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Il nuovo Riformista 14 febbraio 2009 – La verità del Novecento è che l’Occidente non voleva sapere

CONCUBINATO CON LE DITTATURE. «Gli Stati liberali hanno dimenticato il prezzo morale che pagarono per ottenere la coesistenza pacifica… la distensione. È una convinzione che pesa tuttora sulla vita interna dei paesi dell’Unione europea». (Peter Nadas)

 

Caro direttore – Luciano Violante ha ragione: è tempo di far entrare, nella storia italiana, la storia e il dolore degli altri. Anche perché le vittime delle foibe non sono esclusivamente vittime dei comunisti, vale a dire le vittime di un conflitto tra comunismo e anticomunismo, tra fascismo e antifascismo. Le vicende travagliate dei territori al confine orientale d’Italia appartengono interamente alla lunga storia dei nazionalismi europei, di Stati che si pensavano come nazionali ma lo erano solo in parte; e da tempo gli studiosi hanno tematizzato l’esodo non come una vicenda di storia locale, bensì come uno dei processi più caratteristici e devastanti della contemporaneità nell’area centroeuropea. La grande ondata di trasferimenti forzati di popolazioni interessò nei due dopoguerra buona parte dell’Europa centro-orientale e balcanica, dallo scambio di popolazione fra la Grecia e la Turchia nel 1923 all’espulsione dei tedeschi dai territori al di là della linea di confine dell’Oder-Neisse nel 1945.

Il ricordo di quelle vicende non ha perciò a che fare solo con la memoria ma anche con il discorso ufficiale sulla nazione, perché la causa delle tragedie di quelle terre sta proprio nelle idee di nazione coltivate da nazionalismi etnici aggressivi. E quella vicenda pone interrogativi (sul rapporto da instaurare in territori plurali tra cittadinanza e appartenenza nazionale e culturale; sulla forza integratrice delle nostre istituzioni statali e politiche, ecc.) che riguardano ancora oggi tutti gli italiani e sono oggi attuali anche per i nostri partner europei. Anche le istituzioni, e non soltanto l’appartenenza culturale, la lingua, gli usi e i costumi radicati nella lunghissima storia culturale del nostro paese, possono produrre identità collettiva nella forma di comune cittadinanza. Ma, come sappiamo, nell’idea di nazione degli italiani è debole proprio questa comprensione.

Ma c’è dell’altro. Quelle vicende rimandano anche alla guerra fredda contro il totalitarismo, alla sua legittimità, alla sua necessità; alle battaglie combattute dalle democrazie con i metodi della dissuasione nucleare, dell’esclusione dei partiti comunisti dal potere, della contrapposizione intellettuale e al significato della liberazione del 1989. E chi è stato comunista in Italia ha il dovere di porre a confronto i propri ricordi con quelli di chi ha conosciuto e combattuto il totalitarismo dell’Est, e per questo oggi è interessato al formarsi di una società fatta di persone capaci di riapprendere la libertà e con essa la responsabilità. Uno scrittore ungherese, Peter Nadas, in un articolo pubblicato nel 1999, ha scritto: «La verità è che non volete conoscere queste esperienze: non volete conoscerci, non volete vederci! La verità è che gli Stati liberali hanno dimenticato il prezzo morale che pagarono per ottenere la coesistenza pacifica. Non solo erano partiti dall’idea che l’unica strada possibile fosse la distensione, ma in più credevano che quest’ultima rappresentasse anche l’unica soluzione morale. È una convinzione che pesa tuttora sulla vita interna dei paesi dell’Unione europea. Il selvaggio matrimonio con le dittature seminò confusione nel loro senso morale, e semina confusione ancora oggi. Avevano vissuto in concubinato con un sistema la cui realtà non vollero apprendere allora, e non intendono apprendere oggi». «Quasi non si erano accorti – concludeva Nadas -, presi come erano dalla pur legittima paura di una III guerra mondiale, che dietro la cortina di ferro esisteva gente che aveva dovuto far proprie non sono le ragioni della coesistenza, ma anche quel che discendeva da tali ragioni: l’accettazione della necessità fatale della dittatura e del suo permanere». E’ tempo di fare nostre anche queste memorie. Per non rimuovere dalla coscienza i totalitarismi e le colpe, gli errori, i fraintendimenti che ci sono stati. E poi perché non ci sono solo gli orrori, c’è lungo il nostro confine orientale anche una fiorente, secolare civiltà, frutto della pacifica convivenza di popoli, fedi e culture diverse, che la violenza della Storia ha quasi cancellato e divelto e che ora che tutti gli stati che si affacciano sull’Adriatico sono entrati o entreranno a far parte dell’Unione europea superando antichi contrasti e reciproche avversioni, bisogna far ricordare, far conoscere e riproporre nel mutato contesto internazionale.

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Il Piccolo 22 febbraio 2009 – Maran: «All’assemblea è mancato il coraggio»

Il deputato isontino del Pd avrebbe voluto le primarie: «Ha vinto la paura del salto nel buio»

UDINE «Obama ha vinto grazie all’audacia e con l’audacia della speranza ha indotto gli americani a spendersi per il cambiamento. All’assemblea del Pd è mancato invece il coraggio. Ha prevalso la paura del salto nel buio». Alessandro Maran, deputato isontino, capogruppo del Partito democratico nella commissione Esteri, avrebbe voluto le primarie, il cambiamento subito, una leadership non preordinata a tavolino. Non è andata così. Ma adesso, se il Pd vuole davvero riemergere, «servono politiche nuove».
Maran, il Pd esce più forte o più debole dopo la nomina a segretario di Franceschini?
Non cambia nulla. La crisi del partito è il frutto di un cambiamento molte volte promesso e molte volte rinviato e contraddetto. Per affrontare la crisi del Pd non serve un patto tra dirigenti, ma la trasparenza di una battaglia politica tra linee e leadership alternative.
Le primarie?
Sarebbero state un atto di coraggio, un modo per dire ai cittadini: il Pd non appartiene a una oligarchia ma ai cittadini; ci fidiamo della vostro giudizio e vi chiediamo fiducia.
Meno della metà dei delegati attesi in assemblea, un segnale di disaffezione?
Stupisce che in queste condizioni qualcuno abbia pensato che partecipare non servisse granché?
È stata la vittoria della nomenclatura?
È stata la vittoria della paura di un vuoto di direzione e di un confronto politico lacerante. Ma chi vuole governare il processo di cambiamento del Paese avrebbe invece bisogno dell’audacia che ha consentito a Obama di vincere. Per radicare il partito servono identità e politiche nuove.
Paura anche che qualche volto nuovo spazzasse via il vecchio?
Non credo. Il poco tempo avrebbe anzi favorito i soliti noti. Da qui a ottobre, speriamo, potranno emergere linee politiche nuove. Perché è certo: il vecchio gruppo dirigente ha terminato il suo compito.
Ma Franceschini è vecchio o nuovo?
Sarebbe sbagliato collocarlo nel passato. Il punto è mantenere le parole che abbiamo detto in campagna elettorale e batterci perché le riforme si facciano e non per bloccarle.
Ci sono vittoriosi e sconfitti post-assemblea?
No. Spetta a tutto il partito ricostruire un rapporto di fiducia tra classe dirigente ed elettori che sembra sfaldarsi.
Visto dal punto di vista del vostro elettore: dopo Veltroni, il suo vice. Che cosa cambia?
Veltroni ha creduto di compiere un gesto che fosse utile a salvare il Pd. Se avessimo svolto il congresso subito dopo le elezioni, non saremmo arrivati al logoramento del segretario. Il problema oggi come allora non è rompere il partito, il problema è scegliere. Tocca a Franceschini.
La rinuncia alla conta di Bersani?
Sorprende che chi si era candidato a guidare il partito abbia poi evitato di farlo alla prima occasione. A ottobre, credo, ci sarà. E, in ogni caso, più candidati ci saranno, meglio sarà.
Franceschini ha garantito che lavorerà in autonomia. Ce la farà?
È la condizione per avviare un confronto esplicito.
Ha anche detto che il suo sarà un ruolo di servizio. Servizio per perdere europee e amministrative?
Mi auguro che in questi mesi si lavori tutti insieme per evitare una nuova sconfitta elettorale. Del resto, l’argomento di chi non ha voluto le primarie era proprio questo.
Il discorso del nuovo segretario?
Molto netto sulla collocazione internazionale del partito, sulla laicità dello Stato, sulla libertà di scelta.
Non è mancata la solita «filippica» anti – Berlusconi.
Il vero problema è che è mancata un’analisi più profonda della società italiana. Berlusconi non è il pifferaio magico, il manipolatore, non è nemmeno la causa del cambiamento ma, piuttosto, il suo sintomo più vistoso. Il collasso del sistema educativo italiano, la stagnazione degli investimenti, i problemi delle reti infrastrutturali non nascono con Berlusconi ma precedono la sua discesa in campo. Alle volte diamo l’impressione di sapere benissimo come deve essere la società italiana ma di non sapere com’è.
Ottimista?
Mi sono battuto per le primarie, ma adesso si tratta di unire le forze per tornare a parlare al Paese.
Cacciari, Chiamparino, Franceschini. Chi a ottobre?
Sbagliato ripartire dai nomi. Ci siamo sin qui aggrappati attorno a un leader carismatico e ci è andata male. Partiamo piuttosto da un confronto politico trasparente. Da quel confronto emergeranno nuovi gruppi dirigenti, nuove personalità.
Un Obama non si vede però all’orizzonte.
Per molto tempo non lo hanno visto nemmeno gli americani. Sono servite le primarie e un anno di scontro durissimo per farlo conoscere.
Se aspettate troppo, qualcuno entrerà nell’Udc…
Non credo. Il bipolarismo è assestato, non c’è spazio per un centro che possa incidere da solo. A meno che Berlusconi non vada alle Bahamas, il quadro non cambierà.

Marco Ballico

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Messaggero Veneto, 24 maggio 2009 – Maran (Pd): una bocciatura prevedibile, tutela non significa bilinguismo spinto

«Inconcepibile parlare di fascismo, Antonaz sbaglia»

L’intervista

UDINE. «Erano prevedibili le bocciature della Corte Costituzionale su alcune parti della legge sulla lingua friulana». Ne è convinto Alessandro Maran, deputato del Partito democratico. «Le criticità erano emerse già durante il dibattito che aveva preceduto la stesura della legge i questione. Se le riserve espresse, anche all’interno del Centrosinistra, fossero state ascoltate, non ci troveremmo oggi a questo punto». 
In passato, lo stesso Maran non ha lesinato critiche al provvedimento, mettendosi anche nella scomoda posizione di oppositore all’interno del suo partito. E se oggi non dichiara «lo avevo detto» è perché sinceramente convinto «che la tutela è giusta e doverosa. Ma non c’è solo questo modo per attuarla». Perché, di fronte alle polemiche, vale sempre la regola fondamentale: «Rispettare i diritti fondamentali di tutti».E proprio dal rispetto della pluralità delle idee muove il ragionamento di Maran.

La Corte Costituzionale ha, dunque, emesso la sua sentenza.
«In democrazia, le questioni, essendo oggetto di opinione, non hanno una “sola” risposta legittima. Non c’è un “unico” modo di tutelare il friulano e quel che è in discussione oggi non è la sua tutela ma le costrizioni e gli incentivi di una legge, di una specifica disciplina giuridica”. 

Si spieghi.
«Non sarebbe male rammentare che le questioni, proprio perché sono oggetto di opinione, si risolvono per via di consenso e sono soggette all’ordine legale della Repubblica. La Costituzione, infatti, ha anche una funzione di controllo e di contenimento del potere costituito. Il governo democratico è basato sulla regola secondo la quale chi governa deve rendere conto sia ai governati sia alla legge. Vale ancora (a due secoli e mezzo di distanza) l’esclamazione del mugnaio Arnold di Postdam di fronte alle prepotenze del Re di Prussia Federico II: «Ci sarà pure un giudice a Berlino…». Il giudice delle leggi è la Corte costituzionale».

Faccia un esempio.
La Corte è intervenuta sul cosiddetto silenzio-assenso: non è giusto imporre a tutti la volontà di una parte dei cittadini. E’ in palese contrasto con la prima parte della Costituzione.

C’è chi ha detto che Roma capitale, sul friulano, staziona tra il tiepido e l’ostile.
Ma è inconcepibile mettere in discussione l’arbitro. La Costituzione è stata pensata e scritta per porre dei limiti al legislatore, questi limiti devono essere fatti rispettare. E questo, in Italia, è il compito della Corte costituzionale. E a nessuno è consentito reagire con l’aggressione se un arbitro, il giudice, decide in modo contrario ai suoi auspici e ai suoi interessi. Né a Berlusconi, né ad altri.

Richiama la terzietà della Consulta. 
Certamente. Voglio ricordato che la Corte Costituzionale è la stessa che ci ha dato ragione sulle pensioni. Tengo anche a precisare che la Costituzione stabilisce principi che non valgono solo il sabato ma tutta la settimana. Non possiamo accogliere con favore solo le sentenza che ci danno ragione».

Il padre della legge, l’ex assessore regionale alla Cultura, Roberto Antonaz (Rc), oggi consigliere regionale, parla apertamente di neo centralismo con atteggiamenti che ricordano il Ventennio.
«E’ inconcepibile questa affermazione. Così si dà ragione al Presidente Berlusconi quando mette in discussione i giudici».

Cosa si deve fare ora?
Si riparte dalle indicazioni dateci dalla Consulta. Non sarebbe male far tesoro di questa esperienza. La stessa cosa era accaduta in occasione della legge sullo Statuto regionale.

Sonia Sicco

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Il Piccolo, 27 giugno 2009 – Congresso Pd fra Franceschini e Bersani ma la lotta è ancora fra D’Alema e Veltroni

Sarà colpa dei giornali, ma agli occhi degli italiani che ancora guardano al congresso del Pd che si svolgerà ad ottobre, con partecipazione e (perfino) speranza, le candidature in campo sembrano essere un nuovo capitolo della lotta infinita tra D’Alema e Veltroni. I due schieramenti congressuali che si vanno delineando sono trasversali ai due partiti fondatori (e questa, per ora, è l’unica cosa positiva), ma le idee e le strategie a confronto sembrano essere le stesse degli ultimi quindici anni. Ancora una volta, qualunque cosa Franceschini e Bersani possano scrivere nel loro programma, la sfida sembra essere quella tra «continuisti» e «nuovisti». Con D’Alema ancora nei panni del garante della solidità degli apparati di partito e Veltroni che sta dalla parte del «nuovo». Diciamoci, allora, la verità: l’eterno duello fra i due azionisti di riferimento che sembrano ispirare le candidature di Franceschini e Bersani ha ormai stufato. E l’alternativa tra «continuisti» e «nuovisti» è fuorviante. In questo modo il Pd rischia di perpetuare le oscillazioni, le reticenze, gli sbagli che gli hanno fatto perdere il contatto con la gente. Perché sia le vecchie (e inutili) certezze che vengono da un’altra storia (fallita), sia il «nuovo» veltroniano (disastroso alla prova dei fatti) non ci aiutano ad analizzare le ragioni della sconfitta, a tenere i piedi nella realtà e a porci le domande su che cosa deve essere oggi il Pd, su che cosa non ha funzionato e che cosa si deve cambiare. Come si fa a non vedere che sono le tradizioni, le culture politiche, da cui è derivato il Pd che hanno perso da tempo solidità e consistenza e che, ormai svuotate e prive di presa sulla realtà, sono inadeguate ad interpretare le domande del paese? Come si fa a non vedere che è inadeguato un riformismo che non vuole pagare il prezzo delle scelte (chi ricorda la promessa di una «rivoluzione liberale»?) che da tempo invoca? La crisi del partito è anzitutto il frutto di un cambiamento molte volte promesso e molte volte rinviato e contraddetto. Gli errori della gestione Veltroni non sono imputabili solo a manovre correntizie. È mancata una lotta vera, è mancata la passione e il coraggio. Da qui l’opacità del conflitto interno e l’indebolimento del progetto, sempre più simile ad un’imbarcazione priva di rotta, piena di comandanti ciascuno con una sua idea del viaggio. Da qui il disincanto e la confusione delle prospettive. Quel che è in discussione, dunque, è proprio la nostra credibilità nel proporre e perseguire davvero politiche «nuove». E quindi il rapporto di fiducia tra classe dirigente del partito e i suoi elettori. Un rapporto che, dopo l’ultima fallimentare esperienza di governo e col riemergere della questione morale, si sta sfaldando. In discussione, in altre parole, è proprio la «versione dei fatti» fin qui proposta dal gruppo dirigente. Gli esempi potrebbero essere moltissimi. Ma come, la nostra scuola produce ripetutamente pessimi risultati, la spesa per studente è tra le più alte e i risultati medi degli studenti italiani sono tra i più insoddisfacenti dell’area Ocse, e noi facciamo finta di niente? Ce lo deve dire l’Ocse (di nuovo la settimana scorsa) che bisogna puntare su insegnanti «con una buona preparazione e ben motivati»? Che «è preferibile legare gli aumenti di stipendi dei professori a buone prestazioni, piuttosto che aumentare gli stipendi a tutti gli insegnanti incondizionatamente»? Che per migliorare la qualità della scuola bisogna introdurre un sistema nazionale di valutazione esterno? E potrei continuare: la risposta al bisogno di sicurezza dei cittadini continua a privilegiare la quantità sulla qualità.

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Il Riformista, 25 giugno 2009 – L’appello bipartisan dei deputati italiani

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Europa, 30 giugno 2009 – Altro che continuisti e nuovisti, al Pd serve una rivoluzione culturale

Sarà colpa dei giornali, ma le idee e le strategie a confronto sembrano essere le stesse degli ultimi quindici anni. Ancora una volta, la sfida sembra essere quella tra “continuisti” e “nuovisti”, con D’Alema ancora nei panni del garante della solidità degli apparati di partito e Veltroni che sta dalla parte del “nuovo”. Il guaio è che, in questo modo, il Partito democratico rischia di perpetuare le oscillazioni e le reticenze che gli hanno fatto perdere il contatto con la gente. Perché sia le vecchie certezze che vengono da un’altra storia (morta e sepolta con la prima repubblica), sia la retorica del «nuovo» (disastrosa alla prova dei fatti) non ci aiutano ad analizzare le ragioni della sconfitta, a tenere i piedi nella realtà e a porci le domande su che cosa deve essere oggi il Pd, su che cosa non ha funzionato e che cosa si deve cambiare.
All’origine del nostri malanni non ci sono il partito “liquido” o gli apparati (fragilissimi) e neppure, com’è stato detto, lo statuto e le primarie. Sono le tradizioni, le culture politiche, da cui è derivato il Pd che hanno perso da tempo solidità e consistenza e che, ormai svuotate e prive di presa sulla realtà, sono inadeguate a interpretare le domande del paese. Ed è inadeguato un riformismo che non vuole pagare il prezzo delle scelte che da tempo invoca. La crisi del partito è anzitutto il frutto di un cambiamento molte volte promesso e molte volte rinviato e contraddetto.
Quel che oggi è in discussione è proprio la nostra credibilità nel proporre e perseguire davvero politiche «nuove», e quindi il rapporto di fiducia tra classe dirigente del partito e i suoi elettori. Gli esempi potrebbero essere moltissimi: scuola, università, forze dell’ordine, giustizia, producono pessimi risultati nonostante la spesa per abitante sia tra le più alte in Europa. Ma la politica è, appunto, l’arte di risolvere problemi di sostanza. Per questo, stavolta ci dovremmo permettere una discussione che tenga i piedi nella realtà e nei problemi di oggi. Perché ci vogliono teste nuove e non solo facce nuove. In giro c’è troppa gente che sembra illudersi di poter scansare le scelte difficili, e spesso scomode, che comportano necessariamente proprio quei principi che abbiamo (molte volte) affermato, nella convinzione che la crisi economica destabilizzi e rimescoli le alleanze politiche; che la crisi del berlusconismo sia ormai prossima; che basti seppellire la «vocazione maggioritaria » e tornare alle vaste alleanze del tempo che fu. Fingendo di dimenticare– ad esempio, a proposito del risultato (e delle «nuove» alleanze) delle amministrative – che a livello locale, con l’elezione diretta del sindaco, è cambiata la forma di governo. E che l’alleanza di centrosinistra per quanto larga ed eterogenea, è coesa, credibile (e stabile) proprio perché è organizzata attorno alla leadership.
Resta il fatto che se si punta alla «vocazione maggioritaria», se si punta cioè ad ampliare l’area del radicamento, e non solo ad allargare l’alleanza, bisogna mettere in discussione la propria identità. Non c’è verso: per conquistare nuovi elettori, bisogna liberarsi dei vecchi schemi ideologici e guardare la realtà senza pregiudizi. Rimando, tanto per fare un esempio, alle cose dette da Fassino sul Corriere della sera a proposito di immigrazione. In altre parole, bisogna cambiare.
Come dappertutto ha cercato di fare in questi anni (e tornerà a fare dopo la sconfitta) il centrosinistra e la sinistra europea, ridefinendo la propria funzione e i tratti essenziali del proprio programma: il rapporto tra stato e mercato, l’organizzazione dello stato sociale, le relazioni con i sindacati e il rapporto tra politica, singoli cittadini e società civile.
Il punto è proprio questo. Per il Pd è venuto il momento di combattere quella battaglia culturale all’interno del proprio “mondo di riferimento” che il centrosinistra italiano ha molte volte annunciato (tutti ricordiamo la promessa di una «rivoluzione liberale») ma, a differenza di quanto è accaduto (e accadrà di nuovo) negli altri paesi europei, non ha mai saputo, potuto o voluto combattere. Ma si passa da lì: solo in questo modo si può affermare una cultura politica del primato dell’individuo, delle libertà, della cittadinanza, della responsabilità. E cambiare in profondità significa batterci perché le riforme si facciano e non per bloccarle.
Faccio un solo esempio che riguarda la giustizia. Le garanzie di indipendenza della nostra magistratura sono tra le più elevate nell’ambito dei regimi democratici consolidati. Difatti, per trovare una magistratura con prerogative simili bisogna considerare quella iraniana (e ho detto tutto, direbbe Peppino).
«In questo modo però – come osserva uno studioso attento come Carlo Guarnieri – una larga fetta di decisioni di politica criminale è stata sottratta al circuito della responsabilità democratica. In linea di principio, non c’è alcuna necessità che il pubblico ministero sia sottoposto alle direttive dell’esecutivo, anche se questa (va detto) è la tradizione dell’Europa continentale. Visto però il ruolo cruciale che il pubblico ministero svolge nel processo penale, qualche forma di responsabilità deve pur esserci, se non altro per verificare il modo con cui esercita la discrezionalità di cui inevitabilmente dispone». Bisogna allora prendere il toro per le corna perché, in mancanza di soluzioni che permettano di affrontare il nodo della responsabilità, la proposta della Lega (l’elezione popolare dei pubblici ministeri, sul modello del prosecutor di alcuni Stati degli Usa) rischia di farsi strada, com’è capitato col federalismo che gli italiani hanno abbracciato per disperazione, perché non c’era verso di riformare la pubblica amministrazione.
E rischia di farsi strada perché, come sanno tutti i ragazzini che hanno visto l’Uomo Ragno, «da grandi poteri derivano grandi responsabilità ». Non dico che la soluzione giusta sia quella della Lega. Ci possono essere diverse soluzioni, ma è giusta la domanda.
E se non cominciamo a porci le domande giuste, le risposte appropriate faticheranno ad arrivare.
Il punto è sempre lo stesso.
Come ammoniva Popper, dobbiamo di norma aspettarci di avere i leader peggiori e soltanto sperare di avere i migliori. E la domanda che dobbiamo porci anche stavolta è «come possiamo organizzare le istituzioni in modo da impedire che governanti (o magistrati) cattivi o incompetenti facciano troppi danni?». È questa la domanda sottesa alla società aperta e l’unico modo per tornare a parlare al paese è quello di mantenere quella promessa che abbiamo fatto molte volte e molte volte contraddetto. Cominciando con l’appendere, come Lutero, le nostre tesi sul portale della chiesa del castello di Wittenberg.

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Il Piccolo, 14 settembre 2009 – Maran: no a un Grande Centro Sì al rilancio con Franceschini

«Una vittoria di Franceschini confermerebbe l’aspirazione del Pd a guidare il Paese. Con Bersani si tornerebbe a rappresentare le minoranze». Alessandro Maran, deputato Pd, chiarisce subito perché sta dalla parte del segretario in carica. E fa capire che, se Debora Serracchiani diventasse segretario regionale, toccherebbe a lei la candidatura per le regionali del 2013. Quanto all’importanza dell’Udc, il deputato del Pd minimizza: «Quello che conta è far valere le ragioni del cambiamento».
Onorevole Maran, il dibattito verso il congresso del Pd è costruttivo o prevalgono troppi veleni?
Il pericolo è di una partita giocata tutta nella nostra metà campo.
Avrebbe preferito Chiamparino ma ha dovuto optare per Franceschini. Perché?
Da una parte c’è chi pensa che il bipolarismo sia stato una sciagura e ritiene che l’unica strategia per partecipare a un futuro governo sia quella della creazione di un centro indipendente con il quale il Pd possa allearsi. D’Alema non per caso vuole introdurre la legge elettorale alla tedesca, che significa il ritorno al proporzionale e ai governi che si fanno e si disfano in Parlamento. Dall’altra c’è chi ritiene invece che questa eventualità sarebbe una disgrazia: gli elettori non sarebbero più in grado di scegliere e si tornerebbe ai problemi della prima Repubblica. Ho scelto di stare da questa parte.
E’ una competizione tra «vecchio» e «nuovo»?
No, ma quel che manca al centrosinistra italiano è la piena consapevolezza dell’esaurimento di un ciclo storico e del bisogno di cercare strade diverse. In Francia o in Inghilterra nessuno si illude di risollevarsi con le stesse idee e lo stesso personale politico degli ultimi 15 anni.
Che succede nel Pd se vince Franceschini? E se invece vince Bersani?
Nel primo caso uscirebbe confermata l’aspirazione a dotarsi di un progetto autonomo, di un profilo politico e di una leadership buona per rappresentare la maggioranza del popolo. Con Bersani si tornerebbe all’illusione di poter contrastare il centrodestra facendo il mestiere di sempre: rappresentare minoranze.
Crede che Berlusconi possa cadere?
Chi può dirlo? Oggi la sua credibilità è diminuita, un po’ per gli scandali e soprattutto per la distanza tra promesse e realizzazioni. Ma il Pd non riesce ad approfittarne perché sembra più preoccupato di rappresentare minoranze minacciate dagli interventi confusi del governo che di rappresentare la maggioranza degli italiani, almeno potenzialmente interessata a un cambiamento ispirato ai suoi valori. Da qui il confuso discutere di alleanza politiche.
C’è il rischio nel frattempo di perdere pezzi importanti? Rutelli non esclude di allearsi con Casini, se non con Fini..
Il rischio è proporre uno schema in cui al Pd dei Bassolino e dei Loiero si sommano un pezzo di sinistra e l’Udc dei Cuffaro…
Che partita sta giocando Gianfranco Fini?
Ho l’impressione che stia costruendo il profilo di una leadership diversa, pronta per il giorno della successione.
Debora Serracchiani: più brava o più fortunata? Secondo Machiavelli, in politica servono virtù e fortuna.
Nel caso vincesse lei, sarebbe l’automatica candidata alle regionali del 2013?
In buona parte dei Paesi europei si fa così.

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Europa, 15 ottobre 2009 – Lezione tedesca: il vecchio non si può restaurare

L’abbiamo archiviata rapidamente. Ma la batosta della Spd prova ancora una volta quanto sia fiacco e inefficace quel richiamo alle origini perdute propagandato nei congressi di circolo dai presentatori della mozione Bersani.
Per 146 anni, in patria o in esilio, i socialdemocratici tedeschi sono stati il partito del lavoratori e dei sindacati. Ora non è più così. Del resto, proprio Berthold Huber, il capo dei metalmeccanici tedeschi della Ig Metall (2 milioni e 400mila iscritti) aveva annunciato, il 31 luglio scorso in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung, che la sua organizzazione, per la prima volta, non avrebbe dato un’indicazione di voto. «Lo so che i rapporti tra la Spd e il sindacato sono stati storicamente molto forti – aveva detto Huber – ma ora siamo nel ventunesimo secolo. L’era in cui i sindacati possono dire “vota per questa o quella persona” è finita. La gente ha la sua testa. Dice “lasciate che a quello pensiamo noi”. Quindi non ci sono più raccomandazioni e pietre di paragone elettorali. Possiamo essere coinvolti sui temi e lo facciamo».
Ovviamente, la decisione dei metalmeccanici tedeschi di non schierarsi politicamente è anzitutto una presa d’atto. Da tempo, parecchi iscritti alla Ig Metall votano per la Linke, per i Verdi, ma anche per il centrodestra: per la Cdu e la Csu e per i liberali dell’Fdp. Come in Italia. Un sondaggio Ipsos del maggio scorso realizzato per il Sole 24 Ore dava il voto operaio per il 60% a favore del centrodestra. Niente di nuovo, ovviamente, a parte la dimensione. Ma la presa d’atto della differenza tra l’operaio del secolo scorso e quello di oggi che può (e vuole) scegliere finirà per portare lontano, non solo in politica ma anche nelle preferenze in fatto di scuola, pensione, sanità eccetera. Certo che la gente vuole essere protetta dalle peggiori conseguenze della globalizzazione. Ma i cittadini vogliono anche avere la possibilità di raggiungere i propri obiettivi. E abbiamo bisogno di immaginazione per distribuire più potere e controllo ai cittadini sulla sanità, sull’educazione e sui servizi sociali che ricevono.
Non è un caso che l’esito del voto abbia ridimensionato le speranze che in Italia erano state riposte nella Grande coalizione e anche l’infatuazione per il sistema elettorale tedesco. In molti non facevano mistero di ritenere che un governo basato sulle due grandi forze politiche tedesche fosse la strada giusta per realizzare una coraggiosa politica di riforme. E il «governissimo », l’intesa tra i partiti cardine dei due poli, doveva essere la soluzione giusta anche per l’Italia. Ma, come abbiamo visto, non è così scontato che sia una soluzione produttiva e non è scontato che i cittadini la ritengano desiderabile.
I tedeschi come gli italiani non vogliono saperne di tornare alle ambiguità e agli «inciuci». Basterebbe dare un’occhiata sui blog e sui giornali tedeschi agli interventi di quanti, anche tra gli elettori socialdemocratici, hanno salutato il pessimo risultato della Spd come una benedizione del cielo. Non c’è dubbio che dietro i propositi di introdurre la legge elettorale «alla tedesca » si celi il ritorno al proporzionale e ai governi che si fanno e che si disfano nelle aule del parlamento sottraendo ai cittadini il diritto di conoscere e scegliere prima le alleanze. Ma come si fa a pensare di poter ripristinare il vecchio sistema con un semplice intervento di restauro? Quel che è avvenuto in questi anni (a partire dalla dissoluzione del vecchio sistema dei partiti) non è un incidente di percorso. Nel vecchio sistema si esaltavano l’appartenenza e l’identificazione in un partito, si aderiva alla sua ideologia, alla sua utopia, alla sua morale. Ci si faceva cittadini del partito e nel partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso l’identificazione e l’appartenenza non ci sono più. Come si risponde allora a tutto ciò se non esaltando in modo compiuto la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello stato? Non è per questo che abbiamo scelto le primarie? Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile? Forse dovremmo guardare di più alle tendenze di fondo della società, comuni a tutti i paesi avanzati: dalla struttura economica all’eguaglianza di genere, dalla natura della famiglia all’individualizzazione dei valori. La comprensione dei cambiamenti strutturali e nei valori è infatti la condizione per presentare un progetto di governo riformista per cambiare l’Italia, cosa di cui il nostro paese ha bisogno. Keynes una volta osservò sarcasticamente: «When fatcs change, I change my mind: What do you do, sir?».
Un esempio: la politica presidenziale è diventata, ormai parte integrante della nostra scena nazionale. E Berlusconi, manco a dirlo, ne approfitta per governare per decreto come la maggior parte dei presidenti sudamericani. Ma, allora, perché non è il centrosinistra ad avanzare e precisare il tema del presidenzialismo (visto che bisogna ricostruire il sistema dei checks and balances tra poteri e istituzioni dello stato) come complemento necessario dell’Italia federale? Non è una questione tecnico-istituzionale. È una questione etico-politica.
Nel nostro paese la limitatissima fiducia nello stato e nelle istituzioni si è ulteriormente ridotta. E la dirompente sfiducia nello stato ne investe ormai ogni livello territoriale e non viene più surrogata dalla fede in un superiore destino europeo. Se il nostro congresso non discute di questo, di una crisi in cui si nasconde davvero il rischio di un impoverimento della democrazia; se non si interroga sul ruolo (diverso dal dirigismo degli anni ’60 e ’70 ma non meno «attivo») che lo stato dovrebbe giocare oggi nel regolare il capitalismo, di che discute?

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Il Piccolo, 26 novembre 2009 – Maran: «Pd unito per l’alternativa»

«La mia elezione? È avvenuta mentre ero in volo al rientro da una missione parlamentare a Belgrado…». Il Pd completa l’ufficio di presidenza alla Camera. E Alessandro Maran diventa, seppur ”in contumacia”, vice di Dario Franceschini. Il deputato goriziano, nel giorno in cui Ettore Rosato viene confermato tesoriere e Debora Serracchiani applaude al peso rafforzato del Pd del Friuli Venezia Giulia, si prepara al nuovo compito avendo ben chiara la priorità assoluta: «Unire le forze e costruire l’alternativa a Silvio Berlusconi per fare le riforme che l’Italia attende da vent’anni».
Il Pd ha eletto tre vicecapigruppo a Montecitorio: uno per mozione. Che significa? Che la ”tregua” regge?
Significa che il Pd, dopo un’estate in cui non si è risparmiato nulla, archivia la discussione, raccoglie le energie e si struttura per costruire l’alternativa: i gruppi parlamentari, in tal senso, sono uno strumento decisivo.
Decisivo per cosa?
Per rendere evidente che c’è un futuro diverso da quello che Berlusconi si limita a promettere. L’Italia ha problemi serissimi – la giustizia, la scuola, le infrastrutture – ma il premier affronta solo i suoi problemi. Alcuni li ha risolti, gli altri scandiscono l’agenda di governo.
Come il processo breve e il nodo della giustizia?
Il processo breve non centra nulla con la giustizia. Centra solo con la vicenda personale di un premier ossessionato dai suoi processi.
In queste condizioni quali sono gli spazi per il dialogo?
Il Pd, non da oggi, avanza proposte che si propongono di modernizzare il Paese e rendere più efficiente il sistema. E il Pd, non da oggi, è disponibile al confronto: un’intesa è necessaria, dobbiamo smetterla di litigare sempre, ma finché Berlusconi antepone i suoi problemi al resto, è difficilissimo uscirne.
La ”bozza Violante” può aiutare?
Evidenzio che si parla, non a caso, di una ”bozza Violante” a dimostrazione che il Pd ha un’iniziativa incalzante e coerente sulle riforme.
Ma l’intesa è possibile? Il Pd è pronto a fare la sua parte?
Trovo curioso che si chieda sempre all’opposizione di fare qualcosa. Certo, il Pd è pronto a concorrere. Ma Berlusconi, intanto, che fa? Perché non propone riforme vere, avendo una maggioranza numericamente fortissima, anziché tentare di scassare il sistema per mettersi al riparo dai suoi guai?
Governo e maggioranza sono sempre più litigiosi. Quanto dureranno?
Continueranno all’infinito… È un film già visto nella legislatura del 2001: la maggioranza apparentemente solidissima è bloccata dalle vicende del capo, è incapace di proporre alcunché, ma va avanti.
Gianfranco Fini, però, si smarca sempre più spesso. È di queste ore lo stop alla fiducia sulla Finanziaria…
Fini gioca a smarcarsi. Ma fa parte di questa maggioranza e infatti, grazie al ruolo ricoperto alla Camera, sinora ha consentito il ricorso alla fiducia.
Qual è il banco di prova del Pd a guida Pierluigi Bersani? Le regionali?
Le regionali sono un appuntamento importante. Ma la scommessa di Bersani e di tutto il Pd sono le politiche del 2013.

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GIORNALI2009

Europa, 11 dicembre 2009 – Cosentino, non era pregiudizio

A carico del deputato Nicola Cosentino si ipotizza il concorso esterno in associazione mafiosa in relazione al sodalizio di tipo camorristico che opera in varie zone dell’entroterra campano, in particolare nella provincia di Caserta, ed è stato chiesto dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli – l’autorizzazione a eseguire la misura cautelare della custodia in carcere. La Giunta per le autorizzazioni aveva risposto “no”. Ieri la camera ha confermato questa risposta col voto contrario del Partito Democratico.
Ricordo quando la tv portò nelle case le immagini di Enzo Tortora, del presentatore con i ferri stretti attorno ai polsi, lo sguardo sbigottito e la barba lunga: l’allora più popolare divo della tv trascinato in catene davanti alle telecamere con l’accusa di essere un corriere della droga al servizio del camorrista Raffaele Cutolo, senza uno straccio di prova, basandosi sulle parole, oggi possiamo dire sulle menzogne, di un manipolo di pentiti, o meglio di camorristi in piena attività di servizio. Ricordo l’appello, il primo allora, lanciato da Enzo Biagi con il grido «E se Tortora fosse innocente?». Ricordo questo pensiero, il pensiero di sua figlia: «Mi ha insegnato – diceva – a essere rigorosa e a non giudicare mai gli altri da quello che si sente dire di loro, a non dare giudizi affrettati, a non lanciarsi contro una persona perché ci può essere epidermicamente antipatica, sostanzialmente a conservare la propria dignità anche se gli altri vorrebbero che tu fossi diverso da quello che sei».
Non ho condiviso le opinioni di chi vede nell’opera della magistratura addirittura l’occasione per riformare dall’alto l’Italia e gli italiani.Nè l’atteggiamento di chi è arrivato a considerare la magistratura come un baluardo indispensabile per difendere le istituzioni democratiche da una destra populista e illiberale.
Noi non abbiamo mai esibito nell’aula di Montecitorio il cappio o le manette.
Nessun pregiudizio, dunque, però ricordo a tutti che con le stesse accuse rivolte al deputato Cosentino un cittadino comune, un italiano qualunque, sarebbe costretto oggi in carcere. Ciascuno di noi deve tenerlo costantemente a mente, per non cadere in una difesa corporativa, insostenibile di fronte all’opinione pubblica.
Inoltre, ciascuno di noi dovrebbe tenere a mente il quadro descritto dall’inchiesta napoletana. L’ordinanza descrive un quadro degradato, dove impera la camorra, descrive interessi, condotte, intrecci politico-malavitosi inaccettabili e indegni di un paese civile, una società che è ormai sequestrata e occupata da organizzazioni criminali. Ovviamente non era nostro compito un’analisi con intenti di condanna o assoluzione; il nostro compito era valutare unicamente se vi fosse fumus persecutionis, se vi fosse parvenza di persecuzione.
Si tratta di un’espressione che indica che le azioni compiute dal giudice non sembrano dettate da applicazione della legge e ricerca della verità, ma dall’intenzione di nuocere ad una persona precisa, cioè al deputato Cosentino. Insomma, dovevamo verificare se la magistratura fosse intenzionata ad abusare delle proprie prerogative. Non è così: la Giunta per le autorizzazioni ha potuto constatare come gli indizi di colpevolezza a carico di Nicola Cosentino siano gravissimi, le dichiarazioni attendibili, riscontrate da elementi esterni, in relazione alle modalità dei fatti denunciati, con strumenti che sono idonei a collegare i fatti all’indagato. E la stasi istruttoria di cui si alimenta la difesa di Cosentino è piuttosto indice della cautela e della ricerca da parte della procura, una volta tanto, di riscontri probanti per rafforzare la tesi accusatoria.
È nostra convinzione, e non da oggi, che sia venuto il momento per uno sforzo grande di riforma dello stato: questo è il compito nazionale della fase storica in cui stiamo vivendo. Per questo compito il nostro partito mette a disposizione tutte le sue risorse, così come i grandi partiti di massa le misero a disposizione per il compito di ricostruzione democratica del paese durante la guerra e il dopoguerra.
È nostra convinzione che sia possibile costruire una democrazia capace di decidere, onesta, in grado di gestire servizi pubblici efficienti, provvedere ad un sistema giudiziario ben funzionante; ma la prima battaglia è quella della legalità, per riconquistare il territorio occupato dalle mafie, per sottrarre i nostri concittadini, tanti cittadini onesti, giovani, donne, a un destino di oppressione, per restituire loro libertà e dignità. Per questo abbiamo votato “no” alla richiesta della Giunta che negava l’arresto di Cosentino.
Per questo avremmo voluto che il deputatosottosegretario fosse stato, di fronte alla legge, un cittadino comune, un italiano qualunque.

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