di Tommaso Cerno
Ho letto, come tutti, sul Messaggero Veneto le reazioni, abbastanza scontate e prevedibili, alla candidatura di Alessandro Maran come capolista al Senato con la lista del premier Mario Monti. Detto che, in politica, ognuno la pensa come vuole (ma anche che chi sta da una parte attacca chi sta dall’altra, ed è normale), mi pare che il Pd stia liquidando con troppa fretta e sicumera l’addio, sofferto, di uno dei suoi esponenti di maggiore prestigio. Voglio dire: se Maran lascia il partito che contribuì a fondare, figlio di quei Ds che guidò ormai più di un decennio fa, padre della discesa in campo di Riccardo Illy – assieme al suo successore alla segreteria regionale del Ds, Carlo Pegorer – non credo si possa banalizzare tutto tirando in ballo il trasformismo o, peggio, il voltagabbanismo. Certo è la risposta più populista e facile da dare, ma è anche una risposta imprecisa, semplicistica e deleteria per un partito che si appresta a fare una campagna elettorale dove ha l’imperativo categorico di vincere, almeno stavolta, le elezioni. Io credo che il Pd abbia piuttosto il dovere di chiedersi perché Maran ha fatto questa scelta e di scorgere, dietro l’addio del vicecapogruppo alla Camera, una questione politica che non riguarda solo la poltrona di tizio o di caio, ma le scelte che il Pd ha fatto dall’indizione delle primarie Bersani-Renzi fino alla chiusura delle liste, passando per le parlamentarie che, come si è visto, porteranno in Parlamento sostanzialmente un monocolore, pur benedetto dal Pd locale e dai suoi leader o sindaci rampanti. Per prima cosa va sgombrato il campo da una bugia: Maran non esce dal Pd in quanto renziano deluso, ma in quanto persuaso che l’area liberal del partito, quella che ai tempi di Togliatti e Berlinguer si chiamava area migliorista (e che fondò il Pd assieme agli allora fassiniani del Ds e ai rutelliani della Margherita, quando Renzi ancora non esisteva come fenomeno politico) sia stata espulsa dall’agenda del partito, dalla sua cultura politica, dal dibattito interno. Se questo fosse vero, c’è da temere che – come Maran – anche una parte degli elettori che si riconoscono in quella visione (europeista, aperturista sul lavoro, sull’articolo 18, sui diritti civili, sul concetto di sinistra in generale) possano guardare altrove. Sarebbe gravissimo, anche in vista delle elezioni regionali dell’aprile 2013. Secondo punto controverso. Ricordiamo le parole con cui, poco prima di Natale, l’economista Pietro Ichino ha scelto di lasciare il Pd seguendo Monti: «La risposta negativa di Bersani al bellissimo discorso di Monti di ieri è per me decisiva. Non c’è nessun mistero, né alcun giallo: tutto è stato fatto alla luce del sole. Molte delle tesi esposte nel manifesto di Monti sono le stesse di un documento che ho presentato il 29 settembre scorso in un’assemblea pubblica e sottoscritto da diversi parlamentari del Pd». Bene, fra i firmatari di quel documento, c’era anche Maran che, in tempi non sospetti, si era schierato per rappresentare la destra del Pd, proprio come fece Napolitano negli anni Ottanta e Novanta, premiato con la presidenza della Camera, senza tirare in ballo in Quirinale, non certo con l’epurazione. Terzo e ultimo punto: da quel che si capisce, in Italia il fenomeno dei riformisti che guardano a Monti – da Ichino ad Adinolfi – è ampio. E va dunque inserito in questo contesto il gesto di Maran. La questione non è quella di perdere una poltrona, magari la sua, ma la presa d’atto che sostanzialmente tutto il gruppo che firmò quel documento è fuori, fatto salvo Giorgio Tonini, ma solo perché in Trentino si vota con il Mattarellum e c’era bisogno di incassare il sostengo dei centristi. In questo scenario, la scelta di Maran di continuare a percorrere la linea politica filo-montiana che aveva connotato il suo impegno parlamentare nell’ultimo anno potrà essere criticabile, ma non tacciabile di trasformismo. Anche perché mamma Roma insegna che un vicecapogruppo a Montecitorio, 52 anni, per cui giovane, se aveva come obiettivo la riconferma a tutti i costi avrebbe potuto giocare una partita molto diversa. E più semplice: stare con la maggioranza.