GIORNALI2010

Europa, 19 gennaio 2010 – Rosarno colpa di questa Italia

Stavolta Avvenire l’ha messa giù dura, esortandoci, nell’apertura dell’edizione di sabato scorso, a «smetterla di non vedere». L’editoriale di Antonio Maria Mira cominciava così: «Rosarno, Italia: cinquemila immigrati, in gran parte irregolari, pagati (quando va bene) 18-20 euro al giorno per 12-14 ore di lavoro a raccogliere agrumi, ammucchiati in ex fabbriche senza acqua e senza luce, sfruttati…».«Val di Non, Italia: settemila immigrati, tutti regolari, pagati 6,90 euro all’ora per 8 ore di lavoro a raccogliere mele, con vitto e alloggio assicurato dai datori di lavoro, sotto il rigoroso controllo della provincia di Trento e dei comuni della zona. Dietro alla drammatica rivolta degli immigrati africani della Piana di Gioia Tauro, dietro la reazione degli abitanti, sfociata ieri sera in due feroci gambizzazioni, c’è ancora una volta questa Italia spaccata in due, questo paese che, come ha denunciato più volte il capo dello stato, viaggia a velocità diversissime. Due Italie, forse addirittura due pianeti diversi».

Forse dovremmo davvero «smetterla di non vedere». Berlusconi è quello che è, ma il nodo irrisolto della storia della repubblica, il punto su cui si concentra la crisi, non è forse il divario terribile fra il Sud e il Nord? Non è forse questo il vero punto di rottura? Non è da qui che ha avuto origine l’idea federale? «Quell’idea che – come osserva Biagio de Giovanni nel suo ultimo libro – da allora non sarebbe più uscita dal dibattito politico, con – da destra a sinistra: ecco il senso dell’egemonia! – la parola d’ordine “tutti federalisti” (…) e la Lega federalista sembra addirittura diventare paladina di un rinnovamento possibile (l’unico, si comincia a dire) del Mezzogiorno: quante cose può significare l’egemonia!».

Dico di più. Sicuramente il Cavaliere di problemi ha risolto solo qualcuno dei suoi, ma di certo non è la sola fonte dei nostri guai. La mafia, la corruzione, il terrorismo, l’evasione fiscale, il debito pubblico, il disastro della scuola, della giustizia, di Alitalia, delle ferrovie, l’inefficienza dell’apparato pubblico, l’illegalità edilizia, il divario Nord-Sud, c’erano anche prima dell’arrivo di Berlusconi. E forse converrebbe abbandonare l’illusione che una volta tolto di mezzo il Caimano, ritornerà l’età dell’oro. O si pensa davvero che, come va dicendo Di Pietro, Berlusconi sia il fascismo? Non scherziamo: Berlusconi non ha la cultura politica di Mussolini e in Italia non c’è una dittatura fascista. Al contrario, Berlusconi ha aiutato la costituzionalizzazione della destra. Perché gli serviva, naturalmente. Il che non toglie che abbia contribuito anche all’evoluzione della democrazia italiana. Al punto che non sarebbe fuori luogo chiedersi se Berlusconi non stia svolgendo (addirittura) una funzione democratica: dopotutto, ha integrato la destra fascista nella democrazia italiana ed europea e sta tenendo a bada un partito secessionista.

Dico questo perché con il Caimano fuori dai piedi, le cose potrebbero persino peggiorare: con al Nord (un Nord ormai largamente disponibile a una «separazione di velluto » come quella cecoslovacca) un grande partito secessionista in grado di rompere l’argine emiliano e, al Sud, un’alleanza tra clan, formazioni autonomiste e i cocci del Pdl. Non è un mistero per nessuno che oggi il punto di vista della Lega (il peso insopportabile di un Mezzogiorno parassita, improduttivo e preda dell’illegalità criminale) sia ormai diventato senso comune. Anche in conseguenza del fallimento nel Mezzogiorno del compito riformatore che si era assegnato il centrosinistra. Non è un caso che uno come Vittorio Feltri abbia scelto, per l’edizione del Giornale dedicata alla «caccia al negro» scatenatasi a Rosarno, un titolo provocatorio: «Anziché ai negri, sparate ai mafiosi». «Se i calabresi – si legge nel sottotitolo dell’apertura – combattessero la ‘ndrangheta con la stessa foga con cui si ribellano agli immigrati, risolverebbero i problemi della loro regione. Ma preferiscono i criminali agli africani che sgobbano al posto loro: peccato…».E ora, per espandersi elettoralmente, la Lega cerca di riplasmare il senso comune locale, in direzione di un ritorno a un cattolicesimo preconciliare e dell’etnicizzazione della religione. Da qui l’insofferenza crescente verso quella Chiesa che si oppone a xenofobia e tramonto del solidarismo.

Come ha osservato Luciano Violante in una recente intervista: «Dobbiamo fare le riforme. Urge un gesto sano per il nostro paese che, oggi, ha un unico perno attorno cui bene o male ruota: il presidente del consiglio (…) E «l’indebolimento del carisma del capo mette in crisi partito e sistema. Possono naufragare entrambi». Per questo, sostiene Violante, dobbiamo «consolidare il sistema attraverso le riforme». Giusto. Il fatto è che la realtà di tutti i giorni non fa che dimostrare quanto sia velleitario il progetto di restaurare la «democrazia dei partiti» della (non rimpianta) Prima repubblica e quanto sia impraticabile e chimerica la delega ai «professionisti». Per la semplice ragione che non c’è modo di ripristinare il vecchio sistema con un intervento di restauro.

Il bello è che ormai si prende atto che non è più possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma si continua a ritenere che quella forma della partecipazione politica e quel sistema politico siano i migliori.

Perciò, si cerca di avvicinarsi il più possibile a quel modello e di salvare più elementi possibili di quella esperienza. Inevitabilmente, chi coltiva questo atteggiamento nostalgico e questa visione conservatrice ha anche una disponibilità incerta, temporanea e reversibile ad emancipare la politica dalle vecchie ipoteche. Finendo per dire una cosa la mattina (le primarie e il maggioritario sono nel dna del Pd) per poi contraddirla la sera (se si può, le primarie è meglio evitarle e sarebbe meglio tornare al proporzionale).

Abbiamo ripetuto fino alla noia che il Novecento è finito. E non possiamo restare impelagati nelle sue macerie. Ha scritto ancora De Giovanni:«Se non si riesce a pensare nel nuovo contesto si resta nel vecchio, dove la gran parte dei dirigenti è stata allevata, e aggirandosi tra i suoi frammenti vi si resta impigliati, e si ritrova quella parzialità delle anime riformiste, quell’avviticchiarsi a spezzoni di idee che non hanno più la forza di una visione complessiva, quel sedersi sulla resistenza di grandi e piccole corporazioni che di volta in volta costituiscono i punti di forza: ora gli studenti, ora i magistrati, ora gli immigrati, spesso elevati, loro malgrado, a soggetti generali della storia».

Dobbiamo cambiare. Evadere dalle vecchie idee. Per non arrenderci all’idea che il Sud è il Sud, l’Italia è l’Italia e che bisogna farsene una ragione.

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