora non è il centrosinistra ad avanzare e precisare il tema del presidenzialismo come compimento necessario dell’Italia federale? Una volta tanto, come se Berlusconi non ci fosse e a starci a cuore fossero solo gli italiani.

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Left – Avvenimenti n.12, 26 marzo 2010 – Carcere, basta coi fortini

«La violenza si riduce anche con condizioni migliori per i detenuti». Di fronte all’ennesimo morto in cella, il vicepresidente dei deputati Pd torna a parlare di giustizia.

di Sofia Basso

Di nuovo un morto in circostanze sospette, di nuovo mentre era sotto custodia dello Stato. Il caso di Giuseppe Uva, deceduto nel 2008 dopo essere stato trattenuto in una caserma di Varese, si aggiunge a quelli già noti di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino e di tutti gli altri cittadini fermati in buone condizioni di salute dalle forze dell’ordine e restituiti alle loro famiglie cadaveri e pieni di lividi. Ne abbiamo parlato con Alessandro Maran, vicepresidente dei deputati Pd, tra i firmatari di una mozione sul carcere approvata all’unanimità a gennaio:«Servono educatori e lavoro. Utilizziamo i fondi delle ammende per le misure alternative». Per ridurre la violenza e rispettare la Costituzione.

Ennesima morte sospetta in carcere: il Pd cosa dice?

Dobbiamo chiedere conto al governo: è evidente che qualcosa non ha funzionato. Devono chiarire cosa è successo, come e perché. Non è tollerabile che persone consegnate alla responsabilità dello Stato entrino vive ed escano morte. Appena si riconvoca l’aula dopo le lezioni presenteremo una interrogazione e chiameremo a riferire il ministro. Su questo insisteremo. Anche perché non si tratta di un episodio isolato:l’elenco è ormai lungo, come dimostrano i dossier annuali. La legittimazione dello Stato a punire non può prescindere dal modo in cui ciò viene svolto. La violenza in carcere, sia da parte degli operatori che tra i detenuti, si genera spesso in un contesto di sovraffollamento, degrado e condizioni sanitarie intollerabili.

Che proposte avete per migliorare la situazione?

A gennaio abbiamo approvato una mozione sul carcere, votata all’unanimità anche dalla maggioranza, in cui chiediamo di assumere nuovi educatori e puntare sulle misure alternative. In Italia i detenuti sono tornati ad essere 65mila, 20mila in più del previsto. Di questi, 30mila sono in attesa di giudizio, altri 30mila stanno in carcere meno di 11 giorni in un anno. Il carcere totale, il fortino, è necessario solo per 10mila detenuti. Come si fa all’estero: nella vicina Spagna il fortino è riservato solo alla criminalità organizzata. Gli altri lavorano dentro e fuori il carcere. Se il fine ultimo è il recupero sociale, il reinserimento come dice la Costituzione, la pena deve essere certa ma non rigida. Noi proponiamo di utilizzare i fondi della Cassa ammende, 159 milioni di euro, per le misure alternative. Anche perché i dati ci dicono che chi lavora ha una recidivia del 19 per cento, contro il 68 per cento di chi sta in carcere. Una differenza enorme. Con metà dei detenuti in carcere, tra l’altro, ci sarebbero anche notevoli risparmi economici.

Oggi invece come sono destinate le risorse?

In questi anni abbiamo assistito alla crescita non della criminalità ma della criminalizzazione. Gli stranieri sono ormai il 38 per cento dei carcerati, poi ci sono i tossicopidendenti e i malati psichici. Mentre cresce l’intervento penale, diminuiscono gli interventi socio-sanitari: mancano psichiatri, assistenti sociali e, soprattutto, educatori. Prevale la custodia rispetto alla rieducazione individuale. La polizia carceraria rappresenta l’80 per cento del costo dell’amministrazione. Sono 43mila mal utilizzati, dispersi in tante piccole carceri: l’80 per cento delle strutture italiane ha meno di 300 detenuti, senza economia di scala. L’idea che tutto si risolva solo con nuove carceri e nuovi poliziotti è sbagliata. Bisogna ripensare il modello di istituto penitenziario.

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Europa, 28 aprile 2010 – Magari il modello Westminster

I dibattiti televisivi tra Gordon Brown, David Cameron e Nick Clegg (mandati in onda da Sky Tg24) andrebbero trasmessi a reti unificate. Nei sondaggi, lo spostamento dell’opinione degli elettori inglesi non è mai stato così ampio e le elezioni del 6 maggio potrebbero riscrivere le regole della politica inglese.
Nick Clegg ne ha indubbiamente approfittato del confronto tv per mettersi in vetrina. Ma la dimensione insospettata del gradimento per la sua performance suggerisce che gli elettori stanno facendo qualcosa di più che scegliere il vincitore di un concorso di bellezza. La questione che si pensava avrebbe dominato la campagna elettorale, l’enorme buco nei conti pubblici, è stata dimenticata (anche se tagliare la spesa sarà la vera sfida) e, come ha osservato Philip Stephens sul Financial Times, la campagna ora si basa su quel che pensano gli elettori della politica e dei politici. E non ne pensano molto bene, alle prese con una dolorosa recessione e con lo scandalo dei rimborsi spese gonfiati dai deputati, che hanno fatto scoprire all’opinione pubblica inglese l’esistenza di una «casta» che abusa dei propri privilegi.
La fortuna o il genio di Nick Clegg è stato quello di un uomo di partito che ha assunto la guida del partito dell’antipolitica.
Eppure, Clegg è uno dei figli più coccolati dell’establishment e, prima diventare un libdem, a lungo si è trastullato con l’idea di aderire ai conservatori; e quanto alle politiche, ha alcune idee sensate sulle libertà civili e la politica estera e alcune idee («strampalate», scrive il Ft) sulle tasse. Ma non importa.
Quel che davvero conta è il riferimento continuo agli old parties, labour e conservatives, i partiti vecchi ed esausti.
Ecco, seguire il confronto tra i tre leader inglesi ci aiuterebbe a tenere presente che i tempi sono parecchio cambiati.
Da quant’è che dalle nostre parti si discute della crisi della politica come se l’erosione della fiducia fosse dovuta a fattori propri solo del nostro paese? Certo, gli italiani non ne possono più delle distorsioni della politica, ma in realtà in tutte le società industriali avanzate la gente è diventata più autonoma e sfida le élite. L’accrescersi della sicurezza esistenziale, le condizioni di prosperità economica raggiunte dalle società industriali avanzate, hanno generato, come ha documentato Ronald Inglehart, una nuova visione del mondo che si accompagna alla de-enfatizzazione di tutte le forme di autorità (da quella burocratica a quella religiosa, come stiamo vedendo) e a un’erosione di molte delle istituzioni chiave.
In un libro pubblicato non molto tempo fa da Polity Press con un titolo emblematico, Why We Hate Politics, Colin Hay ha esaminato le ragioni della disaffezione per la politica e del disimpegno nelle società occidentali.
Hay osserva che, tanto negli Usa che nel Regno Unito, i dati sembrano suggerire tre cause principali.
In primo luogo, la (percepita) tendenza delle élite politiche di rovesciare l’interesse pubblico collettivo nella gretta ricerca dell’interesse di partito o personale. In secondo luogo, la (percepita) tendenza delle élite politiche di finire preda dei grandi interessi. Infine, la (percepita) tendenza del governo all’uso inefficiente delle risorse pubbliche.
Tutte cose che dovrebbero suonare familiari anche alle nostre orecchie. Bisognerà, prima o poi, farsene una ragione: oggi nessuno partecipa più alla politica come in passato.
Per questo bisogna passare definitivamente da una concezione e da una pratica politica fondate su una dichiarazione e una scelta di appartenenza a quelle fondate sulla responsabilità della scelta per il governo del paese. Specie se si considera che il nostro paese deve fare i conti non solo con il malessere che, dovunque in Occidente, circonda l’attività politica, ma anche con una dirompente sfiducia nello stato. Una costante nella storia nazionale che la mancata modernizzazione del paese ha aggravato al punto che oggi è in discussione la stessa unità nazionale. Naturalmente per i «costituenti» impegnati nell’ormai trentennale dibattito sulle riforme, la frequenza alle «lezioni di inglese» dei leader britannici è obbligatoria.
Se non altro, per mandare a memoria l’ammonimento di Giovanni Sartori: «Occorre ricordare che la costruzione di un sistema di premiership sfugge largamente alla presa dell’ingegneria costituzionale. Le varianti britannica o tedesca di parlamentarismo limitato (di semi-parlamentarismo) funzionano come funzionano soltanto per la presenza di condizioni favorevoli». Se ancora ce ne fosse bisogno, la meschina campagna delle regionali, lo scontro tra il premier e il presidente della camera, l’attesa rinascita di un grande centro e la stessa ipotesi di un Cln, mostrano che l’idea di trapiantare il modello Westminster alle nostre latitudini è fatta, direbbe un altro grande inglese, della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.

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Il Foglio, 7 maggio 2010 – Un altro giovane capo del Pd interviene con libertà di tono sulla giustizia e sul caso Scaglia

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Il Piccolo, 9 maggio 2010 – Maran: giustizia? Lo scandalo è la carcerazione preventiva

Il vicecapogruppo del Pd solleva il caso Scaglia: «Detenzione inaccettabile»

di FABIO DORIGO

 «Per trovare una magistratura con prerogative simili bisogna considerare quella iraniana». La frase, nero su bianco, è apparsa in una lettera al Foglio. Il copyright non è berlusconiano. L’autore, stando alla libera titolazione del quotidiano di Giuliano Ferrara, è un «giovane capo del Pd» che «interviene con libertà di tono sulla giustizia e sul caso Scaglia». Il nome è quello del deputato isontino Alessandro Maran, vicepresidente dei deputati del Pd, che ha sollevato il caso di Silvio Scaglia, l’ex amministratore delegato di Fastweb, in carcere ”preventivo” da 71 giorni 17 ore e 2 minuti e 6 secondi (dato aggiornato alle 19 di ieri sul sito www.silvioscaglia.it) nell’ambito dell’inchiesta su un presunto maxi riciclaggio di circa 21 miliardi di euro. «Una detenzione ingiustificata e per certi versi anche scandalosa» certifica Maran.
Perchè sollevare ora il caso Scaglia?
È l’occasione per porre una questione centrale: quella della custodia cautelare.
In che senso?
Il 50% dei nostri detenuti sono in attesa di giudizio. È una cosa che non sta né in cielo, né in terra.
Nasce da qui l’emergenza carceri…
Affrontare la questione della detenzione preventiva significa affrontare di petto la questione del sovraffollamento incivile delle carceri italiane. E soprattutto farlo senza toccare il nodo dell’effettività della pena.
Cioè senza mettere mano ad altri indulti?
Esatto. Bisogna stare in carcere quando c’è la condanna. Non si tratta di condonare niente.
Si dice che il grado di civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri…
Sono d’accordo. La nostra è una vergogna nazionale.
C’è quindi un abuso di carcerazione preventiva?
I dati dicono questo. C’è un uso indiscriminato.
Nel caso di Scaglia, che si è pure consegnato volontariamente ai giudici, effettivamente c’è poco da aver fiducia nella magistratura…
La magistratura deve avere la possibilità di condannarlo. Non si deve stare dentro in assenza di condanna.
Recentemente il presidente Napolitano ha invitato la magistratura ad una «seria riflessione critica su se stessa».
Il discorso va fatto a livello generale. È nell’interesse di tutti che la Giustizia funzioni.
La sua lettera sembra però dare ragione ai fantasmi di Berlusconi?
Berlusconi non è interessato a una vera riforma della giustizia. Punta solo a risolvere alcuni dei suoi problemi. Si limita ad esibire all’opinione lo sfascio della giustizia per alimentare il suo vittimismo.
I tempi della Giustizia italiana non sono però difendibili..
Sono come quelli del Gabon. Con una differenza però…
Quale?
Che l’Italia spende per la Giustizia più dell’Olanda, della Svezia e della Germania. E non è colpa della magistratura…
… anche se in Italia ha più poteri che in Iran?
Lo sostiene uno studioso come Carlo Guarnieri.
Un riequilibrio necessario…
Il nodo è quello della responsabilità. Chi esercita un grande potere deve avere una grande responsabilità.

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GIORNALI2010

l’Unità, 14 maggio 2010 – Il problema purtroppo non è più Berlusconi: è come aiutare il Paese

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GIORNALI2010

Europa, 3 giugno 2010 – Insisto: difendo i parlamentari

Una decina di giorni fa, dopo che i giornali avevano dato rilievo al presidente della camera Gianfranco Fini che stigmatizzava la settimana cortissima dei lavori parlamentari, come parlamentare avevo deciso di mettere un post sul mio blog. Mi domandavo, sollecitato anche da mia moglie, come venisse percepito il mio impegno a Montecitorio di fronte ai continui attacchi all’istituzione parlamento da parte dei media e, in quel momento, anche da parte del suo presidente. Per cercare di dimostrare che non siamo tutti fannulloni o membri della cricca o ricchi sfondati raccontavo del lavoro di un deputato (che non si esaurisce nel voto in aula, ma comprende gli impegni in commissione o nel territorio dove incontriamo e ascoltiamo la gente che poi ci dà o ci nega il voto persino in queste camere di comandati) e, per maggiore trasparenza, aggiungevo anche l’ammontare del mio stipendio e il contributo che verso al mio partito, il Pd, sottolineando anche di essere un privilegiato rispetto a moltissimi italiani sottopagati o disoccupati.
Quelle righe volevano essere anzitutto un monito per tutti: come si può pensare (lo chiedo anzitutto ai nostri leader) di conservare e addirittura rafforzare la democrazia parlamentare se oggi sputare addosso ai parlamentari e al parlamento è diventato uno sport nazionale? È chiaro che, di questo passo, Berlusconi otterrà il presidenzialismo (quello sudamericano, naturalmente) per acclamazione. Certo che si deve riformare il parlamento (noi proponiamo infatti di dimezzare il numero dei parlamentari), ma smettiamo di denigrare la democrazia rappresentativa e il bilanciamento che anche queste nostre camere fanno a un esecutivo che la fa già da padrone, ma che potrebbe spingersi molto più in là. Berlusconi se la gode ogni volta che il parlamento e chi lo popola è sotto accusa. E molti vorrebbero che queste Aule fossero occupate soltanto dai ricchi, che si tornasse a quelle sabaude, formate da conti e da marchesi, da qualche vescovo e dai presidenti degli ordini professionali.
Sono finito in un articolo di Repubblica a far da chiusura a un’inchiesta in cui si parlava di tagli agli emolumenti degli onorevoli. Il mio allarme sulla concreta minaccia di un presidenzialismo sudamericano, è diventata la difesa del mio stipendio e non dell’istituzione nella quale sono orgoglioso (visto che vengo “dal basso”) di portare le istanze di chi mi ha dato fiducia. E sono finito nel tritacarne del web e nella cronaca dei giornali locali, che si sono alimentati a vicenda.
Amarezza a parte, trovo che il problema sia molto serio. Da quant’è che il carattere compromissorio dell’ordinamento parlamentare, la sua lentezza in fatto di decisioni e, più in generale, quel che accade «dentro il parlamento», sono additati al disprezzo dell’opinione pubblica? Sia chiaro: quel che è avvenuto in questi anni (a partire dalla dissoluzione del vecchio sistema dei partiti) non è un incidente di percorso e da tempo la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Non credo neppure che il parlamentarismo limitato, il sistema tedesco (specialmente se «alle vongole ») o la riduzione dei parlamentari possano bastare: too late, too little; e penso che dovrebbe essere il centrosinistra ad avanzare e precisare il tema del presidenzialismo (visto che bisogna ricostruire il sistema dei checks and balances tra poteri e istituzioni dello stato) come complemento necessario dell’Italia federale.
Ma resto dell’idea che il parlamento non sia soltanto un costo. Nonostante le contraddizioni, i ritardi e gli errori, l’Italia repubblicana è riuscita non solo a conservare la democrazia, ma a consolidarla, garantendo oltre 50 anni di pace, di sviluppo e di progresso come mai nella storia della penisola. Basterebbe questa constatazione a ricordare la superiorità della democrazia rappresentativa rispetto a qualsiasi altra forma di regime politico.
E resto dell’opinione che quando i mezzi di informazione avranno finito di raccontare che siamo tutti quanti, senza distinzione alcuna: inutili/fannulloni/ truffatori/puttanieri, non basterà un editoriale o qualche mail a rimettere tutto a posto. L’ultima volta che il parlamento è stato chiuso (un intervento sul mio blog ha ricordato le invettive che l’ala extraparlamentare ha sempre lanciato contro il “cretinismo parlamentare” dei traditori corrotti della classe operaia), per riaprirlo è corso molto sangue e il paese è stato ridotto in macerie.

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