Desiderare di trovarsi “in una diversa Regione” non sottintende il nation building e l’indipendenza del Friuli, ma implica “rifare” la Pubblica Amministrazione.
Di recente, Sergio Baraldi ha osservato opportunamente che oggi il conflitto che attraversa la politica, la gara tra innovatori e conservatori, riguarda anzitutto il ruolo che deve avere lo Stato. Vengo a un esempio di questi giorni: l’Assemblea delle province friulane. In tutta Europa sono in corso esperimenti per definire un nuovo ordine territoriale. A Rotterdam un network amministrativo che include anche altre municipalità è stato tentato per definire la “Cittaregione”; a Stoccarda una conferenza regionale è stata creata per coordinare la città, il Land Baden Württemberg e le città minori; a Lione si è creata una “regione urbana” con le città vicine e così via. Le città, infatti, stanno mutando funzioni, posizione e funzionamento interno in tutta Europa e l’organizzazione della produzione e dei servizi, per tutte le cose di qualità, sta sempre più uscendo dal tradizionale spazio urbano, divenuto troppo limitato, per approdare ad aree più estese.
Ovviamente, anche un sistema molto frammentato come il nostro (l’80% dei comuni ha meno di 5000 abitanti) si deve organizzare in direzione dell’integrazione fra più città e più sistemi locali, perché solo questa soluzione permette di sostenere i costi e i rischi necessari a sviluppare i servizi di qualità (università, ricerca, sanità, terziario avanzato, ecc.) indispensabili alla produzione e a una vita sociale ricca e solidale. Ma immaginare uno spazio metropolitano (cioè un unico bacino di domanda e offerta per questo tipo di servizi) integrato fra le diverse città della nostra regione e le diverse province non significa progettarne la fusione. Significa al contrario, come scrive, da almeno dieci anni, il prof. Enzo Rullani, «lavorare per la messa in sistema delle conoscenze, delle competenze e delle risorse che sono complessivamente presenti in un’area estesa, in cui i singoli centri urbani possono mantenere e anche rafforzare la propria individualità, divenendo parti specializzate di un sistema più vasto».
Gli esperimenti in corso in tutta Europa ci dicono infatti che per organizzare questo spazio non si deve costruire una qualche “gerarchia” o istituire in modo formale un’autorità istituzionale demandata a governarlo (come l’Assemblea), bisogna invece mettere mano a qualcosa di più flessibile e di più importante: un insieme di “reti” relazionali e di alleanze territoriali (fra enti locali e fra imprese, fra imprese e finanza, fra soggetti economici e centri di formazione e ricerca, ecc.); e nel momento in cui le relazioni gerarchiche sono sostituite dalle reti, i confini diventano permeabili, perdono di importanza e anche i conflitti tradizionali perdono di consistenza. Il progetto, affossato da tanti amministratori friulani, di costruire una società multiservizi (la Nes), che mirava a mettere assieme 133 comuni e circa 1 milione e 300mila utenti, era, a esempio, un passo in questa direzione. Perché allora si continua a invocare l’Assemblea delle province friulane? Per via di un equivoco di fondo che segna la discussione in corso: la questione del «riconoscimento del Friuli». C’è chi pensa che la stessa revisione dello Statuto debba essere il pretesto e l’occasione per riconoscere costituzionalmente la nazione del Friuli che, come la Scozia, sarebbe un caso di Staleless nation, cioè un territorio che pur privo di sovranità statuale ne ricopre i presupposti sostanziali, essendo dotato di una propria riconoscibile identità. Come ha sostenuto il sindaco di Udine Sergio Cecotti nel corso del dibattito in seno alla Convenzione, si tratterebbe dunque di riconoscere un «piccolo Stato» (per Cecotti la specialità sarebbe «una forma attenuata di statualità») nel quale «una comunità compatta parla una lingua localmente maggioritaria»: il friulano.
Anche Marzio Strassoldo ritiene che, superata la questione internazionale, la specialità si legittimi solo con la presenza della minoranza linguistica friulana e l’autonomia debba potersi leggere come «autogoverno della minoranza». Il modello, in altre parole, è quello dell’Alto Adige nel quale l’autonomia è funzionale alla tutela minoritaria e la tutela delle minoranze è il fine dell’autonomia. Da qui le ricorrenti proposte di autonomia “separata” per il Friuli (proposto come luogo mitico d’origine) e per Trieste. L’Assemblea delle province friulane non serve dunque a migliorare la qualità del governo locale (e dunque la qualità della vita dei cittadini): per far questo basterebbe darsi da fare. La sua ragion d’essere sta proprio nel tracciare, irrigidire e sorvegliare il confine tra il “dentro” di quel territorio e il “fuori”. Messe così le cose, è così strano che un tale proposito, che ricorda l’esperimento negativo della Provincia del Friuli (1923-1927), non sia condiviso dalla Provincia di Gorizia? Allora la soppressione della Provincia di Gorizia (assorbita da Udine, Trieste e, in piccola parte, dalla Provincia dell’Istria, dopo che nelle elezioni del 1921 aveva eletto al Parlamento quattro “slavi” e un comunista) fu dovuta alla “necessità” di annullare la prevalenza slovena nel suo territorio e di riaffermare l’italianità della zona, mentre oggi il suo assorbimento verrebbe giustificato invece con la «necessità» di riconoscere una «comunità compatta» (quella friulana) che «parla una lingua localmente maggioritaria» (il friulano). Non funzionò col fascismo e non si vede come possa funzionare oggi. Ma tradisce un’idea di Stato molto discutibile.
L’etnicità è un concetto esclusivista ed è difficile da conciliare con i principi di tolleranza e diversità da cui dipende una vera società civile. Ed è alla “società civile” e non alla “comunità” che ci dobbiamo rivolgere. La cittadinanza è infatti una forma di integrazione basata sulla condivisione di diritti civili e non sull’appartenenza a determinati gruppi vincolati da legami di sangue, tradizioni culturali o gerarchie ereditarie. In questo risiede la novità radicale della “società di cittadini” e la sua superiorità etico-politica rispetto ad altre forme di convivenza del passato. È così bizzarro che Enrico Gherghetta la rivendichi?
E che si rivendichi la persistenza di una “società plurale” che è sopravvissuta ai tentativi di semplificazione culturale e nazionale messi in atto dai totalitarismi e dai nazionalismi del secolo scorso? Che si voglia riportare l’attenzione sul federalismo non come ideologia ma come “progetto riformista”, uno strumento per affrontare i problemi dello sviluppo e le domande di cambiamento e non per delineare una patria e un popolo?
Il passaggio attraverso lo Stato sociale non è avvenuto invano: esso ha profondamente modificato il rapporto tra cittadini e sfera pubblica mettendo in primo piano la dimensione dei servizi ed il problema dell’efficacia, cioè i problemi dell’amministrazione. È questa la ragione per la quale desiderare di trovarsi «in una diversa Regione» non sottintende l’indipendenza del Friuli, ma implica anzitutto “rifare” la pubblica amministrazione.