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Notizie Novice n. 1, gennaio 2006 – L’Euroregione? Una realtà ancora da definire

L’Euroregione è un’espressione che può voler dire cose molto diverse tra loro. E oggi non è dato sapere in che misura lo Stato consentirà alla Regione di assumere al riguardo una iniziativa autonoma.

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Il Piccolo, 21 febbraio 2006 – Aggravati i mali del paese

Il triplice fallimento del governo Berlusconi: nel rilancio dell’economia reale, nella gestione della finanza pubblica e nell’attuazione del “contratto con gli italiani”.

Le elezioni sono anzitutto una valutazione di 5 anni di governo. E neppure le assicurazioni di Isidoro Gottardo o i dissidi interni all’Unione (da Ferrando a Illy) possono cancellare il triplice fallimento del governo Berlusconi: nel rilancio dell’economia reale, nella gestione della finanza pubblica e nell’attuazione del famoso
«contratto con gli italiani». La nostra economia non cresce. Mai nel dopoguerra era cresciuta così poco e nessuna economia sviluppata cresce così poco. E se preoccupa la perdita di quota delle merci italiane sui mercati internazionali (-30% in 8 anni), come non ricordare che la nostra società è quella che fa meno figli
fra quelle con cui amiamo confrontarci. In un Paese in cui tutti parlano di famiglie, registriamo la più grave crisi dell’istituto familiare di cui si abbia memoria; il pessimismo, la mancanza di fiducia nel futuro si tramuta nel più crudo (e più preoccupante) degli indicatori: un basso tasso di natalità, che produce un invecchiamento senza precedenti della popolazione e che testimonia di una società ripiegata su se stessa. L’altro indicatore, che dovrebbe preoccupare non solo chi si dice di sinistra, è quello relativo alla mobilità sociale. Su questo terreno la situazione del nostro Paese è la peggiore fra quelle del mondo sviluppato. Il nostro è il Paese nel quale è più probabile che se il babbo è professore universitario i figli siano professori universitari; se il babbo è professionista, i figli siano professionisti; se il babbo è operaio, i figli siano operai, e di solito, più precari del padre. Come si fa a pensare che questa bassa mobilità sociale non abbia a che vedere con la crescita? Quale molla per la crescita è più forte di una prospettiva di mobilità sociale?
Va da sé che i mali del Paese affondano le radici lontano. Ma le politiche di Berlusconi hanno aggravato i mali dell’Italia. Il principale problema da fronteggiare era la difficoltà della nostra economia ad adattarsi alla fine della stagione delle svalutazioni competitive che si accompagnava all’ingresso dell’euro. Anche se nessuna economia europea ha tratto tanto giovamento dall’euro quanto l’Italia (basta ricordare che pagavamo i nostri debiti fino a 4-5 punti di interesse in più degli altri Paesi europei, che oggi vorrebbe dire pagare in interessi sul debito pubblico oltre 60 miliardi di euro, oltre 120.000 miliardi di vecchie lire in più), anche l’euro, come tutti i pasti, non era gratis. E una economia abituata a forti dinamiche dei prezzi e alla ricostruzione dei margini di profitto resa possibile dalle svalutazioni ripetute della moneta, doveva abituarsi al nuovo regime. Ciò richiedeva tempo e politiche. Occorreva, come scrivono i manuali, lasciare che agisse la pressione della disinflazione, ma al tempo stesso occorreva dare un pò più di tempo alle imprese per adattarsi, destinando tutte le risorse disponibili a ridurre il costo del lavoro. La scelta, invece, è stata quella, elettoralistica e irresponsabile, dell’accrescimento del potere d’acquisto delle persone. Prima la Tremonti-bis, poi la riduzione dell’imposta sulle persone, sono servite solo ad
aggiungere acqua a un bidone sfondato; a causa della crisi di competitività delle nostre merci, la domanda aggiuntiva che veniva immessa nel sistema economico italiano rifluiva immediatamente verso beni prodotti all’estero: peggiorava la nostra bilancia dei pagamenti, senza che si aiutassero le imprese italiane, anche solo concedendo loro un po’ più di tempo per adattarsi alla situazione. E ora la riduzione di un punto del cuneo fiscale sul lavoro contenuta nella Finanziaria per il 2006 è una misura tardiva (sono 5 anni che il centrosinistra propone, senza successo, questa priorità) e troppo poco intensa. Sarebbe necessaria una riduzione di almeno 3 punti, in una botta sola, equamente distribuiti tra lavoratori e imprese, così da riaprire uno spazio per la contrattazione salariale tra le parti e favorire un certo recupero della competitività di prezzo dei nostri prodotti sui mercati internazionali. Ma il governo non ha le risorse necessarie (servirebbero 6 miliardi di euro) e non le ha perché le ha buttate (esattamente 6 miliardi) nel buco nero della riforma Ire (ex Irpef) a favore dei più ricchi realizzata l’anno scorso.
Non è un mistero per nessuno che il «meno tasse per tutti» ha mobilitato interessi, suscitato speranze, costruito una «visione» sul futuro dell’Italia. Tanto che ancora nel febbraio dello scorso anno il premier prometteva altri 12 miliardi di riduzioni Irap e Ire con la legge finanziaria 2006. Ma se nella Finanziaria non c’è nulla né sull’Irap né sull’Ire è perché il centrodestra ha compreso che questa strada non porta da nessuna parte.
Gli errori non si fermano qui. E forse i più gravi sono sempre nel campo delle politiche fiscali. Non val la pena di spendere troppe parole sui condoni: nella tradizionale propensione del nostro sistema a generare evasione fiscale, la cosa peggiore che si potesse fare era condonare generosamente un lustro di adempimenti fiscali. Anche perché proprio la distorsione introdotta dalle vastissime aree di evasione fiscale è una delle cause della scarsa propensione alla crescita della nostra economia. Ma la principale responsabilità del centrodestra è quella di aver disperso anni di sacrifici degli italiani. I numeri presentati in Parlamento dal governo fanno vedere che fra il 1996 e il 2000 la spesa delle amministrazioni pubbliche al netto degli interessi era rimasta costante in rapporto al Pil. Da allora fino al 2004 è aumentata di 3,3 punti. Un’enormità: oltre 40 miliardi di euro. Tutto il problema del nostro deficit crescente sta qui. E’ mancato cioè proprio quel che era più necessario: il mantenimento del rigore sulla spesa, la capacità di fronteggiare lobbies, richieste di intervento settoriale, meccanismi automatici e ingiustificati di crescita della spesa. Insomma, le scelte di questi anni hanno trascinato il Paese nella spirale della insostenibilità, con un deficit eccessivo che accresce il debito, il che accresce la spesa per interessi e di nuovo fa crescere il deficit. E di fronte alle trovate di Berlusconi ormai, come dice una canzoncina in voga, solo i bambini fanno: «Oh! che meraviglia, che meraviglia».
Il messaggio di Prodi è giusto: rimettere in moto lo sviluppo. Ma bisogna anche convincere gli italiani che lo schieramento che lo propone è il più adatto a farlo. Va da sé che il dissidio interno di queste settimane mette seriamente in discussione la credibilità dell’Unione come forza di governo. Basterebbe tenerlo a mente.

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Il Piccolo, 7 marzo 2006 – La riscossa dei partiti

Lo scontro tra presidenti e partiti scandisce la cronaca di questi ultimi anni. Perchè?

Del «golpe» proporzionale che ha peggiorato la legge elettorale rendendo ancora più incerto l’esito del voto e trasformando le segreterie dei partiti in arbitri assoluti dell’elezione dei rappresentanti del popolo, abbiamo già detto tutto il male possibile. Ancora una volta la strategia berlusconiana è quella di «avvelenare i pozzi» prima della fuga. L’obiettivo principale della restaurazione proporzionale è rendere tormentata e instabile la vita del nuovo governo. In questo senso è, come ha detto Prodi, una «legge antipatriottica», che andrebbe semplicemente abrogata. Ma davvero Riccardo Illy può diventare, come ipotizza Sergio Baraldi, il Mario Segni del Nord?
È davvero questo il senso delle ultime mosse del nostro presidente? Ho più di un dubbio. Per quanto dannosi possano essere gli effetti di una legge «irrazionale e incostituzionale», il contesto istituzionale e sociale in cui dovrà operare è molto cambiato. E sarà questo contesto a incanalare il processo e gli attori. Il colpo di mano proporzionale – che in altri tempi avrebbe suscitato discussioni accese e moti di piazza – è passato nel sostanziale disinteresse dei media e dell’intera opinione pubblica. Un disinteresse che nasconde anche una sfiducia ormai diffusa negli italiani sulla capacità delle riforme istituzionali di cambiare effettivamente il nostro sistema politico e istituzionale. Se c’è infatti una cosa che hanno insegnato dieci anni e più di marchingegni elettorali e di invenzioni costituzionali, è che non bisogna sopravvalutarne il ruolo. Si era detto che, col maggioritario, anche l’Italia avrebbe avuto finalmente due grandi partiti capaci di competere legittimamente e alternarsi al governo. Ma la legge elettorale ha prodotto esiti molto diversi da quelli che ci si era illusi di confezionare a tavolino: il maggioritario in Italia non è servito a unificare i partiti, ma a rafforzare i premier e non ha eliminato né i piccoli partiti né la loro capacità di veto. Insomma, si pensava di importare il modello Westminster per legge, ma al posto del bipartitismo parlamentare si è sviluppato un anomalo «bipolarismo presidenziale». È questa la tesi contenuta nel libro di Mauro Calise «La Terza Repubblica. Partiti contro presidenti» pubblicato da Laterza. «La capacità di aggregazione e di coesione che il modello di Westminster affidava a forti e coesi e ben strutturati partiti nazionali – osserva Calise – veniva svolta dai leader che ricoprivano – ai diversi livelli della piramide statale – i vertici dell’esecutivo. Le loro principali
risorse erano le leve istituzionali del potere, profondamente rinnovate e potenziate sia al centro che in periferia, e la legittimazione diretta che ricevevano dall’elettorato. E che avrebbero cercato di rinvigorire inaugurando, anche da noi, quelle tecniche di campagna elettorale “permanente” tipiche dei regimi presidenziali».
In questi anni gli esempi non sono mancati. Da Silvio Berlusconi al mio amico Giorgio Brandolin. Ma il rafforzamento del premier ha smesso di essere percepito e perseguito come punto di stabilizzazione della propria maggioranza politica. Al punto che lo scontro tra presidenti e partiti scandisce la cronaca quotidiana di questi ultimi anni. Perché? È indubbio che l’interpretazione bonapartista del proprio ruolo da parte di Berlusconi ha spalancato le porte alla contestazione dello strapotere del premier. Ma c’è dell’altro. C’è che i partiti, come scrive Baraldi, sono tornati a condizionare la scena. Ma il ritorno dei partiti non risponde soltanto a un meccanismo di autoconservazione del ceto politico. È anche il prodotto dell’assenza di alternative credibili. «Le leadership presidenziali emergenti – scrive Mauro Calise – non sono risultate infatti portatrici di un progetto di “ordine nuovo”. Soprattutto sul terreno decisivo dello scontro politico, quello della struttura statale, il presidenzialismo italiano è apparso latitante, contraddittorio, deludente. Non si è dotato di un programma istituzionale adeguato all’enorme investitura democratica di cui, ai suoi
esordi, ha goduto. Anzi, l’incapacità dimostrata su questo fronte si è accompagnata a un accorciamento della prospettiva politica. La personalizzazione del potere ha finito col rappresentare soprattutto un incentivo ad interventi ravvicinati, rapidamente realizzabili e fungibili. Privi di quel respiro programmatico che rafforza le visioni – e le identità – collettive sui tempi lunghi”. E’ in questo “vuoto di iniziativa strategica alternativa al vecchio sistema” che i partiti hanno potuto recuperare molte delle posizioni perdute. Insomma, la politica presidenziale non ha (ancora) mostrato di avere le carte in regola per trasformarsi in un nuovo equilibrio istituzionale facendo dei presidenti i depositari autorevoli ed efficaci dell’indirizzo politico. Al punto che, insiste Calise, “sui monarchi repubblicani – piccoli e grandi – che calcano la nostra scena politica, l’ombra più preoccupante non è il delirio di onnipotenza ma la spirale dell’inefficienza. E il giudizio di inadempienza che prima o poi, inesorabilmente, accompagnerà la loro uscita di scena”. Se così stanno le cose, forse partiti e presidenti farebbero bene, come suggerisce Calise, a “firmare un dignitoso armistizio”. Ma deve cominciare a farsi strada la consapevolezza reciproca dei propri limiti. Anzitutto, dei partiti. Difendere il primato dei partiti, identificati immediatamente con “la politica”, significa affondare nella nostalgia per un passato irrecuperabile. Proprio la necessità sociale e civile della dimensione partito e l’obsolescenza della forma storica attuale dei
partiti in Italia ci obbligano a ridefinire un nuovo equilibrio cittadini-partiti-Stato. Ma per far questo ci vogliono forze politiche adeguate ai tempi che possano davvero svolgere quel ruolo essenziale di specchio ed elaborazione delle trasformazioni continue che accadono nella società rappresentandone le istanze sul tavolo pubblico. Ma vale anche per presidenti, che si devono sobbarcare “accanto ai molti onori della seduzione – anche l’onere della costruzione. Facendosi promotori e interpreti di quel processo di rifondazione statale senza il quale non c’è orizzonte, né per loro né per il paese”. Non si tratta di imboccare l’ennesima scorciatoia a colpi di leggeelettorale. Ma di costruire, aggiungendoci ogni giorno un mattone, un sistema decisionale che segni una netta discontinuità col passato. Anche perché “molti dei capi visti all’opera finora sono sembrati prevalentemente attratti dall’opportunità di gestire e ampliare il proprio potere personale. Contribuendo ad innescare quella reazione di diffidenza e rigetto che è il migliore terreno di coltura per il ritorno del vecchio ordine”. Ha ragione Mauro Calise: si tratta di lavorare fianco a fianco, presidenti e partiti. E la prova elettorale è un’occasione per farlo.

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Il Piccolo, 6 aprile 2006 – “Facciamo ripartire il Paese”

«Il ruolo di Illy decisivo per la nascita del Partito democratico»

Dobbiamo votare Ulivo per far ripartire il Paese.

TRIESTE «Come si fa a fidarsi ancora di Silvio Berlusconi?». Non nega che l’Unione, se vince, dovrà faticare. E tanto. Aggiunge che il partito democratico, auspicabilmente «con l’aiuto di Riccardo Illy», dovrà nascere. E presto.
Ma Alessandro Maran, deputato diessino che corre nella lista ulivista alla Camera, sottolinea soprattutto l’obiettivo primario: rimettere in moto il Paese e mandare a casa un premier che si limita a promesse e insulti.

È scontro sulle tasse. Quanto può influenzare gli indecisi?
In questi giorni si discute ossessivamente del programma. Ma quel che più conta è il voto retrospettivo e cioè il giudizio su quello che il governo ha fatto: in questi anni Berlusconi ha risolto solo alcuni dei suoi problemi. I grandi imbroglioni possono essere smascherati se non si bada alle loro promesse, ma se si giudica il loro operato.
Perché Prodi e l’Unione, sulle tasse, soffrono?
Un difetto culturale. Ma il centrosinistra ha detto che vuole tagliare le tasse. Concentrando l’operazione sul lavoro anziché su tutta la platea dei contribuenti. Questa seconda strada, praticata dal centrodestra, è fallita: i tagli sono stati limitati e ininfluenti sull’economia.
Salute, sanità, precariato: non crede che l’Unione ne ha parlato poco, facendosi imporre l’agenda da Berlusconi?
Di recente un linguista americano, George Lakoff, ha pubblicato un libretto in cui attribuisce gran parte della debolezza della sinistra americana all’incapacità di comunicare correttamente. Ma resta il fatto che gli annunci di Berlusconi non hanno avuto seguito concreto. Come si fa a fidarsi?
Come impedire che l’Unione, in caso di vittoria, si disunisca? E non faccia le riforme?
La ristrutturazione del centrosinistra con la lista unitaria dell’Ulivo, che può evolvere verso il partito democratico, risponde con chiarezza a questa esigenza. Il Paese ha bisogno di un centrosinistra ampio, con un leader autorevole e legittimato, ma anche con la forza politica di scompaginare le resistenze conservatrici, investire sui giovani, premiare il merito, aprire i mercati chiusi, rimettere in moto la mobilità sociale.
Illy auspica la nascita del partito democratico. Ma dice che pochi lo vogliono. Che gli risponde?
Che ha ragione. Ma che proprio per questo dovrebbe darci una mano: Illy può contribuire a ridefinire il carattere del centrosinistra e di un bipolarismo insidiato dalla debolezza dei soggetti politici.
Perché votare Ulivo alla Camera e Ds al Senato?
Per far ripartire il Paese. Berlusconi aveva promesso di rivoltare l’Italia come un calzino. Ma la misura del suo fallimento si legge nei dati di un’economia stagnante e di una società statica. Siamo il Paese che fa meno figli tra quelli con cui amiamo confrontarci. E siamo il Paese nel quale è più probabile che i figli dei professionisti saranno professionisti e i figli degli operai saranno operai. Per di più precari.
Se la Cdl vince in Friuli Venezia Giulia, di chi è la responsabilità? Del governo Illy, almeno in parte?
Non si vota per la Regione. Ma per far ripartire l’Italia. E a testimoniarlo ci sarà un’affluenza al voto di gran lunga superiore a quella delle amministrative.

 

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Il Piccolo, 5 giugno 2006 – Il Nord chiede più autonomia individuale

Alle elezioni politiche del 2006 sono stati raggiunti livelli di mobilitazione senza precedenti. Chi e che cosa ha mobilitato l’elettorato così nel profondo

Vorrei tornare, alla luce del voto amministrativo di domenica scorsa, sull’«escrutinio de enfarto» (El Mundo) del 10 aprile scorso e sull’affermazione risicatissima dell’Unione. Un dato salta agli occhi: alle elezioni politiche del 2006 sono stati raggiunti livelli di mobilitazione politico-elettorale (aumento dei votanti, un sostanziale azzeramento delle schede bianche e nulle) senza precedenti nella Seconda Repubblica. Che cosa e chi ha mobilitato così nel profondo l’elettorato? Sul chi non ci sono dubbi: nel bene e nel male, è stato Berlusconi. Su che cosa, io la penso così: quel mix di interessi e valori rappresentato dal binomio proprietà-famiglia.
L’errore del centrosinistra non è stato quello di aver «parlato» di tasse. Le tasse sono l’argomento clou, il più delicato in ogni democrazia. Ma di tasse si deve parlare con precisione, evidenziando il nesso tra carico fiscale e vantaggio sociale.
E se un leader del centrosinistra si fa pescare a dire – e non per estremismo, ma per impreparazione e ignoranza – che un patrimonio di 186.000 euro è un grande patrimonio, al di sopra del quale deve agire la tassa di successione, perché stupirsi se si fa strada nella gente il sospetto che il centrosinistra non
gliela stia raccontando giusta? Inoltre il taglio delle tasse ha un significato politico: enuncia una visione, diversa da quella corrente, del rapporto tra Stato e cittadino. «Nella visione a cui siamo abituati da 50 anni – ha scritto Franco Debenedetti – , chi governa si considera depositario della conoscenza di quali sono le necessità dei cittadini, di come vanno soddisfatte, e quindi autorizzato a prelevare quanto giudica adeguato allo scopo: sono le varie articolazioni della Pubblica amministrazione a scrivere esse stesse i propri obiettivi, gonfiando le richieste già sapendo di quanto saranno tagliate». Negli annunci di Berlusconi (purtroppo, solo negli annunci) invece, il punto di partenza diventano le risorse che restano dopo che si è ampliato il potere di scelta dei cittadini. Da qui al tema-valore famiglia il passo è stato breve. E non solo perché il centrodestra ha alimentato il sospetto che la sinistra minacciasse la famiglia nella proprietà e nei suoi caratteri giuridici. Ma perché famiglie e imprese
quando sono alle prese con dei problemi (l’azienda o l’anziano non autosufficiente) il più delle volte si devono arrangiare da sole, con stress e paure da gestire in solitudine (e con rabbia) e non come elementi di una sfida collettiva e «di sistema».
Per come la vedo io, la «questione settentrionale» è tutta qua. Il guaio è che la nostra discussione si è fin qui sviluppata come se si fosse trattato di un voto amministrativo, dettato da ragioni locali e «personali». C’è soltanto il territorio, o meglio, l’antagonismo territoriale. Sergio Cecotti, in un’intervista, ha perfino rispolverato «un aspetto di sociologia città-campagna: un triestino non riesce a capire una società fatta di tante piccole comunità sul territorio».
Eppure l’antagonismo territoriale non spiega nulla. Specie in un’area in cui la campagna è distretto industriale, la famiglia è impresa e lo spazio metropolitano (cioè il bacino di domanda e offerta per i servizi e le risorse rare) è (a malapena) l’intera Regione. Ed è proprio l’abuso di queste vecchie e inservibili categorie, che contribuisce ad appannare l’ampiezza e lo spessore di quella società friulana che ha decretato il successo di Strassoldo. Se fosse solo la protesta contro Illy a spiegare l’esito delle provinciali di Udine, perché la performance di Tonutti è, in buona sostanza, la stessa di Pressacco (quando Illy non c’era) e di Strizzolo (quando non c’era nemmeno Strassoldo)? Ho l’impressione che queste vecchie categorie aiutino a non interrogarsi davvero sulle realtà sociali che hanno portato a un esito distante dalle attese della vigilia. Da anni nella nostra Regione c’è una domanda di autonomia individuale (che gli americani chiamano «empowerement of individuals»). Ma la nostra ossessione per l’identità e le richieste di riequilibrio territoriale finiscono, come avveniva nella Jugoslavia di Tito, per prendere in considerazione solo i diritti collettivi (quelli del proprio «popolo», della propria «nazione») a scapito di quelli individuali che invece implicano una vera democratizzazione. E ciò è in contraddizione proprio con l’affermazione di Illy in provincia di Udine nel 2003 contro un’esponente della Lega Nord impegnata nella promozione di una idea etno-culturale delle diversità della Regione.
Il fatto è che per la maggior parte degli elettori desiderare di ritrovarsi in una «diversa» Regione non vuol dire restaurare il Patriarcato di Aquileia, ma implica anzitutto «rifare» l’amministrazione pubblica. La maggior parte degli elettori vuole maggiori libertà e meno regole per poter raggiungere i propri obiettivi personali. Da quanto è che chiediamo meno burocrazia? Ne ha parlato Luca Montezemolo qualche giorno fa rivolgendosi agli imprenditori: «C’è chi tra noi ha impiegato sette mesi per realizzare un nuovo impianto all’estero e 19 anni per poter fare una tettoia nel suo stabilimento in Italia». Da quanto è che andiamo dicendo che privatizzazioni e liberalizzazioni rappresentano la strada maestra per aprire alla concorrenza settori che in altri Paesi hanno generato imprese, occupazione, reddito e maggiore soddisfazione per i consumatori? Ma – insiste Montezemolo – «invece di liberalizzare e dismettere c’è chi opera in regimi protetti con i soldi dei cittadini» e c’è ormai «una corsa sfrenata da parte di enti locali di ogni dimensione e di ogni colore a creare aziende di qualunque tipo, a trasformare le municipalizzate in Spa mantenendo un controllo pubblico spesso totale». E sono solo esempi. Aggiungo che se il sostegno ai giovani in cerca di lavoro, la cura degli anziani, dei malati di mente, dei bambini sono compiti della famiglia (tanto per capirci, nel Regno Unito restano, dopo sedici anni di Thatcher, compiti dello Stato) che continua a funzionare come «ammortizzatore sociale» portandone per intero il fardello, i comportamenti e le aspettative della società friulana non possono cambiare. Sarebbe un errore, anche in vista delle regionali del 2008, non prendere sul serio i problemi e le aspettative a cui Berlusconi dà voce (sia pure strumentalizzandole) e le derive di lungo periodo di cui è forse inconsapevole interprete. Forse è più semplice (e più redditizio) parlare del territorio e delle identità, ma efficienza e meritocrazia sono i soli modi per non «declinare». Come ha detto Piero
Fassino rivolgendosi a Prodi in occasione del voto di fiducia, serve «il coraggio di osare», perché «solo osando saremo capaci di restituire agli italiani certezze, diritti, speranze». Aggiungo che il premio al merito dovrebbe essere un valore della sinistra: non è forse questo (a Udine come a Trieste) il motore
dell’«ascensore sociale»?

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Il Piccolo, 20 giugno 2006 – Il populismo a Nord Est

Finora i capi personali hanno scelto la scorciatoia delle politiche simboliche in quei settori nei quali è più facile attrarre l’attenzione dei media. Ma esercitare la leadership significa anche impegnarsi in azioni impopolari, convincere, rischiare di persona.

Comincia a farsi strada la consapevolezza che le riforme istituzionali e costituzionali non bastano da sole a consolidare la democrazia dell’alternanza e che serve anche una
riorganizzazione decisa e radicale dei soggetti politici. Era ora. Ma è il caso di sottolineare che perché il Partito democratico si possa realizzare davvero occorrono alcune condizioni di possibilità. E, tra queste, una cultura politica del primato dell’individuo, delle libertà, della cittadinanza e un programma fondamentalmente liberaldemocratico. Niente a che vedere, per capirci, col realizzarsi tardivo del compromesso storico e con la sua tendenza a risolvere e rinchiudere l’intera società nel sistema dei partiti. Anche per questo ho sempre pensato che Sergio Cecotti e Riccardo Illy potessero contribuire a ridefinire, col loro «fiuto populista», il carattere del centrosinistra e di un bipolarismo insidiato soprattutto dalla debolezza dei soggetti politici. La maggior parte dei discorsi e delle idee populiste esprimono un malessere e una forma di mobilitazione ambivalente (a volte pericolosa per la democrazia, ma al tempo stesso stimolante per capire le esigenze dei cittadini e riformare la politica) e si alimentano attraverso la denuncia della frattura che si è creata tra élite e popolo. E il leader è colui che esprime attraverso la sua persona i valori di cui il «popolo» è portatore. A modo loro, Illy, Cecotti e lo stesso Brandolin, esprimono, proprio attraverso la loro diversità dai politici tradizionali, la legittimità (del popolo) che è stata calpestata (dai visitors venuti da Roma – o da Trieste – per imporre le loro soluzioni e i loro candidati) e il bisogno di ritrovare la «purezza delle origini» attraverso una rigenerazione. Di questa rigenerazione (tanto per il contenitore che per i contenuti) il centrosinistra ha bisogno.
Del resto, la personalizzazione (sulla cui importanza è tornato domenica scorsa il prof. Segatti), insieme alla professionalizzazione e alla centralizzazione, descrive il processo di rifondazione del New Labour inglese: «Promuovere il partito nella forma del leader». Ma esercitare la leadership significa anche impegnarsi in azioni impopolari, convincere, rischiare di persona. Finora invece i capi personali di casa nostra hanno scelto la scorciatoia delle politiche simboliche intervenendo in quei settori nei quali è più facile attrarre l’attenzione dei media e dei cittadini. Da qui l’enfasi sull’antagonismo territoriale, le identità locali e l’immancabile richiesta di risarcimento. Ma per questa via i leader personali sono diventati ostaggio di un conflitto incomprensibile. C’è davvero qualcuno che abbia capito che cosa vuole Cecotti?
Ma una buona politica, una «politica-risorsa» è quella che, al di là del contrasto di opinioni, riesce a trasmettere ai cittadini un progetto di sviluppo collettivo e che da questo (a esempio, un intervento drastico di riforma della burocrazia) ha origine il conflitto politico. Quella che appare ai cittadini come la rissosità inconcludente degli orchestrali di Prova d’orchestra, il famoso film-apologo di Federico Fellini, è invece una «politica-ostacolo».
Un esempio (tra i tanti) di quanto sia lento il riformismo politico lo si trova nella straordinaria storia delle badanti. Di fronte alle carenze dell’assistenza pubblica le famiglie si sono comportate come degli imprenditori: si sono rivolte al mercato internazionale del lavoro che forniva occasioni a prezzi contenuti e la domanda delle famiglie con anziani si è incontrata con l’offerta di immigrate in gran parte provenienti dall’Est. Del resto, solo il 2,8% degli anziani italiani riesce ad avere un’assistenza a casa propria e alle case di cura e alle residenze sanitario-assistenziali si rivolge meno dell’8%. E l’afflusso di badanti in Italia comporta forti risparmi per il welfare pubblico: il costo «teorico» risparmiato per la Regione Veneto sarebbe pari a circa 350 miliardi di vecchie lire annui. C’è da stupirsi, allora, se la gente ci chiede di tagliare le tasse?
Proprio l’esperienza di questi anni ci dice che senza un nuovo partito le riforme necessarie (per esempio, l’elenco dei settori da liberalizzare è lunghissimo: trasporti, gas, elettricità e via dicendo) non si fanno. Perché la politica (vecchia e nuova) non ha la forza necessaria per realizzarle vincendo le resistenze conservatrici e le spinte reazionarie che ci sono su ognuno dei problemi aperti. E quella forza politica non c’è se le energie dei riformisti sono disperse in tanti soggetti politici diversi, non raggiungendo mai la soglia critica necessaria per imporre una strategia riformista coerente. Anche per questo penso che sindaci e governatori dovrebbero, come ha scritto Mauro Calise, sobbarcarsi «accanto ai molti onori della seduzione, anche l’onere della costruzione. Facendosi promotori e interpreti di quel processo di rifondazione statale senza il quale non c’è orizzonte né per loro, né per il paese».
Ci si poteva dire indipendenti dai vecchi soggetti politici. Ma che senso ha dirsi indipendenti dal partito nuovo che le liste civiche dovrebbero contribuire a formare e che si giudica opportuno costruire? E ha senso la riproposizione del partito «regionale» in salsa catalana o bavarese? Inoltre, com’è capitato a Brandolin, i capi personali devono fare i conti con una doppio limite: quello dei due mandati e quello di un’esperienza che il più delle volte resta, appunto, civica. Per capirci, sulla piccola scala sulla quale le idee democratiche e repubblicane si erano limitate fino alla fine del XVIII secolo i partiti politici (le «fazioni» organizzate) non erano né necessari né desiderabili, ma diventano una necessità evidente per i sostenitori della democrazia odierna su grande scala. Per questo Madison e Jefferson crearono un partito veramente popolare, il primo di questo genere, un partito con una base di massa nei quartieri, nelle circoscrizioni, nei paesi, nelle città, nelle aree rurali dei Paesi. Via via che un sistema politico diventa più grande la gente per difendere i propri interessi ha bisogno di organizzarsi. Aggiungo che altrove sanno fare squadra e noi invece siamo incapaci di muoverci insieme. Quando si tratta di cooperare si stenta infatti a mettere insieme territori, interessi, identità. Piuttosto che un ministro «triestino» o «padovano», meglio niente. «Con il risultato – come scriveva Ilvo Diamanti nel 2001 a pochi giorni dal varo del governo Berlusconi – che se il policentrismo, la tensione concorrenziale, la spinta verso l’Est europeo, l’autonomismo, la stessa distanza dallo Stato hanno costruito un marchio e un fattore di successo per il Nordest, oggi appaiono altrettanti limiti. Che rendono difficile fare sistema. Coordinarsi, cercare e imporre comuni riferimenti, comuni rappresentanti. Diventano freni. Per un mondo che cresce e agisce lontano da Roma, ma che, mentre Roma torna ad essere capitale, anche da Roma appare lontano. E piccolo».

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Europa , 25 luglio 2006 – Occupiamoci dei tanti e non dei pochi

Intervista con Alessandro Maran, capogruppo dell’Ulivo in commissione giustizia.

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DemocraziaLegalità.it, 24 luglio 2006 – Indulto e reati finanziari

Intervista all’on. Alessandro Maran, capogruppo de L’Ulivo in Commissione Giustizia della Camera
di Marco Ottanelli

Onorevole Maran, come giustifica agli occhi degli elettori di centrosinistra la mancata esclusione dei “reati finanziari”  dal progetto di legge di indulto?

La situazione nelle carceri è esplosiva, lo ha detto lo stesso Ministro di Grazia e Giustizia, e lo ha detto addirittura durante la sua visita a Rebibbia, suscitando quindi non solo allarme generale per i dati riportati, ma anche molte speranze e aspettativa fra i detenuti. Badi bene: il programma dell’Unione sottolinea la necessità di intervenire sull’emergenza-carceri: è una priorità che concerne i diritti umani. Le cito il passaggio: “Il livello di civiltà di un paese si misura osservando le condizioni delle sue carceri” scriveva Fedor Dovstojevskj. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Nel nostro Paese, le condizioni attuali di vita carceraria sono lontane da ogni senso di umanità e di rispetto della dignità del detenuto : il degrado è connesso sempre più pesantemente dal sovraffollamento delle carceri.” Quindi, era tutto scritto chiaramente, era un impegno che avevamo preso proprio con i nostri elettori.

Però si è detto che per assicurarsi i voti di Forza Italia, per arrivare ai 2/3 dei parlamentari a favore, si darà lo sconto a personaggi come Cesare Previti…

Il centrodestra, o parte di esso, vota a favore perché spera di ricavarne vantaggi propri. Poi questo sarà tutto da vedere, e d’altronde i due terzi necessari sono previsti dalla Costituzione…

Si, ma c’è una certa incoerenza riguardo all’allarme sociale che certi reati contro la Pubblica Amministrazione suscitano e questo che è percepito come un regalo ai ladri e ai corrotti…

Non c’è incoerenza, perché non c’è sproporzione: se lo sconto della pena si applica ad un reato che comporta molti anni di prigione, perché non lo si dovrebbe applicare per reati che comportano pochi anni di detenzione?

Ma quando la pena e lo sconto coincidono, questo non diventa una cancellazione della pena stessa? Ciò accade nel caso di  molti reati finanziari, che prevedono pene di circa 2-3 anni, esattamente come lo sconto previsto.

Vuol dire che il reato non era poi così grave! Voglio ricordare che l’indulto cancella la pena, quindi il reato deve essere prima accertato, e il soggetto che ne beneficerà condannato. Per quanto riguarda la corruzione, ad esempio, chi la compie decade dai pubblici uffici, ed è tenuto a restituire quanto abusivamente percepito. Ribadisco: se per certi gravi reati si concede lo sconto, perché non farlo per reati meno gravi?
Si ricordi che questo, come previsto nel nostro progetto, è l’indulto più “esclusivo” che ci sia mai stato nella storia della Repubblica, escludendo, appunto, una lunghissima serie di reati dai benefici.

Il programma dell’Unione dice anche che “Bisogna innanzitutto combattere la corruzione, fenomeno ancora vivo…Daremo maggiore attenzione sia ai reati connessi all’attività amministrativa, come la corruzione, sia alla criminalità economica, che falsa le condizioni di concorrenza e di mercato” Non le pare che questo dell’indulto  sia un segnale nella direzione opposta?

Il problema centrale è quello dell’affollamento disumano delle carceri. Noi abbiamo scelto la strada dell’indulto, che, è bene chiarirlo, è uno sconto sulla pena e non cancella il reato né la condanna, proprio per dare senso ad un intervento che si è ritenuto di emergenza assoluta. I corrotti, come detto prima, saranno sanzionati penalmente ed esclusi dalle cariche pubbliche. Non è pensabile che certi reati diventino improvvisamente più “socialmente gravi” di altri, quando il codice prevede il contrario.

Ma non sarebbe stato meglio intervenire sulle cause che determinano l’affollamento stesso? Sui tempi dei processi, e su altre leggi e codici che hanno questo effetto?

Ma il governo non aveva certo tempo per formulare una simile operazione in pochi mesi, in soli tre mesi. È su questo aspetto, mi permetto di insistere,  che si deve riflettere prima di ogni altra cosa: era necessario intervenire sull’emergenza-carceri? Se la risposta è sì, non c’era altra strada possibile. Altri eventuali progetti li deve formulare il Ministro competente, ed è a lui che va rivolta, in definitiva, questa domanda.

(intervista telefonica effettuata il 24/7/06 alle ore 17.15 -17.30 circa)

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GIORNALI2006

Il Piccolo, 18 settembre 2006 – Le province non siano dei confini

Desiderare di trovarsi “in una diversa Regione” non sottintende il nation building e l’indipendenza del Friuli, ma implica “rifare” la Pubblica Amministrazione.

Di recente, Sergio Baraldi ha osservato opportunamente che oggi il conflitto che attraversa la politica, la gara tra innovatori e conservatori, riguarda anzitutto il ruolo che deve avere lo Stato. Vengo a un esempio di questi giorni: l’Assemblea delle province friulane. In tutta Europa sono in corso esperimenti per definire un nuovo ordine territoriale. A Rotterdam un network amministrativo che include anche altre municipalità è stato tentato per definire la “Cittaregione”; a Stoccarda una conferenza regionale è stata creata per coordinare la città, il Land Baden Württemberg e le città minori; a Lione si è creata una “regione urbana” con le città vicine e così via. Le città, infatti, stanno mutando funzioni, posizione e funzionamento interno in tutta Europa e l’organizzazione della produzione e dei servizi, per tutte le cose di qualità, sta sempre più uscendo dal tradizionale spazio urbano, divenuto troppo limitato, per approdare ad aree più estese.

Ovviamente, anche un sistema molto frammentato come il nostro (l’80% dei comuni ha meno di 5000 abitanti) si deve organizzare in direzione dell’integrazione fra più città e più sistemi locali, perché solo questa soluzione permette di sostenere i costi e i rischi necessari a sviluppare i servizi di qualità (università, ricerca, sanità, terziario avanzato, ecc.) indispensabili alla produzione e a una vita sociale ricca e solidale. Ma immaginare uno spazio metropolitano (cioè un unico bacino di domanda e offerta per questo tipo di servizi) integrato fra le diverse città della nostra regione e le diverse province non significa progettarne la fusione. Significa al contrario, come scrive, da almeno dieci anni, il prof. Enzo Rullani, «lavorare per la messa in sistema delle conoscenze, delle competenze e delle risorse che sono complessivamente presenti in un’area estesa, in cui i singoli centri urbani possono mantenere e anche rafforzare la propria individualità, divenendo parti specializzate di un sistema più vasto».

Gli esperimenti in corso in tutta Europa ci dicono infatti che per organizzare questo spazio non si deve costruire una qualche “gerarchia” o istituire in modo formale un’autorità istituzionale demandata a governarlo (come l’Assemblea), bisogna invece mettere mano a qualcosa di più flessibile e di più importante: un insieme di “reti” relazionali e di alleanze territoriali (fra enti locali e fra imprese, fra imprese e finanza, fra soggetti economici e centri di formazione e ricerca, ecc.); e nel momento in cui le relazioni gerarchiche sono sostituite dalle reti, i confini diventano permeabili, perdono di importanza e anche i conflitti tradizionali perdono di consistenza. Il progetto, affossato da tanti amministratori friulani, di costruire una società multiservizi (la Nes), che mirava a mettere assieme 133 comuni e circa 1 milione e 300mila utenti, era, a esempio, un passo in questa direzione. Perché allora si continua a invocare l’Assemblea delle province friulane? Per via di un equivoco di fondo che segna la discussione in corso: la questione del «riconoscimento del Friuli». C’è chi pensa che la stessa revisione dello Statuto debba essere il pretesto e l’occasione per riconoscere costituzionalmente la nazione del Friuli che, come la Scozia, sarebbe un caso di Staleless nation, cioè un territorio che pur privo di sovranità statuale ne ricopre i presupposti sostanziali, essendo dotato di una propria riconoscibile identità. Come ha sostenuto il sindaco di Udine Sergio Cecotti nel corso del dibattito in seno alla Convenzione, si tratterebbe dunque di riconoscere un «piccolo Stato» (per Cecotti la specialità sarebbe «una forma attenuata di statualità») nel quale «una comunità compatta parla una lingua localmente maggioritaria»: il friulano.

Anche Marzio Strassoldo ritiene che, superata la questione internazionale, la specialità si legittimi solo con la presenza della minoranza linguistica friulana e l’autonomia debba potersi leggere come «autogoverno della minoranza». Il modello, in altre parole, è quello dell’Alto Adige nel quale l’autonomia è funzionale alla tutela minoritaria e la tutela delle minoranze è il fine dell’autonomia. Da qui le ricorrenti proposte di autonomia “separata” per il Friuli (proposto come luogo mitico d’origine) e per Trieste. L’Assemblea delle province friulane non serve dunque a migliorare la qualità del governo locale (e dunque la qualità della vita dei cittadini): per far questo basterebbe darsi da fare. La sua ragion d’essere sta proprio nel tracciare, irrigidire e sorvegliare il confine tra il “dentro” di quel territorio e il “fuori”. Messe così le cose, è così strano che un tale proposito, che ricorda l’esperimento negativo della Provincia del Friuli (1923-1927), non sia condiviso dalla Provincia di Gorizia? Allora la soppressione della Provincia di Gorizia (assorbita da Udine, Trieste e, in piccola parte, dalla Provincia dell’Istria, dopo che nelle elezioni del 1921 aveva eletto al Parlamento quattro “slavi” e un comunista) fu dovuta alla “necessità” di annullare la prevalenza slovena nel suo territorio e di riaffermare l’italianità della zona, mentre oggi il suo assorbimento verrebbe giustificato invece con la «necessità» di riconoscere una «comunità compatta» (quella friulana) che «parla una lingua localmente maggioritaria» (il friulano). Non funzionò col fascismo e non si vede come possa funzionare oggi. Ma tradisce un’idea di Stato molto discutibile.

L’etnicità è un concetto esclusivista ed è difficile da conciliare con i principi di tolleranza e diversità da cui dipende una vera società civile. Ed è alla “società civile” e non alla “comunità” che ci dobbiamo rivolgere. La cittadinanza è infatti una forma di integrazione basata sulla condivisione di diritti civili e non sull’appartenenza a determinati gruppi vincolati da legami di sangue, tradizioni culturali o gerarchie ereditarie. In questo risiede la novità radicale della “società di cittadini” e la sua superiorità etico-politica rispetto ad altre forme di convivenza del passato. È così bizzarro che Enrico Gherghetta la rivendichi?

E che si rivendichi la persistenza di una “società plurale” che è sopravvissuta ai tentativi di semplificazione culturale e nazionale messi in atto dai totalitarismi e dai nazionalismi del secolo scorso? Che si voglia riportare l’attenzione sul federalismo non come ideologia ma come “progetto riformista”, uno strumento per affrontare i problemi dello sviluppo e le domande di cambiamento e non per delineare una patria e un popolo?

Il passaggio attraverso lo Stato sociale non è avvenuto invano: esso ha profondamente modificato il rapporto tra cittadini e sfera pubblica mettendo in primo piano la dimensione dei servizi ed il problema dell’efficacia, cioè i problemi dell’amministrazione. È questa la ragione per la quale desiderare di trovarsi «in una diversa Regione» non sottintende l’indipendenza del Friuli, ma implica anzitutto “rifare” la pubblica amministrazione.

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GIORNALI2006

Il Piccolo, 9 ottobre 2006 – La sfida della Sinistra

Sergio Baraldi ha scritto, a proposito del recente congresso dei Ds, «non si vive di solo leader» e ha invitato il centrosinistra che vuole vincere (e convincere) «a non sottovalutare l’importanza di un profondo mutamento culturale». È, in fondo, il tema del seminario di Orvieto sul Partito democratico. La relazione di Bruno Zvech testimonia del lavoro per trovare, nella dimensione locale, risposte efficaci, ispirate ai nostri valori e compatibili in un contesto di risorse scarse. Ma il compito mancato, tra il 1989 e il 1994, della costruzione di un grande partito riformista a sinistra (e di un grande partito moderato a destra) è sempre di fronte a noi. Secondo Andrea Romano, nel corso degli anni Novanta, «l’endiadi “socialismo europeo-Paese normale” presentava in realtà un programma ambizioso e fortemente discontinuo rispetto a quanto era accaduto sino ad allora nella sinistra postcomunista (…) Si trattava, né più né meno, di inserire stabilmente la componente maggioritaria della sinistra nell’alveo della socialdemocrazia europea (per la prima volta in termini realmente politico-culturali, al di là dei formalismi associativi già risolti) e di porsi l’obiettivo politico di superare alcuni dei limiti di sviluppo più consolidati della nazione italiana sulla base di un nuovo equilibrio tra coesione sociale e innovazione economica». Ma il governo di allora scontò le sue difficoltà principali proprio sul piano della trasformazione degli slogan della “rivoluzione liberale” in un programma di governo che fosse capace di tradurli in realtà.

Quella vicenda mise in luce l’incapacità della sinistra riformista di promuovere un’aperta battaglia culturale all’interno del proprio “mondo di riferimento” in difesa di quelle idee che aveva annunciato come l’orizzonte della propria azione politica. «Quella battaglia – scrive infatti Romano – non ci fu mai davvero, a differenza di quanto era accaduto pochi anni prima in Gran Bretagna».

E non per un pavidità, ma perché bisognava crederci davvero. «Prevalsero in quel momento – insiste Romano – tutti i limiti di una cultura politica tardoberlingueriana incardinata sull’orizzonte della diversità e su una rappresentazione compattamente unitaria e indivisibile della propria identità e del proprio elettorato. Di tale cultura erano figli legittimi tutti i principali esponenti di quel gruppo dirigente, per i quali ogni rischio di frattura culturale era percepito come l’annuncio di un trauma». Da qui una sorta di strategia dei due tempi: prima bisognava risolvere il problema della guida politica del partito (e del Paese) e «solo successivamente l’effetto carismatico di quella guida avrebbe dovuto trascinare il partito su nuove coordinate di cultura politica. Una strategia che implicava un giudizio di non riformabilità della sinistra e la necessità di una sorta di by-pass con cui superare gli snodi più problematici di quel passaggio storico».

Il fatto è che nessuna delle tradizioni del riformismo italiano può considerasi autosufficiente ad animare un soggetto politico capace di svolgere quella stessa funzione politica che nei grandi Paesi europei svolgono i grandi partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti. In Italia, un partito del genere può nascere solo dal concorso e dalla fusione delle tradizioni, delle esperienze, delle culture politiche di cui sono espressione oggi i partiti dell’Ulivo.

Non mancheranno i problemi: dalla collocazione internazionale del partito ai temi eticamente sensibili. Per non parlare della vita interna dei due partiti che ne dovrebbero costituire l’asse portante: oggi l’assenza di un confronto e di una lotta politica spegne tutto e fa prevalere la normale amministrazione nei centri in cui si amministra il potere. Ma dovunque, nella sinistra europea, socialismo, liberalismo, personalismo cristiano stanno convergendo nella costruzione di una nuova politica dello sviluppo e dell’inclusione. E solo con molta fantasia si possono ricondurre le profonde specificità nazionali all’ortodossia di un “unico” socialismo europeo. Al contrario, i partiti socialisti europei sono dei veri e propri “crocevia culturali” che sono stati capaci di metabolizzare e addirittura egemonizzare le tendenze innovative sorte su altri terreni. Oggi la socialdemocrazia è già un compromesso liberal-socialista. E, anche in Italia, c’è l’esigenza di costruire la sinistra come crogiolo dei diversi filoni che si sono variamente intrecciati nella sinistra europea, quale condizione del suo radicamento, che ci porti all’altezza politica, elettorale, culturale della sinistra europea.

È proprio l’incontro tra socialismo e liberalismo che ha consentito ai grandi partiti del socialismo europeo di ridefinire la propria funzione, i tratti essenziali del proprio programma: il rapporto tra Stato e mercato, l’organizzazione dello Stato sociale, le relazioni con i sindacati. E più in generale: il rapporto tra politica, singoli cittadini e società civile. Non bisogna confondere il Partito democratico con un sogno a lungo inconsciamente coltivato, quello cioè dell’incontro tra cattolici e comunisti, come se si trattasse del tardivo inveramento di un compromesso storico inscritto nel Dna della Repubblica. Perché il Partito democratico si possa realizzare occorre infatti una cultura politica del primato dell’individuo, delle libertà, della cittadinanza e un programma fondamentalmente liberale.

Vale sia per la riforma del welfare (e il motivo per cui in Italia il modello di Stato sociale universalista socialdemocratico non si è sviluppato ha a che fare ovviamente con la natura familistica democristiana di quello che è stato costruito – con i suoi pregi e i suoi molti difetti – ma anche con il modo sempre assai incerto con cui la sinistra ha coltivato il suo rapporto col riformismo europeo) sia per l’identità (poiché si tratta di riconoscere che le identità sono in larga misura plurali e tali pluralità rappresentano un antidoto a una separazione netta lungo una linea divisoria fortificata e impenetrabile). L’adesione del nuovo partito all’area socialista è (a mio avviso) naturale e può essere uno stimolo per l’allargamento di quel perimetro. Ma il riferimento al socialismo europeo vale non per ciò che è stato in passato, ma per quel che fa oggi nell’economia, nel welfare, nella società civile.

La sinistra oggi riconosce che il mercato è il contesto migliore per giungere a una economia efficace e razionale e che il nodo da sciogliere è piuttosto quello per conciliare, nella realtà della globalizzazione, un’economia competitiva con una società equa. Ma se c’è ancora un problema permanente di redistribuzione del reddito secondo equità e se questo problema può essere affrontato solo mediante un’azione organizzata socialmente e politicamente, allora bisogna continuare a “tenere la sinistra”. E dopo Orvieto possiamo chiederci se c’è davvero differenza tra socialisti e kennediani o se non vogliamo tutti la stessa cosa.

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