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Europa, 26 marzo 2010 – Dal predellino all’ampolla

Bossi lo annuncia nei comizi, i giornali lo scrivono in prima pagina, gli analisti lo commentano nei fondi. Il sorpasso della Lega sul Pdl è, per ora, una notizia che non esiste. Dovremmo aspettare lunedì notte o martedì 29 per commentare quel che è successo nelle 13 regioni che si apprestano al voto. Come si sa, in questa settimana, è vietato pubblicare i sondaggi, ma ciò non significa che non si facciano, che non siano tema di discussione interna ed esterna nei partiti o tra gli addetti ai lavori. Dunque se tanta carta è stata utilizzata per discernere del “sorpasso” leghista, qualche appiglio ci dovrà essere.

Quel che mi stupisce non è che se ne scriva. Quel che mi preoccupa è che ci sia chi ritiene che è alla Lega che si affidano anche le speranze del Pd per il dopo elezioni.
Berlusconi è quello che è (anche se spesso si sottovaluta la sua dimensione politica), ma come si fa a non vedere che è la Lega che costituisce il reale (e iniziale) punto di rottura del sistema italiano. Il punto su cui si concentra la crisi non è forse il dualismo italiano? Non è questo il nodo irrisolto, la breccia aperta? Non è da qui che ha avuto origine l’idea federale, vista come la panacea di tutti i mali. E con il federalismo (che ha significato passare dalla questione meridionale a quella settentrionale) non si voleva forse dire che andava rinnovato il “patto” repubblicano? Sono più di vent’anni che la Lega insiste sul peso del Mezzogiorno: improduttivo, parassita, preda dell’illegalità criminale. E oggi comincia ad incassare i risultati della sua fatica. Anche perché la dirompente sfiducia nello stato ne investe ogni livello territoriale e non viene più surrogata dalla fede in un superiore destino europeo. Ormai c’è un pezzo di Nord che del Sud non vuole più sentirne parlare e vuole separare il suo destino dal Mezzogiorno. E c’è un altro pezzo di Nord che non è comunque disposto a tornare alla vecchia Italia. La responsabilità di questo non è soltanto della destra ma anche del fallimento delle politiche e delle culture politiche repubblicane che, in passato, sono state dominanti.

È dalla crisi degli anni novanta che la questione aperta è quella di un profondo cambiamento della cultura nazionale e del modo di stare insieme degli italiani. Ed è da allora che andiamo ripetendo che dalle macerie o dal fallimento di Roma, dello stato nazionale, non si potesse costruire un paese migliore. Ebbene lo penso ancora oggi e mi stupisco che qualcuno coltivi l’illusione che, tolto di mezzo Berlusconi, consegnata l’egemonia dall’uomo del predellino a quello dell’ampolla, si possa aprire uno spazio di cambiamento o di riforme. Oltretutto indolore. Berlusconi è quello che è, ma se la Lega dovesse davvero fare cappotto al Nord e si aprisse nel centrodestra una fase di forte instabilità, potrebbe riproporsi lo scenario che dipingevano i Bossi e i Miglio vent’anni fa: scardinare le istituzioni, creare il caos, dividere l’Italia. E c’è da dubitare che in uno scenario del genere sapremmo (o potremmo) gestire quel dialogo sulle riforme di cui parla oggi Calderoli.

Mentre, vent’anni fa, cominciava a soffiare questo vento, abbiamo saputo far volare qualche speranza. Ricordate la primavera di Napoli? Ricordate come, per qualche anno, siamo stati capaci di unire l’Italia coinvolgendo le amministrazioni, dalla Val D’Aosta alla Sicilia, nelle famose “Cento idee per lo sviluppo” fortemente volute dal ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica, Carlo Azeglio Ciampi? Era il 1998, governava Romano Prodi. Bossi dava del piduista e del mafioso a Berlusconi, ma dichiarava a Telelombardia: «Non è vero che la secessione è stata tolta. Il parlamento della Padania eletto da milioni di persone funziona: quello è lo strumento per la secessione. E il 27 settembre si vota per la secessione».
Sono passati molti anni, ora il Senatùr usa soltanto parole di elogio per il suo alleato, reclama posti nella «Roma ladrona». Ma se alle prossime regionali la Lega raccogliesse il malcontento verso Berlusconi, vorrebbe dire che quella speranza di cambiamento che abbiamo suscitato e poi fatto sopire sotto cumuli d’immondizia, ha trovato dove andare. E non è venuta da noi.

Abbiamo idee, donne e uomini da contrapporre a Berlusconi e a Bossi. Dobbiamo vincere su queste basi. Rivolgendoci anche a quei settori di classe media indipendente del Nord non catturabile dalla Lega e dal tremontismo, perché, come scrive oggi Panebianco, «delusi dalla dismissione del programma liberista» e «refrattari alle chiusure del comunitarismo leghista».Niente scorciatoie, né il cielo, né i giudici, né la Lega possono liberare l’Italia da un governo che non si merita. L’alternativa passa per la nostra credibilità e per speranze che, stavolta, non dovremmo deludere.

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