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Messaggero Veneto, 30 dicembre 2006 – Il coraggio di cambiare

Messaggero Veneto, 30 dicembre 2006 Dovunque, in Europa, socialismo, liberalismo, personalismo cristiano stanno convergendo nella costruzione di una nuova politica dello sviluppo e dell’inclusione. E il Partito democratico deve servire al pieno “ricongiungimento” dell’Italia all’Europa.

IL CORAGGIO DI CAMBIARE

L’ultima volta che mi è capitato di partecipare al Parteitag della Spö, a Klagenfurt, il Congresso si aprì con le ballerine. A Brighton, invece, Gordon Brown ha introdotto il congresso del Labour leggendo i salmi. E non deve stupire, anche se a loro capita raramente di fare confusione tra Stato e Chiesa.
E a nessuno passa per la testa di sostituire l’Internazionale con ‘Ma il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano. Infatti nel Nord protestante la vicinanza tra Chiesa e partiti laburisti è un dato storico. Insomma, non c’è modo di trovare nella socialdemocrazia di oggi il vecchio Pci o qualcosa che gli somigli. Certo che in tutti i paesi europei c’è la sinistra, ci mancherebbe altro. Ma è un’altra sinistra. E finché non lo diremo chiaro e tondo sembrerà che, con il Partito democratico, ci vogliamo soltanto spostare a destra in un mondo in cui le distinzioni tra destra e sinistra sono immutabili. È chiaro che poi stentiamo a comprendere come mai, subito dopo le elezioni in Germania, Gerhard Schröder, «da uomo di sinistra», si sia affrettato a dichiarare «non sarò mai così irresponsabile da riportare i comunisti nei palazzi del potere» e abbia rinunciato alla cancelleria pur avendo la possibilità di restare a capo del governo con i voti del Linke. Tanto qualcuno pronto a sostenere che quella non è ‘vera” sinistra (che il Labour di Tony Blair, sarebbe, di fatto, un partito di destra e che, in fondo, nemmeno Schröder o, adesso, Ségolène Royal c’entrano con la sinistra) lo si trova sempre.
Il fatto è che l’alternativa tra socialisti e kennediani non è così netta come si vuol far credere. Da un pezzo i partiti socialisti europei sono diventati, come li ha definiti Gino Giugni, dei veri e propri «crocevia culturali» e sono stati capaci di metabolizzare e addirittura egemonizzare le tendenze innovative sorte su altri terreni. Va da sé che anche in Italia (e in Friuli, che partecipa in tutto e per tutto alle grandi questioni che la collettività nazionale si trova a fronteggiare) c’è l’esigenza di costruire la sinistra come crogiuolo dei diversi filoni che si sono variamente intrecciati nella sinistra europea, quale condizione del suo radicamento, che ci porti all’altezza politica, elettorale, culturale della sinistra europea. Ma il compito (mancato tra il 1989 e il 1994) della formazione di un grande partito pienamente europeo è sempre di fronte a noi. Certo, il passaggio dal Pci al Pds e poi ai Ds ha segnato un’accelerazione dei rapporti politici con la sinistra europea, già iniziatisi nel corso degli anni 80 e sanciti nelle tesi del Congresso del Pci del 1986, ma l’elaborazione di una cultura politica adeguata a quel confronto si è mossa con grande ritardo e si è cercato di superare l’impasse teorica e culturale e di bypassare le resistenze al cambiamento con l’indicazione dell’Ulivo come la nostra Bad Godesberg come luogo di incontro dei riformismi e delle tradizioni politiche comuniste, socialiste e cattoliche.
Il vero problema, allora, non è quello di prestabilire le forme di organizzazione politica che oggi si possono ipotizzare per il partito che verrà, ma quello di identificare il modello di cultura politica da cui questo nuovo soggetto dovrà trarre ispirazione. Tanto per fare un esempio, il motivo per cui in Italia il modello di Stato sociale universalista socialdemocratico non si è sviluppato ha ovviamente a che fare con la natura familistica democristiana di quello che è stato costruito (con i suoi pregi e i suoi molti difetti), ma, come ha osservato Paolo Borioni, «ha anche a che fare con il modo sempre assai incerto con cui la sinistra italiana ha coltivato il suo rapporto con il riformismo europeo». Per quanto si vogliano attribuire al Pci dei grandi meriti nell’aver disciplinato alla condotta democratico-costituzionale una sinistra italiana da sempre massimalista e al Psi di aver comunque garantito a tutto il mondo progressista lontano dal comunismo luoghi di dibattito e di rappresentanza, non ci sono dubbi che essi sono rimasti troppo a lungo estranei alla cultura riformista europea. E ora che abbiamo deciso di fare come in Europa, come può la maggioranza della sinistra italiana isolarsi di nuovo e tagliarsi fuori dai processi di rinnovamento che ha vissuto e sta ancora vivendo la socialdemocrazia europea? Può farlo oggi che il problema fondamentale per il socialismo del nuovo secolo è come questo possa svolgere la sua missione di difesa dei ceti più deboli e nello stesso tempo fare propria quella domanda di auto-realizzazione (uno dei valori più enfatizzati nel programma della Spd) e di promozione dello sviluppo che viene da quei ceti che sono i propulsori dello sviluppo? Ovviamente non si può. Perché il riferimento al socialismo europeo non vale per ciò che è stato in passato, ma per quel che fa oggi nell’economia, nel welfare, nella società civile. Il Partito democratico deve dunque servire al pieno ricongiungimento dell’Italia all’Europa. Per questo non possiamo lasciare le cose come sono. Perché nessuna delle tradizioni del riformismo italiano è in grado, da sola, di animare un soggetto politico capace di svolgere in Italia quella stessa funzione politica che nei grandi paesi europei svolgono i grandi partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti e perché occorrono una cultura politica del primato dell’individuo, delle libertà, della cittadinanza e un programma fondamentalmente liberale. È infatti l’incontro tra socialismo e liberalismo che ha consentito ai grandi partiti del socialismo europeo di ridefinire la propria funzione e i tratti essenziali del proprio programma: il rapporto tra Stato e mercato, l’organizzazione dello Stato sociale, le relazioni con i sindacati e il rapporto tra politica, singoli cittadini e società civile. Dovunque, in Europa, socialismo, liberalismo, personalismo cristiano stanno convergendo nella costruzione di una nuova politica dello sviluppo e dell’inclusione e la (naturale) adesione del nuovo partito all’area socialista può essere uno stimolo proprio per l’allargamento di quel perimetro. Senza confondere il partito che verrà con il sogno (a lungo coltivato) dell’incontro tra cattolici e comunisti, come se si trattasse della realizzazione tardiva di un compromesso storico inscritto nel Dna della repubblica: il ricordo di due grandi personaggi politici come Moro e Berlinguer può forse generare orgoglio e militanza, ma non ha niente a che vedere con la cultura politica delle democrazie europee. Piuttosto, se in questi anni il Regno Unito è diventato uno dei paesi europei più dinamici e competitivi, uno dei pochi paesi europei che in questi anni hanno visto ridursi le disuguaglianze e in cui la spesa sociale, in particolare nel campo della scuola e della salute, è aumentata senza precedenti, è perché, ha detto Tony Blair alla Conferenza di Manchester, «abbiamo avuto il coraggio di cambiare; e il nostro coraggio ha dato agli inglesi il coraggio di cambiare».
Deputato dell’Ulivo

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