«La violenza si riduce anche con condizioni migliori per i detenuti». Di fronte all’ennesimo morto in cella, il vicepresidente dei deputati Pd torna a parlare di giustizia.
di Sofia Basso
Di nuovo un morto in circostanze sospette, di nuovo mentre era sotto custodia dello Stato. Il caso di Giuseppe Uva, deceduto nel 2008 dopo essere stato trattenuto in una caserma di Varese, si aggiunge a quelli già noti di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino e di tutti gli altri cittadini fermati in buone condizioni di salute dalle forze dell’ordine e restituiti alle loro famiglie cadaveri e pieni di lividi. Ne abbiamo parlato con Alessandro Maran, vicepresidente dei deputati Pd, tra i firmatari di una mozione sul carcere approvata all’unanimità a gennaio:«Servono educatori e lavoro. Utilizziamo i fondi delle ammende per le misure alternative». Per ridurre la violenza e rispettare la Costituzione.
Ennesima morte sospetta in carcere: il Pd cosa dice?
Dobbiamo chiedere conto al governo: è evidente che qualcosa non ha funzionato. Devono chiarire cosa è successo, come e perché. Non è tollerabile che persone consegnate alla responsabilità dello Stato entrino vive ed escano morte. Appena si riconvoca l’aula dopo le lezioni presenteremo una interrogazione e chiameremo a riferire il ministro. Su questo insisteremo. Anche perché non si tratta di un episodio isolato:l’elenco è ormai lungo, come dimostrano i dossier annuali. La legittimazione dello Stato a punire non può prescindere dal modo in cui ciò viene svolto. La violenza in carcere, sia da parte degli operatori che tra i detenuti, si genera spesso in un contesto di sovraffollamento, degrado e condizioni sanitarie intollerabili.
Che proposte avete per migliorare la situazione?
A gennaio abbiamo approvato una mozione sul carcere, votata all’unanimità anche dalla maggioranza, in cui chiediamo di assumere nuovi educatori e puntare sulle misure alternative. In Italia i detenuti sono tornati ad essere 65mila, 20mila in più del previsto. Di questi, 30mila sono in attesa di giudizio, altri 30mila stanno in carcere meno di 11 giorni in un anno. Il carcere totale, il fortino, è necessario solo per 10mila detenuti. Come si fa all’estero: nella vicina Spagna il fortino è riservato solo alla criminalità organizzata. Gli altri lavorano dentro e fuori il carcere. Se il fine ultimo è il recupero sociale, il reinserimento come dice la Costituzione, la pena deve essere certa ma non rigida. Noi proponiamo di utilizzare i fondi della Cassa ammende, 159 milioni di euro, per le misure alternative. Anche perché i dati ci dicono che chi lavora ha una recidivia del 19 per cento, contro il 68 per cento di chi sta in carcere. Una differenza enorme. Con metà dei detenuti in carcere, tra l’altro, ci sarebbero anche notevoli risparmi economici.
Oggi invece come sono destinate le risorse?
In questi anni abbiamo assistito alla crescita non della criminalità ma della criminalizzazione. Gli stranieri sono ormai il 38 per cento dei carcerati, poi ci sono i tossicopidendenti e i malati psichici. Mentre cresce l’intervento penale, diminuiscono gli interventi socio-sanitari: mancano psichiatri, assistenti sociali e, soprattutto, educatori. Prevale la custodia rispetto alla rieducazione individuale. La polizia carceraria rappresenta l’80 per cento del costo dell’amministrazione. Sono 43mila mal utilizzati, dispersi in tante piccole carceri: l’80 per cento delle strutture italiane ha meno di 300 detenuti, senza economia di scala. L’idea che tutto si risolva solo con nuove carceri e nuovi poliziotti è sbagliata. Bisogna ripensare il modello di istituto penitenziario.