Sergio Baraldi ha scritto, a proposito del recente congresso dei Ds, «non si vive di solo leader» e ha invitato il centrosinistra che vuole vincere (e convincere) «a non sottovalutare l’importanza di un profondo mutamento culturale». È, in fondo, il tema del seminario di Orvieto sul Partito democratico. La relazione di Bruno Zvech testimonia del lavoro per trovare, nella dimensione locale, risposte efficaci, ispirate ai nostri valori e compatibili in un contesto di risorse scarse. Ma il compito mancato, tra il 1989 e il 1994, della costruzione di un grande partito riformista a sinistra (e di un grande partito moderato a destra) è sempre di fronte a noi. Secondo Andrea Romano, nel corso degli anni Novanta, «l’endiadi “socialismo europeo-Paese normale” presentava in realtà un programma ambizioso e fortemente discontinuo rispetto a quanto era accaduto sino ad allora nella sinistra postcomunista (…) Si trattava, né più né meno, di inserire stabilmente la componente maggioritaria della sinistra nell’alveo della socialdemocrazia europea (per la prima volta in termini realmente politico-culturali, al di là dei formalismi associativi già risolti) e di porsi l’obiettivo politico di superare alcuni dei limiti di sviluppo più consolidati della nazione italiana sulla base di un nuovo equilibrio tra coesione sociale e innovazione economica». Ma il governo di allora scontò le sue difficoltà principali proprio sul piano della trasformazione degli slogan della “rivoluzione liberale” in un programma di governo che fosse capace di tradurli in realtà.
Quella vicenda mise in luce l’incapacità della sinistra riformista di promuovere un’aperta battaglia culturale all’interno del proprio “mondo di riferimento” in difesa di quelle idee che aveva annunciato come l’orizzonte della propria azione politica. «Quella battaglia – scrive infatti Romano – non ci fu mai davvero, a differenza di quanto era accaduto pochi anni prima in Gran Bretagna».
E non per un pavidità, ma perché bisognava crederci davvero. «Prevalsero in quel momento – insiste Romano – tutti i limiti di una cultura politica tardoberlingueriana incardinata sull’orizzonte della diversità e su una rappresentazione compattamente unitaria e indivisibile della propria identità e del proprio elettorato. Di tale cultura erano figli legittimi tutti i principali esponenti di quel gruppo dirigente, per i quali ogni rischio di frattura culturale era percepito come l’annuncio di un trauma». Da qui una sorta di strategia dei due tempi: prima bisognava risolvere il problema della guida politica del partito (e del Paese) e «solo successivamente l’effetto carismatico di quella guida avrebbe dovuto trascinare il partito su nuove coordinate di cultura politica. Una strategia che implicava un giudizio di non riformabilità della sinistra e la necessità di una sorta di by-pass con cui superare gli snodi più problematici di quel passaggio storico».
Il fatto è che nessuna delle tradizioni del riformismo italiano può considerasi autosufficiente ad animare un soggetto politico capace di svolgere quella stessa funzione politica che nei grandi Paesi europei svolgono i grandi partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti. In Italia, un partito del genere può nascere solo dal concorso e dalla fusione delle tradizioni, delle esperienze, delle culture politiche di cui sono espressione oggi i partiti dell’Ulivo.
Non mancheranno i problemi: dalla collocazione internazionale del partito ai temi eticamente sensibili. Per non parlare della vita interna dei due partiti che ne dovrebbero costituire l’asse portante: oggi l’assenza di un confronto e di una lotta politica spegne tutto e fa prevalere la normale amministrazione nei centri in cui si amministra il potere. Ma dovunque, nella sinistra europea, socialismo, liberalismo, personalismo cristiano stanno convergendo nella costruzione di una nuova politica dello sviluppo e dell’inclusione. E solo con molta fantasia si possono ricondurre le profonde specificità nazionali all’ortodossia di un “unico” socialismo europeo. Al contrario, i partiti socialisti europei sono dei veri e propri “crocevia culturali” che sono stati capaci di metabolizzare e addirittura egemonizzare le tendenze innovative sorte su altri terreni. Oggi la socialdemocrazia è già un compromesso liberal-socialista. E, anche in Italia, c’è l’esigenza di costruire la sinistra come crogiolo dei diversi filoni che si sono variamente intrecciati nella sinistra europea, quale condizione del suo radicamento, che ci porti all’altezza politica, elettorale, culturale della sinistra europea.
È proprio l’incontro tra socialismo e liberalismo che ha consentito ai grandi partiti del socialismo europeo di ridefinire la propria funzione, i tratti essenziali del proprio programma: il rapporto tra Stato e mercato, l’organizzazione dello Stato sociale, le relazioni con i sindacati. E più in generale: il rapporto tra politica, singoli cittadini e società civile. Non bisogna confondere il Partito democratico con un sogno a lungo inconsciamente coltivato, quello cioè dell’incontro tra cattolici e comunisti, come se si trattasse del tardivo inveramento di un compromesso storico inscritto nel Dna della Repubblica. Perché il Partito democratico si possa realizzare occorre infatti una cultura politica del primato dell’individuo, delle libertà, della cittadinanza e un programma fondamentalmente liberale.
Vale sia per la riforma del welfare (e il motivo per cui in Italia il modello di Stato sociale universalista socialdemocratico non si è sviluppato ha a che fare ovviamente con la natura familistica democristiana di quello che è stato costruito – con i suoi pregi e i suoi molti difetti – ma anche con il modo sempre assai incerto con cui la sinistra ha coltivato il suo rapporto col riformismo europeo) sia per l’identità (poiché si tratta di riconoscere che le identità sono in larga misura plurali e tali pluralità rappresentano un antidoto a una separazione netta lungo una linea divisoria fortificata e impenetrabile). L’adesione del nuovo partito all’area socialista è (a mio avviso) naturale e può essere uno stimolo per l’allargamento di quel perimetro. Ma il riferimento al socialismo europeo vale non per ciò che è stato in passato, ma per quel che fa oggi nell’economia, nel welfare, nella società civile.
La sinistra oggi riconosce che il mercato è il contesto migliore per giungere a una economia efficace e razionale e che il nodo da sciogliere è piuttosto quello per conciliare, nella realtà della globalizzazione, un’economia competitiva con una società equa. Ma se c’è ancora un problema permanente di redistribuzione del reddito secondo equità e se questo problema può essere affrontato solo mediante un’azione organizzata socialmente e politicamente, allora bisogna continuare a “tenere la sinistra”. E dopo Orvieto possiamo chiederci se c’è davvero differenza tra socialisti e kennediani o se non vogliamo tutti la stessa cosa.