Category : GIORNALI2013

GIORNALI2013

Il Gazzettino, 10 gennaio 2013 – Maran: «Mi hanno buttato fuori»

 

Il deputato goriziano del Pd Alessandro Maran, in uscita dal Parlamento dopo 12 annni perché ha deciso di non partecipare alle primarie, non nasconde una «una pausa di riflessione» attorno ai Democratici, una pausa che ha «un senso». Non dice se lascerà il partito dopo che martedì aveva smentito le notizie nazionali che lo davano in direzione Monti. A chiedergli se sosterrà il suo partito nella corsa a guadagnarsi la guida della Regione il 21 aprile risponde: «Ho sempre sostenuto il Pd». Tuttavia, la parte finale di questa legislatura e quest’ultimo frangente della sua storia nel Pd paiono gravide di conseguenze. «Una sconfitta in sé non è grave», premette per motivare la sua pausa di riflessione. «Altra cosa,invece, è prendere atto che vogliono sbatterti fuori» dal partito. Perché questo secondo lui è quello che è successo all’area liberal dei Democratici, attraverso le modalità con cui si sono svolte le primarie prima e con la composizione delle liste poi, frutto di equilibri fra correnti interne. «Hanno buttato fuori tutti quelli che hanno sottoscritto l’appello di luglio», analizza Maran, cioè il documento di cui lui era il primo firmatario e in cui si chiedeva che «il Pd portasse l’Agenda Monti nella prossima legislatura». In sostanza, «hanno silenziato l’ala destra del partito», aggiunge, ricordando che dei 15 firmatari è rimasto in gara solo Giorgio Tonini che corre a Bolzano. Tra i sottoscrittori c’era anche Pietro Ichino, che ha abbandonato il Pd ed è considerato possibile candidato per Monti. Continuo a pensare necessaria un’evoluzione del partito nel senso degli schieramenti socialisti/laburisti europei, con la consapevolezza che il socialismo in Europa è un compromesso liberal-socialista e che la competizione si gioca al centro – spiega Maran – . Devo però prendere atto che nel Pd sostenere questa posizione è difficile». Di più. Che «per i riformisti che stavano attorno all’area liberal non c’è più posto». Pacato nei toni ma pungente nelle considerazioni, Maran ritiene che le primarie per il Parlamento siano state «una grande corrida». Inoltre, «c’è stato un appello al popolo per legittimare la leadership esistente, facendo rotolare le teste degli oppositori». E’ dispiaciuto che ci sia stata una radicalizzazione del voto militante e ritiene verosimile la preoccupazione espressa da Prodi che si possa verificare lo scenario del 2006, con il centrosinistra privo di maggioranza al Senato.

Leggi Tutto
GIORNALI2013

Il Piccolo, 11 gennaio 2013 – «Il Pd mi ha tradito. E ho detto sì a Ichino»

 

Assicura che «nulla è ancora definitivo». Ma, in serata, scioglie le riserve: «Ho accettato la proposta di Pietro Ichino di correre come capolista al Senato per “Scelta civica” di Mario Monti in Friuli Venezia Giulia». Alessandro Maran, deputato goriziano uscente del Pd, è la sorpresa maggiore delle liste in regione. E spiega perché, in due giorni, è cambiato tutto. Maran, aveva appena detto di credere nel progetto del Pd, e invece? Ho preso atto che mi hanno sbattuto fuori. Ma il partito non è oggetto di un atto di fede. Non è casa, chiesa e famiglia. Va con Monti, dunque, perché è stato escluso dalle liste del Pd? Non è un caso personale, ci hanno messo alla porta. Bersani ha scelto di «silenziare» l’ala destra del partito. C’è la volontà di restringere i confini del Pd marcando una frontiera netta con Monti. Rivelando oltretutto una concezione limitata del pluralismo interno. Per i «montiani» non c’è più posto nel Pd. Se n’è accorto in ritardo? È il fatto nuovo delle ultime ore. Intollerabile. Com’è arrivata la proposta della lista Monti? Da Ichino, un amico. Ci ho pensato e ho deciso di accettare. Perché non ha partecipato alle primarie? Il metodo presupponeva un consenso territorialmente molto concentrato e il sostegno della corrente di maggioranza. Non è il mio caso. Un esito già scritto? Collegi provinciali con effetti localistici, tre giorni di campagna elettorale, limitata solo all’elettorato di appartenenza, mobilitabile dagli eletti locali o dal principale sindacato di riferimento. La scelta della commissione nazionale di consentire al lettiano Brandolin di gareggiare, liberando così un posto in Consiglio regionale, ha poi chiuso la partita. Il partito le aveva prospettato una soluzione? Neppure una telefonata. Deluso? Ho avuto il privilegio di servire l’Italia in uno dei periodi più difficili. E mi sono battuto coerentemente per dar vita, con il Pd, a un grande partito riformista, capace di svolgere la stessa funzione politica che nei principali Paesi europei è dei partiti socialdemocratici. Sono orgoglioso e ringrazio gli elettori e i militanti per la fiducia che mi hanno accordato. Giusto rinnovare? Certo che bisogna rinnovare. Ma non abbiamo bisogno di nuovi interpreti delle vecchie idee. Abbiamo bisogno di idee nuove. Di teste nuove, non di facce nuove. Il modo è un imbroglio. L’appello al popolo ha rilegittimato il gruppo dirigente «centrale», che si è garantito e resta intatto, tanto che si dice che D’Alema sarà ministro, facendo rotolare le teste degli oppositori interni e di qualche dirigente periferico. Come in Cina. Come ha agito Debora Serracchiani? Ha fatto quel che poteva. E le correnti sono accontentate. Perché Monti ha fatto bene a scendere in campo?Vogliamo mettere una argine alla destra antieuropea, sì o no? Vogliamo mettere in mora il conservatorismo che si nasconde sia a destra che a sinistra? Sono le condizioni per far ripartire il Paese. Che cosa auspica dal punto di vista elettorale? Comunque vada, non si potrà prescindere da un rapporto positivo tra le uniche due realtà dotate di cultura di governo, il Pd e Monti, di fronte alle tre proposte populiste di Ingroia, Grillo e Berlusconi. Il futuro del Pd? Il Pd è distante dal partito aperto e plurale che si era immaginato all’inizio. Ha trovato consenso su una deriva identitaria. Lo slogan congressuale di Bersani («Trovare un senso a questa storia»), dove l’uso della storia è al singolare, era rivelatore. È prevalsa la logica di chi, per paura, sotterra i talenti, ripiega sulle tradizioni consolidate. Un tradimento.

Leggi Tutto
GIORNALI2013

Messaggero Veneto, 13 gennaio 2013 – «LA DIFFICILE SCELTA DI MARAN»

 

di Tommaso Cerno

Ho letto, come tutti, sul Messaggero Veneto le reazioni, abbastanza scontate e prevedibili, alla candidatura di Alessandro Maran come capolista al Senato con la lista del premier Mario Monti. Detto che, in politica, ognuno la pensa come vuole (ma anche che chi sta da una parte attacca chi sta dall’altra, ed è normale), mi pare che il Pd stia liquidando con troppa fretta e sicumera l’addio, sofferto, di uno dei suoi esponenti di maggiore prestigio. Voglio dire: se Maran lascia il partito che contribuì a fondare, figlio di quei Ds che guidò ormai più di un decennio fa, padre della discesa in campo di Riccardo Illy – assieme al suo successore alla segreteria regionale del Ds, Carlo Pegorer – non credo si possa banalizzare tutto tirando in ballo il trasformismo o, peggio, il voltagabbanismo. Certo è la risposta più populista e facile da dare, ma è anche una risposta imprecisa, semplicistica e deleteria per un partito che si appresta a fare una campagna elettorale dove ha l’imperativo categorico di vincere, almeno stavolta, le elezioni. Io credo che il Pd abbia piuttosto il dovere di chiedersi perché Maran ha fatto questa scelta e di scorgere, dietro l’addio del vicecapogruppo alla Camera, una questione politica che non riguarda solo la poltrona di tizio o di caio, ma le scelte che il Pd ha fatto dall’indizione delle primarie Bersani-Renzi fino alla chiusura delle liste, passando per le parlamentarie che, come si è visto, porteranno in Parlamento sostanzialmente un monocolore, pur benedetto dal Pd locale e dai suoi leader o sindaci rampanti. Per prima cosa va sgombrato il campo da una bugia: Maran non esce dal Pd in quanto renziano deluso, ma in quanto persuaso che l’area liberal del partito, quella che ai tempi di Togliatti e Berlinguer si chiamava area migliorista (e che fondò il Pd assieme agli allora fassiniani del Ds e ai rutelliani della Margherita, quando Renzi ancora non esisteva come fenomeno politico) sia stata espulsa dall’agenda del partito, dalla sua cultura politica, dal dibattito interno. Se questo fosse vero, c’è da temere che – come Maran – anche una parte degli elettori che si riconoscono in quella visione (europeista, aperturista sul lavoro, sull’articolo 18, sui diritti civili, sul concetto di sinistra in generale) possano guardare altrove. Sarebbe gravissimo, anche in vista delle elezioni regionali dell’aprile 2013. Secondo punto controverso. Ricordiamo le parole con cui, poco prima di Natale, l’economista Pietro Ichino ha scelto di lasciare il Pd seguendo Monti: «La risposta negativa di Bersani al bellissimo discorso di Monti di ieri è per me decisiva. Non c’è nessun mistero, né alcun giallo: tutto è stato fatto alla luce del sole. Molte delle tesi esposte nel manifesto di Monti sono le stesse di un documento che ho presentato il 29 settembre scorso in un’assemblea pubblica e sottoscritto da diversi parlamentari del Pd». Bene, fra i firmatari di quel documento, c’era anche Maran che, in tempi non sospetti, si era schierato per rappresentare la destra del Pd, proprio come fece Napolitano negli anni Ottanta e Novanta, premiato con la presidenza della Camera, senza tirare in ballo in Quirinale, non certo con l’epurazione. Terzo e ultimo punto: da quel che si capisce, in Italia il fenomeno dei riformisti che guardano a Monti – da Ichino ad Adinolfi – è ampio. E va dunque inserito in questo contesto il gesto di Maran. La questione non è quella di perdere una poltrona, magari la sua, ma la presa d’atto che sostanzialmente tutto il gruppo che firmò quel documento è fuori, fatto salvo Giorgio Tonini, ma solo perché in Trentino si vota con il Mattarellum e c’era bisogno di incassare il sostengo dei centristi. In questo scenario, la scelta di Maran di continuare a percorrere la linea politica filo-montiana che aveva connotato il suo impegno parlamentare nell’ultimo anno potrà essere criticabile, ma non tacciabile di trasformismo. Anche perché mamma Roma insegna che un vicecapogruppo a Montecitorio, 52 anni, per cui giovane, se aveva come obiettivo la riconferma a tutti i costi avrebbe potuto giocare una partita molto diversa. E più semplice: stare con la maggioranza.

Leggi Tutto
GIORNALI2013

Messaggero Veneto, 17 gennaio 2013 – «Il Pd non vuole tra i piedi i riformisti dell’area liberal»

 

di ALESSANDRO MARAN

Comprendo il nervosismo che si cela dietro le scomuniche e i giudizi sprezzanti che, come nei tempi andati, lasciano intendere che «anche nella criniera di un nobile cavallo da corsa si possono sempre trovare due o tre pidocchi». E potrei ironizzare a lungo su quanto le «scelte personali» abbiano contato nelle decisioni della segretaria del Pd. Ma la questione è molto semplice: se avessi pensato unicamente alla «busta paga» in questi anni mi sarebbe bastato stare con la maggioranza e sostenere Bersani. Come hanno fatto in tanti. Anche quelli che si erano schierati dalla parte opposta, prima con Veltroni e poi con Franceschini. Avrei potuto adeguarmi alla maggioranza e tenere la bocca chiusa anziché battermi apertamente con l’iniziativa per l’agenda Monti e una ingente quantità di interventi e proposte. Senza contare che, come in molti lasciano intendere, se avessi fatto il bravo, mi avrebbero «recuperato» in qualche modo. Ma io non voglio fare il bravo. La politica è lo spazio della scelta. Che per me non ci sia posto in lista passi, ma che non ci sia posto per un’intera area politico-culturale è inammissibile. E di questo ho preso atto solo dopo la riunione della direzione nazionale. Il che spiega l’incoerenza tra le due dichiarazioni (e rivela anche che non avevo architettato la fuga). Ma questi sono dettagli. La sola cosa che conta, il fatto «politico», è che il Pd ha scelto di bandire una precisa area politico culturale dal suo stesso progetto politico. Dire, come fa Serracchiani, che comunque all’interno del Pd è rappresentata l’area moderata è una sciocchezza. L’area liberal non ha niente a che vedere con Fioroni. È l’area liberal-socialista del partito, erede della tradizione migliorista di Napolitano. L’area che più di ogni altra si è battuta per dare vita al Pd, per la convergenza delle diverse culture riformiste nella costruzione di una cultura politica comune e per costruire la sinistra italiana come crogiuolo dei diversi filoni (liberalismo, socialismo, personalismo cristiano) che si sono variamente intrecciati nella sinistra europea. È questa l’area che il Pd, preda ormai di una deriva identitaria allontana come «altro da sé». E non intenderne la portata rivela una imperdonabile inconsapevolezza della vicenda storica del nostro Paese, di cosa sia la sinistra in Italia (e non solo in Italia) e svela la determinazione a restringere il perimetro del Pd. La mia battaglia dentro la sinistra e nel Pd l’ho combattuta per anni. Ma ho perso. E ora l’area liberal è stata messa a tacere. Può anche darsi che la componente possa ricostruirsi, ma nella situazione in cui siamo l’Italia ha bisogno di cambiamento, di fiducia, di riforme; e non può permettersi i ritardi culturali della sinistra. Sostenere, come ha fatto Serracchiani, che Monti non è un riformista è un’altra sciocchezza. Grazie a Monti l’Italia è riuscita a rompere lo stallo in cui versava la politica europea: rimettendo in moto il processo comunitario per la condivisione delle politiche economiche. E chi sta a Bruxelles dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro. Di più: oggi «Riformismo versus Populismo» è la dicotomia che spiega il tempo che ci è dato vivere. Si tratta di un tema strategico. Non per caso proprio Mario Monti ha proposto un vertice europeo per discutere dei populismi. Il campo del populismo non coincide con il campo della destra o della sinistra: è un campo mobile. E il vero discrimine della politica italiana oggi non è quello tra la sinistra di Bersani-Vendola e la destra di Berlusconi-Maroni. Il vero discrimine è tra chi è convinto della strategia che abbiamo concordato con i nostri partner europei per uscire insieme dalla crisi, e quanti, (come Vendola, Berlusconi, Maroni e alcuni dirigenti del Pd) sono convinti che proprio quella strategia sia la causa dei nostri mali. Queste sono le due alternative tra cui gli italiani devono scegliere il 24 febbraio. E la formazione che nasce con Monti mira a creare un nuovo bipolarismo positivo. Aggiungo che solo dalla collaborazione tra Bersani e il polo riformatore di Monti è possibile immaginare che il governo del Paese resti orientato in direzione del riformismo contrastando il populismo diffuso in tutti gli altri partiti in gara (Berlusconi, Grillo, Ingroia) e neutralizzando le spinte conservatrici. E il Pd farebbe bene a tenerlo a mente. Potrà non piacere a molti nel Pd, ma la strada da seguire è quella dell’iniziativa di quest’anno del presidente Monti. Come l’area liberal ha, appunto, cercato di indicare con l’appello del luglio scorso. Quei riformisti che il Pd non ama e non vuole tra i piedi.

Leggi Tutto
GIORNALI2013

Il Gazzettino, 17 gennaio 2013 – «Hanno fatto sparire l’area moderata»

 

Com’era prevedibile, nei giorni scorsi sui giornali è andata in scena, «l’ira del partito contro il traditore». «Non trovo giustificazioni – ha sentenziato Debora Serracchiani. E’ una scelta personale che non può essere ammantata da valore politico. Anche perché i riformisti in questo momento sono nel centrosinistra e perché Monti non è un riformista. Inoltre – ha concluso – non credo affatto che al’interno del Pd non sia rappresentata la cosiddetta area moderata». Per Gherghetta sono «semplicemente» andato da chi mi «garantiva la busta paga». Una «scelta personale»? Comprendo il nervosismo che si cela dietro le scomuniche e i giudizi sprezzanti che, come nei tempi andati, lasciano intendere che «anche nella criniera di un nobile cavallo da corsa si possono sempre trovare due o tre pidocchi». E potrei ironizzare a lungo su quanto le «scelte personali» abbiano contato nelle decisioni della segretaria del Pd. Ma la questione è molto semplice: se avessi pensato unicamente alla «busta paga» in questi anni mi sarebbe bastato stare con la maggioranza e sostenere Bersani. Come hanno fatto in tanti. Anche quelli che si erano schierati dalla parte opposta, prima con Veltroni e poi con Franceschini. Avrei potuto adeguarmi semplicemente alla maggioranza e tenere la bocca chiusa. Senza contare che, se avessi fatto il bravo, mi avrebbero «recuperato» in qualche modo, come in molti ora lasciano intendere. Ma io non voglio fare il bravo. La politica è lo spazio della scelta. Che per me non ci sia posto in lista può capitare, ma che non ci sia posto per un’ intera area politico-culturale è inammissibile. E poi: sostenere, come ha fatto Serracchiani, che Monti non è un riformista è un’altra sciocchezza. Di più: oggi «Riformismo versus Populismo» è la dicotomia che spiega il tempo che ci è dato vivere. Ora solo dalla collaborazione tra Bersani e il polo riformatore di Monti è possibile immaginare che il governo del Paese resti orientato in direzione del riformismo contrastando il populismo diffuso in tutti gli altri partiti in gara (Berlusconi, Grillo, Ingroia) e neutralizzando le spinte conservatrici. E il Pd farebbe bene a tenerlo a mente. Anche perché su tutti i temi dell’agenda politica che verrà – come si affanna a ripetere il presidente Napolitano – «saranno necessari nel nuovo Parlamento sforzi convergenti, contribuiti responsabili alla ricerca di intese». Potrà non piacere a molti nel Pd, ma la strada da seguire è quella dell’iniziativa di quest’anno del presidente Monti. Come l’area liberal ha, appunto, cercato di indicare con l’iniziativa per l’agenda Monti del luglio scorso. Quei riformisti che il Pd non ama e non vuole tra i piedi.

Leggi Tutto
GIORNALI2013

Il Gazzettino, 22 gennaio 2013 – GIÀ VACILLA L’ASSE FRA PD E SEL

 

di ALESSANDRO MARAN

La campagna elettorale è appena cominciata e già la prima (grave) crisi internazionale si è incaricata di dimostrare quanto sia precario l’accordo tra Partito democratico e Sinistra e libertà. Le prime divergenze tra gli alleati Pd e Sel si sono consumate proprio in questi giorni sull’intervento militare deciso da Francois Hollande in Mali. Bersani difende la decisione del presidente socialista francese e Vendola non è d’accordo.
Come da copione, la collocazione internazionale dell’Italia fa vacillare il progetto di alleanza di governo del Pd. Anche stavolta la comunità internazionale è direttamente coinvolta (a cominciare dalle Nazioni Unite, il cui rappresentante speciale per il conflitto nel paese è Romano Prodi) e l’accelerazione della crisi ha reso del tutto evidente che il rapido contagio regionale può arrivare fino alle coste mediterranee.
E qui diventa più chiaro l’interesse dei paesi europei per quanto accade nel paese subsahariano – compresa la decisione del governo italiano (come di quello tedesco) di contribuire alle operazioni internazionali, per ora con una forma di supporto logistico. L’Algeria è un attore di notevole importanza come fonte di approvvigionamento energetico, soprattutto per l’Italia.
Ma alla vigilia di un probabile nuovo governo di centrosinistra non è cambiato molto rispetto ai tempi dell’Unione di Romano Prodi.

(*) Capolista al Senato

“Con Monti per l’Italia”

Leggi Tutto
GIORNALI2013

Il Gazzettino, 30 gennaio 2013 – ‘Il caso Moretton in Fvg e la riforma europea del Paese’

 

Anche Gianfranco Moretton, capogruppo del Pd in consiglio regionale, ha lasciato il partito. Anche stavolta si è parlato di «scelta personale» e di «caccia alle poltrone». Ovviamente ciascuno è libero di pensarla come crede, ma se l’asse destra-sinistra come modo di sintetizzare il menù offerto agli elettori è in crisi, se è in crisi il bipolarismo belluino del recente passato, se «gli schemi sono stati scompaginati», è tutta e solo colpa del «vecchio che rispunta»? Non sta accadendo qualcosa di più profondo nella politica italiana?

Il fatto è che oggi è in gioco la piena integrazione dell’Italia in Europa. E lo spartiacque fondamentale della politica italiana è tra chi è convinto che la strategia migliore per uscire dalla crisi sia quella concordata con i nostri partner europei e chi invece è convinto che proprio questa strategia sia la rovina del Paese; tra chi vuole cogliere l’occasione offerta dalla crisi per innescare un processo di rapido allineamento dell’Italia ai migliori standard europei e chi pensa che questo progetto sia velleitario o addirittura dannoso (perché «l’Italia è diversa», perché «in Italia queste cose non si possono fare», ecc.). Mi spiego con un esempio: nei paesi dell’Unione e dell’Ocse c’è una forza di polizia per il controllo capillare del territorio e una forza di polizia per il contrasto della grande criminalità. In Italia ci sono sei diverse e autonome forza di polizia, senza contare la polizia municipale, spesso in competizione l’una con l’altra e ciascuna incaricata di occuparsi di tutto, ben al di la della propria specializzazione. La conseguenza è che otteniamo, spendendo tre punti di Pil (il 30% in più della Germania), risultati decisamente inferiori a quelli degli altri. Ecco il benchmarking: possiamo fare «come in Europa»? E’ su questo punto (le riforme necessarie per la piena integrazione dell’Italia nella nuova Europa) che (anche) nel Pd vivono due anime diverse. Stante le contraddizioni nella linea del Pd (per tacere del resto: come da copione le prime divergenze tra Pd e Sel si sono consumate proprio in questi giorni sull’intervento militare deciso da Francois Hollande in Mali), siamo in molti a pensare che il modo più efficace per tenere stabilmente il governo italiano sul versante giusto rispetto allo spartiacque fondamentale (pro o contro la riforma europea dell’Italia) non sia restando nel Pd, ma sostenendo la nuova forza politica che sta nascendo attorno all’Agenda Monti. Di più. Il vecchio schema politico che contrappone una destra conservatrice o liberista a una sinistra progressista o statalista non corrisponde più a ciò che effettivamente accade nella politica italiana.

La scelta più rilevante che il Paese può (e a nostro avviso deve) compiere è quella pro o contro la profonda trasformazione dell’Italia, in contrapposizione alle forze conservatrici, corporative  e anti europee. Oltretutto, la riforma europea dell’Italia è quanto di più utile possiamo fare per combattere le disuguaglianze e ristabilire l’equità intergenerazionale. Ed è su questa scelta che dovrebbe concentrarsi la campagna elettorale.

Leggi Tutto
GIORNALI2013

Social News – Numero 1 – Gennaio 2013 – www.socialnews.it – L’impoverimento umano

 

Siamo di fronte a un reale impoverimento umano, oltre che intellettuale, con rilevanti ripercussioni anche dal punto di vista sociale, visto che il livello di istruzione è in relazione anche con elementi quali l’aspettativa di vita o la partecipazione al voto.

Stando al rapporto Istat Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente, negli ultimi dieci anni, il numero dei giovani laureati italiani che ha lasciato il Paese verso mete più attraenti, è quasi triplicato. Il rapporto registra, inoltre, a conferma di una sempre più marcata ‘fuga dei cervelli’, una significativa modifica della distribuzione dei flussi in uscita rispetto al titolo di studio posseduto: la quota di laureati, rispetto al totale degli ‘esuli’ passa dall’11,9% del 2002 al 27,6% del 2011, mentre la quota di espatriati con licenza media scende dal 51% al 37,9%. Una vera e propria emorragia di risorse intellettuali che metteranno a frutto le proprie potenzialità altrove e un concreto danno economico per l’Italia. Secondo l’Ocse, infatti, il costo sostenuto dallo Stato per la formazione di un giovane – che studia in media 13 anni per ottenere il diploma e ulteriori 5 anni per arrivare alla laurea – ammonta a 164.000 dollari (circa 124.000 euro). Una cifra che, moltiplicata per il numero dei laureati in fuga (68.000 nell’intero decennio), raggiunge la ragguardevole somma di otto miliardi e mezzo di euro. Un investimento a perdere al quale andrebbe aggiunta la conseguente perdita di competitività per il nostro sistema produttivo. Va da se che, al giorno d’oggi, il fatto che giovani neolaureati vadano a lavorare in Università e centri di ricerca di altre Nazioni appare fisiologico, perché legato alla forte globalizzazione della ricerca. I grandi centri di ricerca attirano persone brillanti provenienti da tutto il mondo. E la mobilità degli studiosi è un fenomeno antico e, di per sé, un fattore di arricchimento culturale e professionale perché la ricerca non conosce frontiere. Inoltre, è perfettamente comprensibile il desiderio dei giovani laureati di sperimentare nuove strade altrove, soprattutto in considerazione del fatto che, in Italia, contrariamente a quanto accade negli altri Paesi europei, l’istruzione a livello universitario non garantisce affatto maggiori tassi di occupazione. Non è un mistero per nessuno che molti giovani neolaureati interessati ad utilizzare e sviluppare le proprie capacità lascino l’Italia poiché non riescono a trovarvi posizioni adatte, ben remunerate e con prospettive di carriera. Tuttavia, ci troviamo di fronte ad un reale impoverimento umano, oltre che intellettuale, con rilevanti ripercussioni anche dal punto di vista sociale, visto che il livello di istruzione è in relazione anche con elementi quali l’aspettativa di vita o la partecipazione al voto, specie se si considera che il problema nasce quando il saldo tra studiosi e laureati che lasciano un Paese e quelli che vi ritornano o vi si trasferiscono risulta negativo. Il problema nasce non solo e non tanto perché i nostri giovani se ne vanno, ma anche perché da noi non viene nessuno. Il che la dice lunghissima sui problemi del Paese, sul nostro mercato del lavoro e sui tre giacimenti di domanda di lavoro ignorati (solo che si consideri gli sklill shortages, il difetto gravissimo dei servizi di orientamento scolastico e professionale, una domanda di servizi inespressa ed un enorme problema di investimenti esteri). Negli Stati Uniti, un territorio paragonabile all’Unione europea, è normale trasferirsi da uno Stato all’altro in cerca di opportunità di vita e di lavoro, ma tra gli Stati si compete, appunto, per attrarre capitali e risorse umane. Come si affanna a ripetere Pietro Ichino, bisogna superare il regime di apartheid fra lavoratori protetti e non protetti, abbattere il muro che impedisce l’incontro tra chi ha bisogno di opere e servizi e chi può offrirli e, soprattutto, bisogna rovesciare il modo in cui abbiamo guardato fin qui il mercato del lavoro: nell’era della globalizzazione, esso non è più soltanto un luogo dove gli imprenditori selezionano ed ingaggiano i lavoratori, ma anche un luogo dove i lavoratori stessi possono selezionare ed ingaggiare il meglio dell’imprenditoria mondiale. Dopo la Grecia, l’Italia è il Paese europeo meno capace di attrarre investimenti stranieri. Secondo il comitato investimenti esteri, se la nostra Nazione riuscisse ad allinearsi con la media europea, ne risulterebbe un flusso di investimenti in entrata pari a circa 30-35 miliardi l’anno. Se, in questi anni, avessimo avuto la stessa capacità di attrazione dell’Olanda, che occupa una posizione mediana nella classifica europea, avremmo registrato un maggiore flusso annuo di investimenti in entrata pari al 3,6 % del nostro Pil. Per capirci: circa 29 volte l’investimento che Marchionne ci ha proposto nel 2010 con il piano “Fabbrica Italia”. Fosse anche soltanto la mèta, il maggior flusso di investimenti in entrata porterebbe con se dai 200.000 ai 300.000 nuovi posti di lavoro ogni anno. Senza contare che, nelle imprese a capitale e management straniero, il lavoro è più produttivo e meglio retribuito. Manco a dirlo, la cause della cattiva performance del nostro Paese nel mercato globale sono diverse: i difetti delle nostre infrastrutture, la burocrazia, il collasso della giustizia civile, il costo dell’energia, la criminalità organizzata, la legislazione del lavoro caotica, il sistema di relazioni industriali, ecc. Dobbiamo cambiare. La globalizzazione indebolisce i lavoratori italiani mettendoli in diretta concorrenza con i lavoratori di tutto il mondo. Questo indebolimento potrebbe essere ampiamente compensato da un altro effetto della globalizzazione stessa: la possibilità di mettere in concorrenza, in casa nostra, sul versante della domanda di manodopera, gli imprenditori di tutto il mondo, soprattutto i migliori tra loro. È il discorso che fece Tony Blair alle Trade Unions verso la metà degli anni ’90: “Noi rappresentiamo l’1% della popolazione del pianeta. Se scegliamo di tenere fuori dal nostro territorio gli imprenditori stranieri, il risultato in tutti i settori in cui non sono i nostri imprenditori ad eccellere, sarà quello di privarci degli imprenditori migliori. Sarebbe un errore gravissimo. Al contrario, se sapremo attirare in casa nostra il meglio dell’imprenditoria mondiale, questo si tradurrà non soltanto in un afflusso di capitali che porteranno domanda aggiuntiva di lavoro, ma anche in un aumento della produttività del lavoro, quindi margini di miglioramento dei terms and conditions del lavoro nel Regno Unito”. Lo stesso discorso vale per noi. Chiuderci agli investimenti stranieri significa tenerci le conseguenze negative della globalizzazione senza approfittare delle assai più rilevanti conseguenze positive che essa può offrire. A chi dubita ancora dello slogan “Hire Your Best Employer” basterebbe forse ricordare che “salvare l’italianità” di Alitalia ci è costato circa tre miliardi, più la colossale tassa monopolistica che ogni giorno i viaggiatori pagano alla nostra compagnia di bandiera sulle grosse tratte interne. Ed è solo un esempio.

Leggi Tutto
GIORNALI2013

The Report, 2 febbraio 2013 – Il Pd di Bersani ha eliminato un’intera area politico-culturale

 

Il Pd di Bersani ha eliminato un’intera area politico-culturale

The Report, 2 febbraio 2013

 

di Giacomo Lagona

 

Alessandro Maran è attualmente capogruppo del Partito Democratico in Commissione Esteri e Vice Presidente del gruppo parlamentare del Pd alla Camera. È stato eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati per l’Ulivo con il sistema maggioritario nel collegio di Gorizia; una seconda volta col Porcellum nel 2006 ed una terza nel 2008. Lo scorso anno, alle primarie del centrosinistra, ha appoggiato la candidatura a premier della coalizione del sindaco di Firenze Matteo Renzi. Alle primarie per i parlamentari del 30 dicembre scorso non ha partecipato; dopo pochi giorni ha accettato la candidatura al Senato, per le politiche del 24 e 25 febbraio, come capolista in Friuli Venezia Giulia con la lista “Con Monti per l’Italia“. L’abbiamo incontrato a Gorizia e ci siamo soffermati sugli avvenimenti che hanno reso possibile il suo passaggio dal Pd a Monti.

 

Onorevole Maran, l’ultima volta che ci siamo incontrati è stato ad un evento per le primarie del centrosinistra nel quale eravamo entrambi relatori. Nel frattempo Bersani ha vinto quelle primarie, si sono fatte le Parlamentarie del Pd – dove tra l’altro lei non si è nemmeno candidato – e il successivo passaggio dai Democratici a Scelta Civica con Monti. È successo di tutto in questi pochi mesi, anzi: ci spiega cosa è successo?

– In poche parole, Bersani ha scelto di silenziare l’ala destra del partito. L’area politica che in questi mesi ha ininterrottamente sottolineato l’esigenza di porre l’Agenda Monti al centro della prossima legislatura. Il che, ovviamente, non significa ignorare gli errori e le lacune nell’operato del governo Monti nel corso di quest’anno. Il punto cruciale non è neppure il ruolo istituzionale che avrà Monti dal marzo prossimo, ma quell’Agenda, cioè la nostra strategia europea, le riforme necessarie per la piena integrazione dell’Italia nella nuova Europa. Questo è oggi il discrimine fondamentale della politica italiana. Abbiamo lavorato perché il Pd resti saldamente sul versante giusto rispetto a questo spartiacque. Ma ci hanno messo alla porta. Salvo Giorgio Tonini (ma solo perché in Trentino si vota con il Mattarellum), nessuno dei parlamentari democratici che hanno promosso l’appello e le assemblee nel luglio scorso e poi ancora a settembre è stato ricandidato. Ho preso atto che per i “montiani” non c’è più posto nel Pd.

Tra gli esclusi del Pd alle politiche di fine mese, in molti hanno appoggiato Matteo Renzi alle primarie. Se inizialmente si poteva pensare ad una sorta di vendetta postuma dell’establishment verso quel 5% scarso di parlamentari che avevano appoggiato il sindaco di Firenze, all’indomani della presentazione delle liste si è notato come il taglio sia stato trasversale e bipartisan. Perché Alessandro Maran non è in quella lista? È plausibile che il suo lavoro in commissione Esteri e come vice capogruppo alla Camera non sia stato apprezzato da qualcuno in grado di gestire profondamente le candidature? Insomma Maran, chi è il suo nemico?

– Non è un caso personale. C’è una volontà evidente di restringere i confini del Pd marcando una frontiera netta con Monti. Il Pd ha scelto di bandire una precisa area politico-culturale: non solo da una lista elettorale, ma dallo stesso progetto politico del partito. E mentre si libera di parlamentari competenti e preparati come Stefano Ceccanti o Lanfranco Tenaglia, candida Mario Tronti. Il fatto è che il Pd ha trovato consenso su una deriva identitaria. Lo slogan congressuale di Bersani («Trovare un senso a questa storia»), dove l’uso della storia è al singolare, era rivelatore. E’ prevalsa la logica di chi, per paura, sotterra i talenti, ripiega sulle tradizioni consolidate. Un tradimento.

Appena due giorni prima che annunciasse il passaggio con Monti, lei scrisse sul suo sito che le voci che circolavano su un suo presunto accasamento con il Presidente del Consiglio erano tutte baggianate giornalistiche. Due giorni dopo quellebaggianate sono risultate fondate. Pur considerando che Bersani, secondo alcuni detrattori, avrebbe giocato sporco non includendo nel suo listino quei parlamentari con competenze specifiche come potrebbero essere le sue; tra l’opinione pubblica serpeggia invece l’idea che il suo accasamento con Monti sia dovuto esclusivamente all’arte tutta politica di tenersi stretta la poltrona anche quando sarebbe il caso di mollarla. Cosa è successo di tanto importante in due giorni da farle cambiare idea?

– Ciascuno è libero di pensarla come crede, ma se avessi pensato unicamente alla “poltrona” in questi anni mi sarebbe bastato stare con la maggioranza e sostenere Bersani. Come hanno fatto in tanti. Anche quelli che si erano schierati dalla parte opposta, prima con Veltroni e poi con Franceschini. Sarebbe bastato che mi adeguassi alla maggioranza e tenessi la bocca chiusa anziché battermi apertamente con l’iniziativa per l’Agenda Monti e una grande quantità di interventi e prese di posizione che chiunque può trovare sul mio sito. Ora che per me non ci sia posto in lista può capitare. Che non ci sia posto per un’intera area politico culturale è inammissibile. E di questo ho preso atto solo dopo la riunione della Direzione nazionale. Il che spiega l’incoerenza tra le due dichiarazioni e rivela anche che non avevo architettato la fuga.

Lei ha deciso di sostenere Monti e di candidarsi come capolista al Senato nella circoscrizione Friuli Venezia Giulia. Che tipo di risultato personale si aspetta, e che tipo di risultato della lista in regione?

– Oggi la scelta che il Paese deve compiere è quella pro o contro la profonda trasformazione dell’Italia. E’ su questa scelta che dovrebbe concentrasi la campagna elettorale. Mi aspetto che gli italiani comprendano la posta in gioco e sostengano lo sforzo di Mario Monti. Sarebbe una novità “eversiva”, in grado di scompaginare in bipolarismo belluino del recente passato.

Tra le regioni che entro l’estate cambieranno amministrazione, ad aprile si voterà anche nel suo FVG. Tutti i sondaggi danno Debora Serracchiani (csx) e Renzo Tondo (cdx) praticamente a pari merito; considerando l’uscita del capogruppo regionale Pd Moretton – in procinto di creare una lista civica regionale per Monti – e tenendo ben presente che la legge elettorale regionale prevede l’elezione automatica solo per i due candidati governatori che si piazzeranno in testa, secondo lei come si posizionerà un’ipotetica lista Monti regionale, e quale sarà lo scenario politico nella sua regione dopo le elezioni di aprile?

– Oggi il vero discrimine della politica italiana non è quello tra la sinistra di Bersani-Vendola e la destra di Berlusconi-Maroni. Il vero discrimine è tra chi è convinto della strategia che abbiamo concordato con i nostri partner europei per uscire insieme dalla crisi, e quanti, (come Vendola, Berlusconi, Maroni e parecchi dirigenti del Pd) sono convinti che proprio quella strategia sia la causa dei nostri mali. Queste sono le due alternative tra cui gli italiani devono scegliere il 24 febbraio. La “salita in campo” di Mario Monti mira a creare un nuovo bipolarismo positivo, sulla linea di discrimine che conta davvero per il Paese. Vale anche per la nostra Regione, che dovremmo provare finalmente rivoltare come un calzino. Una nuova formazione concorrenziale con la vecchia destra e la vecchia sinistra potrebbe buttare all’aria i vecchi equilibri. Alle primarie, lo slogan di Renzi (e prima ancora quello di Franceschini) era “Adesso!”. Non “dopo” o “tra un’po’”. Adesso! E non ho cambiato idea.

Perché non ha partecipato alle primarie per i parlamentari?

– Le primarie sottintendono un confronto. E il confronto, tra Santo Stefano e l’ultimo dell’anno, non ci poteva essere. Il metodo prescelto presupponeva un consenso territorialmente molto concentrato e il sostegno della corrente di maggioranza del partito. Non è il mio caso. L’esito era già scritto: collegi provinciali con effetti localistici, tre giorni di campagna elettorale, limitata oltretutto solo all’elettorato di appartenenza, mobilitabile dagli eletti locali o dal principale sindacato di riferimento, ecc. La scelta della commissione nazionale di consentire a Brandolin (lettiano) di gareggiare, unico caso in regione, liberando così un posto in Consiglio regionale per il segretario provinciale ha poi chiuso la partita. L’appello al popolo ha rilegittimato il gruppo dirigente «centrale» (che si è garantito e resta intatto, tanto che si dice che D’Alema farà il Ministro) facendo rotolare le teste degli oppositori interni e di qualche dirigente periferico. Come in Cina, durante la Rivoluzione culturale. Non mi dirà che l’ordine delle liste del Pd tiene conto dell’esito delle primarie? E il capolista del Pd al Senato ha fatto le primarie?

Nessuna legge elettorale e nessuna elezione è perfetta, lo sappiamo tutti, figuriamoci quindi delle primarie organizzate appena un mese prima del voto…

Leggi Tutto
GIORNALI2013

Il Piccolo, 10 febbraio 2013 – Maran gela gli aspiranti montiani del Fvg

 

Maran gela gli aspiranti montiani del Fvg

di Marco Ballico

TRIESTE «La lista Monti non è una zattera di naufraghi». Constatazione o avvertimento che sia, Alessandro Maran, capolista del “listone” del Professore al Senato dopo aver lasciato il Pd un attimo prima della definizione delle liste, sta con Gian Luigi Gigli, numero uno di Scelta civica alla Camera. Il riferimento è all’intervento dell’ex Udc martedì scorso a Pordenone, in occasione della visita del premier. Parole nette contro i politici di professione che pensassero di approfittare del carro del Prof.

Anche in Fvg si sta lavorando sul progetto “montiano” ma non mancano attriti. Gigli ha piazzato l’altolà alla politica? Ha detto semplicemente che la lista Monti non è una zattera di naufraghi e che di gente disposta a impegnarsi, con spirito di sacrificio e slancio innovativo, c’è n’è parecchia.

Ma come riuscirete a mettere d’accordo anime così diverse?Monti candida un’agenda, no?

Già vi bollano come “fuoriusciti”. In Parlamento non c’è più nessuno dei partiti che hanno dato vita alla Costituzione e il partito più vecchio è la Lega Nord. Siamo tutti «fuoriusciti». Dal Novecento. E non abbiamo ancora raggiunto un approdo idoneo. È questo il problema.

È vero che avete già sondato Illy, Cecotti e Compagno? Non che io sappia. Ma, come Alice, a volte riesco a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione. Non dimentico che è grazie ai sacrifici e alle decisioni “impossibili” prese con Monti che possiamo ora puntare alla crescita e al lavoro.

L’apertura di Bersani a Monti che segnale è? Il messaggio è rivolto ai mercati e agli osservatori internazionali: niente panico, il centrosinistra non ha intenzione di rinchiudersi nel suo recinto ma di aprirsi alle forze più responsabili.

Non pensa che dipenda dalla paura della rimonta di Berlusconi?Berlusconi non vincerà.

Nel caso andasse in porto un’intesa con il Pd, pure in regione, lei si troverebbe a collaborare con il partito che ha appena lasciato. Le contraddizioni della politica? Ho fatto parte del gruppo di parlamentari Pd che ha ininterrottamente sottolineato l’esigenza di porre l’agenda Monti al centro della prossima legislatura. E ho ripetuto fino alla noia che solo dalla collaborazione tra Bersani e Monti è possibile immaginare che il governo del Paese resti orientato nella direzione giusta, contrastando populismo e spinte conservatrici. Adesso che Bersani ha assicurato che il centrosinistra e il centro di Monti sono destinati ad incontrarsi, che faranno, mi riabilitano?

Tra Sel e Monti non le sembra un dialogo impossibile? Le prime divergenze si sono consumate proprio tra Pd e Sel sull’intervento militare deciso da Hollande in Mali. Sulla collocazione internazionale dell’Italia. Come da copione.

Monti scalda poco i cuori in campagna elettorale? Cerca di usare un linguaggio di verità. È uno dei lasciti più importanti del suo governo. Due decenni di scelte mancate nascono dal fatto che molti politici si sono comportati come amici superficiali, incapaci di parlare con schiettezza agli italiani.

I sondaggi vi danno in doppia cifra ma lontani dalla vittoria. Si aspettava di più quando ha deciso di scegliere il Professore? Ho ritenuto semplicemente che il modo più efficace per tenere stabilmente il governo italiano sul versante giusto rispetto allo spartiacque fondamentale – pro o contro la riforma europea dell’Italia – fosse quello di sostenere la nuova forza politica che sta nascendo attorno all’agenda Monti.

Come giudica la campagna elettorale di Berlusconi? Siamo al solito illusionismo? Berlusconi è come il Cappellaio Matto di Alice e ci tiene inchiodati alla sua perenne ora del tè. Ma è una illusione quella di bandire, con lui, anche le aspirazioni di molti elettori – su fisco, giustizia, libertà economiche – che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte.

Leggi Tutto
1 2 3 4