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Europa, 26 gennaio 2012 – Le sinistre con le forbici

Il capitalismo, si sa, è in crisi. Eppure nessuna nuova teoria, nessuna visione economica alternativa ha ancora modificato il suo attuale disegno neoliberale e la narrazione del centrodestra tiene banco dappertutto. Al punto che il governo spagnolo ha annunciato che tra i meccanismi che introdurrà per garantire il controllo del deficit pubblico ci sarà anche una riforma della Ley de Trasparencia del Gobierno.
La proposta avanzata dall’esecutivo di Mariano Rajoy è che i governanti spendaccioni debbano affrontare «responsabilità penali». Insomma, per la prima volta negli ultimi cent’anni, il centrosinistra è all’opposizione in tutti i principali paesi europei: Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Svezia.
Secondo il pensatoio britannico Policy Network, parte del problema sta proprio nel fatto che i partiti del centrosinistra sono impantanati dovunque sulla questione del debito e del deficit. Ma oggi affrontare gli inevitabili vincoli fiscali – come sottolinea il think-tank laburista in un recente pamphlet, intitolato In the Black Labour. Perché conservatorismo fiscale e giustizia sociale vanno a braccetto – è una precondizione necessaria proprio per contribuire a plasmare il prossimo stadio del capitalismo. Non a caso il leader del Labour Party, Ed Miliband, con un repentino cambio di strategia (che immancabilmente ha fatto infuriare il sindacato), ha collocato il suo progetto (per un paese più giusto e un capitalismo più responsabile) in un contesto in cui c’è meno denaro da spendere, sostenendo che «è responsabilità del Labour trovare un nuovo approccio per i momenti difficili».
Sono inglesi, si dirà. Noi confidiamo nel successo dei socialisti francesi e, più ancora, dei socialdemocratici tedeschi. Se dovessero vincere – sostengono in molti nel Pd – le cose si aggiusteranno. Incrociamo (ovviamente) le dita, ma le cose stanno davvero così? Secondo una recente indagine, la principale preoccupazione dei tedeschi è proprio il debito pubblico: il 63 per cento degli intervistati si dice preoccupato del livello di indebitamento. Poi viene il timore circa il destino delle future pensioni e (fatalmente, anche in Germania) la preoccupazione per i politici inetti.
In sintonia con la pubblica opinione, negli ultimi anni la Spd tedesca ha preso una posizione molto ferma sulla politica fiscale.
In termini generali, la linea del partito coincide con la filosofia delineata da Policy Network. I socialdemocratici tedeschi hanno, infatti, definito obiettivi precisi per la riduzione del deficit e stabilito chiare priorità di spesa. Può sembrare inconsueto che sia un partito di opposizione (di sinistra) a invocare una dura disciplina di bilancio, ma ciò deve essere visto alla luce dei livelli storici d’indebitamento della Germania fin dagli anni ’70.
Alla fine del 2010, il debito ha superato la barriera dei due trilioni di euro. Il che significa che ogni nuovo nato (anche lì) è in debito di 25mila euro. Senza contare che la pressione sui bilanci è destinata ad aumentare considerevolmente nei prossimi anni per effetto dell’andamento demografico: un “debito implicito”, come lo chiamano gli esperti, che eccede di gran lunga il “debito esplicito”. Non è stato sempre così. Nel 1970 il debito nazionale ammontava al 18 per cento del pil.Da allora, il debito è cresciuto al 40 per cento nel 1989, l’anno precedente l’unificazione. Nel periodo che precede la crisi finanziaria del 2008, era del 64 per cento. Oggi il debito ammonta all’82 per cento del prodotto nazionale, vale a dire 22 punti percentuali sopra il limite di Maastricht.
Secondo Michael Miebach, senior editor del Berliner Republik, l’espansione del debito ha a che fare in primo luogo con «i segni lasciati dall’unificazione tedesca (che si stima sia costata finora circa 1,5 trilioni di euro) e dalla crisi economica successiva al 2008, che ha condotto a misure di stabilizzazione del sistema bancario e dell’economia.
La seconda ragione è il modello di spesa pubblica degli ultimi quarant’anni. Spesso i governi tedeschi hanno aumentato la spesa allo scopo di stimolare l’economia, ma poi non hanno ridotto il deficit neppure nei periodi di boom. Anzi, hanno aumentato ulteriormente le spese, qualche volta assieme al taglio delle tasse».
In questo contesto, la Spd ha acconsentito a rendere operante un argine costituzionale al debito durante la grande coalizione nel 2009, nonostante la forte opposizione, nel partito, dei sostenitori di una politica di maggior «respiro» del bilancio. L’approvazione del vincolo all’indebitamento è stata una decisione storica che influenzerà la politica fiscale dell’Spd per il futuro prevedibile. Coerentemente, infatti, il piano finanziario che il partito ha adottato nella sua Conferenza nazionale del dicembre scorso si conforma completamente con gli obiettivi prestabiliti dal limite all’indebitamento. Il «Patto per l’educazione e la riduzione del debito» dei socialdemocratici comprende un piano dettagliato (che ha suscitato reazioni positive nei media) per eliminare il deficit federale entro il 2016 attraverso tagli di spesa e una crescita moderata delle tasse per i più ricchi.
Il Patto designa, inoltre, chiare priorità di spesa (soprattutto investimenti nella formazione e più soldi alle città cronicamente sotto finanziate) e stabilisce una cornice politica che avrà conseguenze restrittive per tutti gli altri campi nei quali i socialdemocratici potrebbero farsi venire in mente nuove idee, potenzialmente costose. Insomma, anche per la Spd, il «conservatorismo fiscale» è oggi un presupposto indispensabile per la politica socialdemocratica.

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 47 del 7 febbraio 2012 – Fermiamo Assad

Finitelo“. Così il magazine americano Foreign Policy ha intitolato il pezzo con il quale Daniel Byman ha cercato di spiegare perché il mondo ha bisogno di togliersi dai piedi il dittatore siriano Bashar al-Assad e perché senza l’intervento internazionale c’è il rischio che Assad continui invece a governare ancora per anni.

La guerra civile è cominciata da tempo, la crisi si è internazionalizzata (la Turchia è da tempo impegnata a ricevere profughi siriani e a ospitare le forze armate libere della Siria) e sono in molti a pensare che il presidente siriano abbia i giorni contati, eppure Assad potrebbe rimanere in sella ancora per un pezzo. Specie se non è pressato da attori esterni. Certo, nonostante la morte di 5000 dimostranti e l’arresto di altre migliaia, i siriani hanno coraggiosamente sfidato il regime che sembra incapace di domarli. E senza dubbio il sostegno internazionale ad Assad si è indebolito.

In agosto il presidente Obama ha dichiarato «E’ venuto il momento per il presidente Assad di fare un passo indietro»; l’Unione europea si è associata agli Stati Uniti e ha imposto sanzioni contro il regime siriano, anche sulle forniture di petrolio. Nel frattempo, la Lega Araba ha ripetutamente chiesto il cessate il fuoco e ha cercato di raggiungere un’intesa per il passaggio dei poteri. Il presidente siriano ha respinto gli appelli per un regime change, ma il collasso dei commerci e degli investimenti e la massiccia fuga di capitali gli stanno alienando le simpatie di molti siriani, senza contare che il regime tra non molto faticherà a pagare i suoi servizi di sicurezza. Piuttosto che uccidere i propri connazionali, migliaia di soldati hanno abbandonato l’esercito siriano. Le diserzioni stanno aumentando e molti militari sono consegnati nelle loro caserme perché il regime non si fida di loro.

L’Esercito Siriano Libero, composto (apparentemente) in larga parte da disertori, sta diventando più forte e sta operando liberamente nella maggior parte del paese. Insomma, il regime è stato colpito duramente. Eppure Assad non è finito e può giocare ancora parecchie carte. Secondo Byman, può contare ancora sulla lealtà dei militari e dei servizi di sicurezza. Specie degli ufficiali, che per la maggior parte vengono dalla comunità alawita. L’opposizione è dominata dalla maggioranza sunnita (sostenuta da paesi arabi del Golfo) e la minoranza alawita ha ragioni viscerali per resistere al regime change. Non per caso, Assad ha cercato di cooptare altri gruppi minoritari (cristiani, drusi, curdi) che temono che il crollo del regime possa condurre a massacri.

Le sanzioni hanno indebolito la popolarità del regime, ma quando le risorse diventano scarse stare dalla parte di chi comanda diventa più importante ancora: chi ha le armi mangia per primo e l’opposizione mangia per ultima. Tanto per fare un esempio, Saddam ha resistito alle sanzioni per un decennio e per abbatterlo c’è voluta l’invasione. Oltretutto, insiste Byman, Assad non è da solo. L’Iran può garantire al regime sostegno economico e armi a sufficienza. Lo stesso possono fare gli Hezbollah attraverso il Libano. E lo stesso governo iracheno può distogliere lo sguardo mentre i trafficanti trasportano merci e armi in Siria dall’Iraq. Inoltre, c’è la Russia, un fornitore d’armi e (come abbiamo visto) un ostacolo inamovibile alle Nazioni Unite, che può bloccare gli sforzi internazionali per isolare il regime.

C’è inoltre la disorganizzazione dell’opposizione e non c’è un leader carismatico che possa unire l’opposizione che ha forti identità (e divisioni) regionali e locali. Insomma, il dittatore siriano non è abbastanza forte per sottomettere l’opposizione, ma gli oppositori non sono forti abbastanza per cacciarlo. Uno scenario perfetto per una guerra civile permanente.

Per andarsene, Assad ha bisogno di una spinta della comunità internazionale. In Libia, uno dei passi più importanti intrapresi dagli occidentali è stato proprio quello di mettere in piedi l’opposizione libica in modo da farne una istituzione più rappresentativa e più efficace. Ma l’Occidente (che ha una posizione molto defilata) non deve escludere l’intervento e, anzi, l’opzione deve rimanere sul tavolo per segnalare che l’opposizione al regime non può essere spazzata via con la forza e che l’intervento (che verosimilmente potrebbe essere turco o arabo) sarà tanto più probabile quanto più Assad si rifiuterà di uscire di scena. Il che potrebbe convincere molti lealisti che è tempo di abbandonare la nave prima che affondi e prima che nell’opposizione cresca la voglia di vendetta e diventi perciò meno disposta a trattare.

In caso contrario, lo spargimento di sangue continuerà per un pezzo, con il rischio di inghiottire altri paesi vicini come la Turchia e Israele; con il rischio distruggere gli sforzi dell’Iraq di ricostruzione dell’assetto statale, di accrescere le tensioni tra l’Iran e l’Occidente e di restituire credibilità agli autocrati nel mondo arabo, quando affermano che l’alternativa alla tirannia non è la libertà ma il caos. Non è poco.

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Il Piccolo, 16 febbraio 2012 – Maran: «Possiamo cercare l’anti-Tondo anche fuori dal Pd»

Il parlamentare si dice «a disposizione» del partito ma apprezza le possibili candidature di Bolzonello e Honsell

 

 

di Marco Ballico

Si dice «a disposizione» ma non annuncia discese in campo. Alessandro Maran, alla vigilia della convention organizzata dall’associazione Luoghi Comuni, domani al Savoia Excelsior di Trieste, pensa alla «visione d’insieme». Quella che deve elaborare il Pd prima di individuare l’anti-Tondo. Le mille anime del partito? Il deputato isontino non si preoccupa e, come Debora Serracchiani che invita a pensare al programma prima che alle caselle, afferma: «L’importante è che si discuta di cose». Qual è il significato dell’incontro di domani? Continuo a pensare che possiamo vincere le prossime elezioni. Ma, nel decennio più traumatico per l’Occidente dagli anni ’30, il Pd deve dimostrare di comprendere il momento. Lo scopo di una politica di centrosinistra è di mettere le persone in condizione di avere più controllo sulle loro vite, proteggerle dai rischi e aiutarle a migliorare le comunità in cui vivono. Le domande non riguardano quello che vorremmo ottenere, ma come fare per raggiungerlo. Domande che vanno al cuore della nostra credibilità e affidabilità. Discuteremo di questo. E’ un Pd regionale diviso, lo ammette? Trovo normale che si discuta e ci siano posizioni diverse. Purché ovviamente si discuta di cose. Succede in tutti i grandi partiti occidentali. I democratici si sono stretti attorno a Obama dopo un anno di scontri appassionati. Il libero e creativo scontro di idee e ricette serve a far emergere una piattaforma e una figura in grado di ripartire e di giocarsi una nuova partita. Che responsabilità hanno il segretario e il gruppo di queste spaccature? All’origine di molte delle difficoltà c’è la sconfitta del 2008. Ma dobbiamo smetterla di essere dispiaciuti per noi stessi e ritrovare la fiducia per dimostrare daccapo che le tesi giuste sono le nostre. Che ne pensa dell’intenzione del segretario di non candidarsi? Bisogna rispettare le scelte di ciascuno. Anche perché Serracchiani non scappa in Messico e continua a battersi con tutti noi per cambiare le cose. Se non Serracchiani, chi? Il punto di partenza è discutere della nostra visione del futuro e di come metterla in pratica. Viviamo una fase storica di drammatiche sfide esterne e la nostra ossessione deve essere come far crescere economia e standard di vita. E dobbiamo dimostrare che siamo pronti a sfidare lo status quo e non solo a difenderlo. Se non lo fa il Pd non lo fa nessuno? La destra ha badato solo a rassicurare gli ancoraggi sociali e culturali di un tempo. Non ha neppure provato a cambiare la regione. Ma i tempi chiedono una nuova fase. Lei è a disposizione? Per quel che può servire. L’anti-Tondo può essere pescato fuori dalla politica? Con la nascita del Pd, volevamo costruire un grande partito riformista, il naturale perno della alternativa al centrodestra. Un partito con un consenso elettorale largamente maggioritario nel suo campo; con un programma fondamentale che è la base naturale del programma di governo della coalizione; con una leadership individuale e collettiva che è naturalmente la leadership della coalizione. Non ho cambiato idea. Bolzonello e Honsell sono candidati che la convincono? Di prim’ordine. Ma, se vogliamo contare su una piattaforma di cambiamento, dobbiamo impostare una competizione di idee e di visione per la guida della Regione. E il Pd deve riscoprire la passione politica e un modo efficace di trasmettere all’opinione pubblica la sua visione del paese. Poi verranno le alleanze. Quanto alto é il rischio Genova anche in Fvg? Sono certo che impareremo dagli errori. Quali tappe e tempi per candidato, coalizione e programma? Saranno stretti, presumo. Si vota l’anno prossimo. Immagina un confronto bipolare o nuove alleanze? Il bipolarismo è entrato nella cultura politica degli italiani e, anche nella nostra regione, ogni forza politica è ormai legittimata a governare. Oltretutto c’è l’elezione diretta. In altre parole, l’alleanza può essere ampia, coesa e credibile proprio perché è organizzata attorno alla leadership.

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 52 del 13 marzo 2012 – Kohl, ovvero Mr Europa

Il cancelliere Helmut Kohl, uno degli architetti della moneta unica europea, è entrato a gamba tesa nel dibattito tedesco sull’opportunità di fornire alla Grecia un nuovo aiuto. Qualche giorno fa ha sollecitato la Germania a rimanere impegnata nei confronti dell’unità europea che, ha detto, resta una questione di guerra e pace, perfino sessantasette anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. «L’attuale discussione in Europa e la crisi in Grecia non devono portarci a fare dei passi indietro, a perdere di vista o addirittura a rimettere in discussione l’obiettivo di un’Europa unita» ha scritto Kohl in un articolo ospitato dal Bild, il quotidiano tedesco più venduto.

Nel tentativo di preservare la sua eredità, l’ex cancelliere che ha oggi ottantuno anni, ha rivolto diversi appelli al governo tedesco affinché mostri maggiore leadership e più solidarietà verso gli Stati membri dell’eurozona in difficoltà nel corso della crisi. Il suo intervento più recente coincide con una frattura nella coalizione di centro-destra della sua ex protetta, la cancelliera Angela Merkel, che si è prodotta proprio in relazione al problema se la Grecia debba restare o meno nell’eurozona. La Merkel è stata costretta a rimproverare il suo Ministro dell’Interno Hans – Peter Friedrich per aver detto allo Spiegelche la Grecia dovrebbe essere incoraggiata a lasciare la moneta unica; e ha dovuto fronteggiare la rivolta di un gruppo di parlamentari nel corso del voto sul secondo pacchetto di misure per la Grecia. L’ampio margine (496 – 90, con cinque astensioni) è stato assicurato dall’appoggio dell’opposizione di centro-sinistra, ma solo 304 dei 330 parlamentari della maggioranza hanno sostenuto la mozione. Questa volta sono 17 i ribelli che hanno votato «no», rispetto ai 13 che hanno disobbedito alla Merkel lo scorso settembre in un voto per garantire il fondo di salvataggio dell’eurozona.

Il risultato, come sottolineano gli analisti, potrebbe indebolirla politicamente. Gero Neugebauer (che insegna alla Freie Universität Berlin) ha detto alla Reuters che «Merkel sta perdendo la sua capacità di convincere e i membri del Bundestag stanno perdendo la loro fiducia che le cose andranno secondo il piano stabilito». I leader dell’opposizione si sono spinti più in là, sostenendo che la ribellione ha segnalato l’inizio della fine del Governo. Più cauto Giovanni Boggero che su Aspenia scrive:«Se per la signora Merkel quello del 27 febbraio sia stato un incidente di percorso o il lento inizio della capitolazione del suo Governo, nato nel 2009 già molto debole, lo svelerà l’esito delle deliberazioni in programma questa primavera. Ad oggi, benché indebolita, la Cancelliera può comunque contare su alti tassi di consenso nell’elettorato, oltre a poter fare affidamento sulla consapevolezza comune che nessuno nella democrazia cristiana tedesca è ad oggi in grado di sostituirla».

Intanto, Helmut Kohl non molla e continua a ripetere che l’euro ha a che fare nientedimeno che con la possibilità di impedire la guerra. «Gli spiriti malvagi del passato non sono stati messi al bando una volta per tutte, possono sempre tornare – ha scritto Kohl. Il che significa: l’Europa resta una questione di guerra e pace e l’aspirazione alla pace rimane la forza motrice dell’integrazione europea». Kohl ha attaccato inoltre la nuova generazione di leader europei che sono nati dopo la seconda guerra mondiale. «Per quelli che non ci sono passati e che, specialmente ora con la crisi, si chiedono quali benefici porta l’unità dell’Europa, la risposta, nonostante il periodo di pace senza precedenti che dura da sessantacinque anni e nonostante i problemi e le difficoltà che dobbiamo ancora superare, è: la pace». «L’Europa è il nostro futuro», ha insiste Kohl. «Non c’è alternativa all’Europa. E abbiamo tutte le ragioni per essere fiduciosi che la nostra Europa uscirà rafforzata dalla crisi attuale – se lo vogliamo. Non facciamoci fuorviare».

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Il Gazzettino, 31 marzo 2012 – «Speciali, ma dimostriamolo»

Alessandro Maran (Pd): non siamo impauriti, ecco come reagire e costruire

 

«Impiccateli, impiccateli tutti e il pane uscirà fuori da tutte le parti», gridava il popolo manzoniano infuriato dalla fame al Forno delle Grucce. «I costi naturalmente sono importanti, ma l’indignazione dell’opinione pubblica per quest’aspetto è in verità la spia di un problema più ampio. Il sentimento prevalente è che i politici sono inutili, non fanno il loro mestiere e pensano solo ad arricchirsi». Insomma: «All’origine c’è la reale perdita di ruolo della politica nazionale nelle condizioni della globalizzazione e c’è la ricerca di un capro espiatorio». Precisamente da qui occorre cominciare. A passo di carica per il bene comune dei cittadini prima che dei politici e dei politikanter.
Alessandro Maran, goriziano doc, vicecapogruppo del Pd alla Camera, 52 anni all’anagrafe e una faccia da ragazzino, adotta per solito il metodo scientifico dell’osservazione prima dell’azione. E poi percorre tentativi di confutazioni successive, per affermare una verità accettabile dalla quale sia utile partire. Declina un volontario basso profilo mediatico con altitudini di pensiero che gli avversari, per primi, gli riconoscono ammirati. Alcuni lo vorrebbero presidente della Regione nel 2013, altri invece lo osteggiano e temono, consapevoli che soltanto quando il sole è basso – come scrisse Karl Kraus – i nani possono gettare ombre lunghe.
Il respiro.  Oggi tutto cambia. E cambia nel mare della crisi che inghiotte esistenze e speranza anche in Friuli Venezia Giulia. «Manca un respiro progettuale – ripete Maran – e nel momento in cui il Friuli Venezia Giulia si scopre percorso dal cambiamento, da più velocità, da differenze, la politica degli incentivi indifferenziati non può più essere la chiave di volta di una strategia regionale di composizione di tutti gli interessi organizzati». Allora, mentre la specialità regionale è nel periscopio di troppi sommergibili ormai in emersione, «si ripropone il legame fra integrazione interna e proiezione efficace verso l’esterno: la prima condizione della seconda».
Progettare il futuro. Maran condivide l’opinione diffusa dale parole: «La speciale autonomia può e deve essere vista oggi più che mai come un’opportunità, uno spazio di libertà che è consegnato alle istituzioni e alle loro capacità d’iniziativa, di progettare il futuro». Come nell’amore, tuttavia, le parole non bastano. Anzi talvolta le prove stancano la verità. «C’è un solo modo per conservare l’autonomia: esercitarla. Esercitare l’autonomia di una Regione, la cui “specialità” si è fin dall’inizio giustificata in funzione del perseguimento dell’obiettivo di legare e fondere – rafforzando la loro comune presenza nell’unità repubblicana – aree a vocazione diversa ma accomunabili in una stessa prospettiva di sviluppo».
Diversi dal Paese. Parole difficili e insieme palmari. Questa è la dialettica domestica di Maran, che impegna l’interlocuzione oltre la linea della contingenza. Resta il fatto che «il Friuli Venezia Giulia è pieno di persone di talento capaci di competere con chiunque nel mondo. C’è l’inventiva e la capacità di adattamento della microimpresa. C’è il saper fare di tanti lavoratori che mantengono su livelli medio-alti la produttività del lavoro, la vivacità di quella parte del mondo della ricerca e dell’Università che chiede di premiare il merito e i risultati».
La regola d’oro. Già, qui ancora si crede nel merito, probabilmente per quello storico e irrinunciato retaggio asburgico che sta nelle coscienze. «Voglio dire che noi siamo assai diversi da quel Paese impaurito descritto dalla destra. Possiamo farcela – insiste Maran – ma dobbiamo unire le forze a scala regionale per mettere a frutto il bisogno di organizzazione e cooperazione in tutta una serie di campi». Dalla ragion pura alla ragion pratica: come fare? «I nostri criteri per le scelte di spesa dovranno essere basati su una semplice domanda: questa scelta di spesa alimenterà direttamente la crescita? Questa scelta di spesa alimenterà la creazione di posti di lavoro? Sì o no? A decidere siano queste risposte».
Niente Province.  In ogni caso «via le Province, subito. Ripensiamo ex novo l’articolazione del governo locale». Del resto «non si capisce perché l’Italia debba avere quattro livelli territoriali costituzionalmente garantiti: lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni». E anche se con lui non sempre ha regnato l’intesa perfetta, sul fronte sociale «Riccardo Illy aveva visto giusto, ora si tratta di recuperare quella filosofia d’intervento adeguando gli interventi della Regione in favore dell’occupabilità ai principi di politica attiva del lavoro già riconosciuti in sede europea. Ma è necessario accompagnare l’attivazione del reddito minimo d’inserimento a un profondo e coraggioso processo di riforma degli assetti istituzionali».
Don Milani. Una volta il peraltro vituperato Jean-Paul Sartre constatò che «occorre riaccendere le stelle consigliere», curiosamente negli anni medesimi in cui, alla Sorbona di Parigi, gli studenti istoriavano i muri di cinta con la “stella danzante” dello Zarathustra di Nietzsche. Tali antipodi delle idee sembrano intonare il “la” per far dire a Maran che la questione capitale di ciascuno è «riaccendere la speranza». Quanto al Pd, che «a volte sbaglia ma sa emendarsi», un candidato occorre pur darselo per sfidare Renzo Tondo. E allora Sandro Maran ricorda don Milani: «Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia».
Chi ha orecchi da intendere intenda, come non dissero né Sartre né Nietzsche.

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 56 del 10 aprile 2012 – Passaggio in India

Ha ragione Mario Monti: «consideriamo i cinesi dei pubblici disturbatori di un mondo del passato che crediamo esista ancora e del quale siamo convinti di fare tuttora parte» ( La Stampa, 4 aprile 2012). Eppure, la stessa vicenda dei nostri due fucilieri di Marina, catturati e detenuti dalle autorità indiane del Kerala, in India, dovrebbe aprirci gli occhi: il semplice (e a suo modo confortante) mondo della Guerra Fredda è svanito.

Proprio la settimana scorsa si è svolto il quarto summit dei BRICS a New Delhi e non sarebbe male se il nostro Paese buttasse l’occhio alla regione dell’Oceano Indiano. Un’area cruciale, dove, secondo Robert Kaplan (il suo libro «Monsoon Asia», offre un’interessante panoramica della regione), la battaglia per la democrazia, l’indipendenza energetica e la libertà di religione sarà vinta o persa. Un’area del mondo che non ci possiamo più permettere di ignorare, specie se si considera che a New Delhi è in corso uno scontro in cui la posta in gioco è la politica estera indiana. Da una parte ci sono quelli per i quali l’unica cosa che conta è l’attitudine a fare da soli. «L’autonomia strategica è stato il valore più importante e un obiettivo costante della politica internazionale dell’India dall’avvio della Repubblica», ha dichiarato «Nonalignment 2.0», un nuovo rapporto di otto dei maggiori esperti di politica estera del paese. «Nonalignment 1.0» era, ovviamente, ai tempi della Guerra Fredda, la politica indiana volta a mantenere l’ equidistanza tra Mosca e Washington – anche se in pratica propendeva verso l’Unione Sovietica.

Ma sono in molti a sostenere che il non allineamento ha fatto il suo tempo e che aspirano invece a rafforzare legami reciprocamente vantaggiosi con l’Occidente. L’ex consigliere per la sicurezza nazionale Brajesh Mishra ritiene «impossibile» per l’India restare «non allineata» tra gli Usa e la Cina. Secondo K. Shankar Bajpai, un ex ambasciatore indiano negli Usa e in Cina, «resuscitare quel concetto significa respingere indietro la nostra gente a qualcosa che non solo è da tempo sorpassato ma – e questa è la sua eredità pericolosa – che ci ha fatto più male che bene».

Comunque vada il confronto, ci saranno profonde conseguenze per l’India, l’Asia e il mondo intero. Se l’India, come ha osservato Sadanand Dhume (in un articolo su Foreign Policy dal titolo «Failure 2.0»), ritorna a misurare la sua indipendenza dalla prontezza con la quale si oppone a Washington (e da nessuna parte le vecchie abitudini mentali sono più evidenti che nella politica mediorientale dell’India), rischia inevitabilmente di indebolire la tesi «che l’ascesa di una grande e pluralistica democrazia di lingua inglese in Asia è nell’interesse dell’Occidente».  Se l’India comincia invece a concepire la politica estera come la maggior parte degli altri paesi (in termini cioè di interesse nazionale anziché di attaccamento a dottrine astratte) probabilmente «si farà strada la conclusione che Washington è il partner naturale, con il quale l’India condivide non solo legami culturali ma anche la sfiducia circa il rapido riarmo della Cina e la permanente alleanza del Pakistan con il Jihadismo. Questo non vuol dire diventare il cagnolino dell’America, come le elite di New Dehli sembrano costantemente temere, ma riconoscere l’ovvia convergenza di valori ed interessi. L’obiettivo più pressante per l’India, quello cioè di modernizzare la sua promettente ma ancora arretrata economia, è più facile da raggiungere in uno stabile ed aperto ordine internazionale sostenuto dalla potenza americana. E’ nell’interesse dell’India favorire anziché erodere quest’ordine e, al contempo, lavorare per ricavare per sé stessa un ruolo più ampio».

Per ora, tuttavia, il fantasma di Nehru continua a gettare un’ombra sulla politica estera indiana. Nonostante il ruolo di Beijing nel sostenere il programma missilistico e nucleare del Pakistan, le sue continue rivendicazioni sul territorio indiano e l’umiliazione militare dell’India nella breve guerra di montagna del 1962, i sostenitori del«Non Allineamento 2.0» tendono a diffidare degli Usa più che della Cina.  Presagiscono il progressivo declino americano e l’ascesa rapida dell’India ad uno status di grande potenza come un esito inevitabile e deducono che gli Stati Uniti hanno bisogno dell’India più di quanto l’India abbia bisogno degli Stati Uniti.

Ma dall’avvento delle riforme economiche del 1991, l’India è cambiata radicalmente. Oggi è più probabile che i giovani indiani delle città ricordino la visita di George Bush o quella di Obama, che quelle di Arafat o di Fidel Castro. Inoltre, una generazione di smaniosi uomini d’affari sa che l’America assicura l’aperto e stabile ordine mondiale di cui l’India ha bisogno per soddisfare la sua promessa economica; i generali indiani sanno che l’India non può permettersi di guardare con ottimismo alla crescita di un potente stato vicino, guidato da un partito unico, che mantiene rivendicazioni sul suo territorio. E il Giappone, la Corea del Sud e Singapore suscitano ammirazione tra gli indiani come società progredite che hanno migliorato infinitamente la vita dei loro cittadini mantenendo solidi legami con la principale potenza del mondo. Come ha sostenuto C. Raja Mohan, uno dei maggiori studiosi indiani, «mano a mano che cresce, l’India ha il potenziale per diventare un membro guida dell’‘Occidente politico’ e giocare un ruolo centrale nelle grandi battaglie politiche dei prossimi decenni».

Tuttavia, questa trasformazione ha bisogno di stringere i tempi e va incoraggiata. Non per caso, Monti di ritorno dal suo recente viaggio in Asia, ha sottolineato: «Ho fatto questo viaggio perché credo che l’attenzione verso questi Paesi sia nei nostri interessi, sia per abituare gli italiani a considerare questi Paesi cruciali per la crescita economica e a non ragionare più soltanto in ottica di decisioni europee. E’ tempo di cambiare i giudizi che diamo un po’ superficialmente in base ai vecchi tabù».

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 57 del 17 aprile 2012 – (Semi)Presidenzialismo, non solo legge elettorale

La nostra Repubblica è già cambiata, spesso in modo involontario e imprevisto (al punto che Ilvo Diamanti l’ha definita argutamente una «repubblica preterintenzionale») e oggi risulta incompiuta, a metà. Il nodo irrisolto non riguarda tanto la legge elettorale quanto la forma di governo, cioè la qualità della forma di stato. È da un pezzo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta (o come se diretta) il perno attorno al quale ruota il sistema, senza, peraltro, introdurre alcun serio contrappeso. Sono passati diciannove anni da quando i cittadini hanno risposto inequivocabilmente alla domanda alla base del referendum del ’93: sono i partiti o i cittadini a scegliere il governo, e questo risponde ai partiti o ai cittadini? È dal ’93 che ci siamo abituati ad eleggere direttamente sindaci, presidenti di provincia e (poi) di regione.

Nel frattempo, nella considerazione degli italiani, i partiti e il Parlamento hanno toccato il punto più basso. E potrei continuare: nel 2001, i nomi di Rutelli e Berlusconi erano indicati sulla scheda elettorale; con le primarie scegliamo ormai d’abitudine i candidati per le cariche monocratiche e con le primarie abbiamo scelto il segretario nazionale e i segretari regionali del Pd, facendo volare le decisioni individuali di moltissimi cittadini là dove non erano mai arrivate, nella scelta dei massimi dirigenti. Senza contare che il quadro che emerge dalle trasformazioni degli ultimi vent’anni assegna ai vertici dell’esecutivo italiano il predominio e la regia della produzione legislativa, autosufficienza ed espansione organizzativa e il crocevia dei rapporti con gli enti locali e la comunità internazionale.

Insomma, la politica presidenziale è diventata, ormai parte integrante della nostra scena nazionale. Anche se ancora non si è trasformata in un nuovo equilibrio istituzionale. Sbaglierò, ma non credo che il parlamentarismo limitato, il sistema tedesco (magari «alle vongole») o la riduzione dei parlamentari possano bastare: too late, too little, direbbero gli americani. Anche perché, come ha spiegato Giovanni Sartori, «la costruzione di un sistema di premiership sfugge largamente alla presa dell’ingegneria costituzionale. Le varianti britannica o tedesca di parlamentarismo limitato (di semi-parlamentarismo) funzionano come funzionano soltanto per la presenza di condizioni favorevoli». E come abbiamo visto «un passaggio “incrementale”, a piccoli passi, dal parlamentarismo puro al parlamentarismo con premiership rischia di inciampare ad ogni passo». Non per caso, Sartori ritiene che «in questi casi la strategia preferibile non è quella del gradualismo, ma piuttosto una terapia d’urto. Insomma, le probabilità di riuscita sono minori nella direzione del semi-parlamentarismo, e maggiori se si salta al semi-presidenzialismo».

Il guaio è che oggi in molti prendono atto che non è possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma continuano a ritenere che quella forma della partecipazione alla politica e quel sistema politico siano i migliori. E dunque cercano di avvicinarsi a quel modello e di salvare più elementi possibile di quella esperienza. Ma questo atteggiamento nasce da una visione statica e conservatrice.

Il vecchio sistema dei partiti non torna più, neppure ripristinando proporzionale e preferenze. La «metamorfosi» è già avvenuta. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello stato. Non si tratta di una questione tecnico-istituzionale, ma di una questione etico-politica. Caduti gli stimoli del passato, come si riattiva la partecipazione alla politica? Non è per questo che abbiamo scelto le primarie? Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile?

Forse dovremmo guardare di più alle tendenze di fondo della società, comuni a tutti i paesi avanzati: dalla struttura economica all’eguaglianza di genere, dalla natura della famiglia all’individualizzazione dei valori. In tutte le società industriali avanzate, le condizioni di prosperità economica raggiunte hanno modificato i nostri valori. Ora, rispetto alle generazioni del periodo postbellico, l’auto-espressione, la qualità della vita, la scelta individuale sono diventate centrali. E questa nuova visione del mondo si accompagna a una de-enfatizzazione di tutte le forme di autorità. Insomma, invece di essere diretti dalle élite, tutti s’impegnano in attività dirette a sfidare le élite.

C’è chi ritiene (ad esempio, Roberto Gualtieri in un articolo pubblicato da L’Unità lo scorso 4 aprile ) che «se si percorrerà con decisione la strada europea di una democrazia parlamentare centrata su grandi partiti sarà possibile aprire una nuova pagina della vita nazionale» e magari archiviare «per sempre non solo la figura di Silvio Berlusconi ma l’impianto politico-culturale che ne ha determinato l’egemonia per un ventennio». Sarà, ma non ci credo.

Quello che è avvenuto in questo ventennio non è una parentesi antistorica, un’invasione degli Hyksos. E non c’è modo di ripristinare il vecchio sistema con un intervento di restauro. Oggi la classe politica (tutta) e la politica come attività, sono completamente delegittimate agli occhi dei cittadini. La gente ha perso la fiducia nei partiti e il sentimento prevalente è che i politici sono inutili, non fanno il loro mestiere e pensano solo ad arricchirsi.

E anche l’Europa non è più quella di una volta. L’erosione della fiducia dei cittadini nei loro dirigenti e nelle istituzioni politiche è diventata uno dei fenomeni più studiati dalla scienza politica negli ultimi vent’anni. Pierre Rosanvallon ha scritto «La politique à l’âge de la défiance»; e in un libro pubblicato non molto tempo fa da Polity Press con un titolo emblematico, «Why We Hate Politics», Colin Hay ha esaminato le ragioni della disaffezione per la politica e del disimpegno nelle società occidentali.

Tanto negli Usa che nel Regno Unito, i dati sembrano suggerire tre cause principali: la (percepita) tendenza delle élite politiche di rovesciare l’interesse pubblico collettivo nella gretta ricerca dell’interesse di partito o personale; la (percepita) tendenza delle élite politiche di finire preda dei grandi interessi; la (percepita) tendenza del governo all’uso inefficiente delle risorse pubbliche. Tutte cose che dovrebbero suonare familiari anche alle nostre orecchie. Non per caso, la settimana scorsa Die Welt si è chiesto:«Saranno i pirati a democratizzare l’Europa?». Secondo il quotidiano  tedesco,  il Partito dei Pirati (…e ho detto tutto!, direbbe Peppino) potrebbe essere il pioniere di una nuova democrazia nell’era post-industriale ed il primo partito genuinamente europeo  («Die neuen Maximalisten», 11 aprile 2012).

Bisognerà farsene una ragione: oggi nessuno partecipa più alla politica come in passato. Per questo bisogna passare definitivamente da una concezione e da una pratica politica fondate su una dichiarazione e una scelta di appartenenza a quelle fondate sulla responsabilità della scelta per il governo del paese. Specie se si considera che il nostro paese deve fare i conti non solo con il malessere che, dovunque in Occidente, circonda l’attività politica, ma anche con una dirompente sfiducia nello stato. Una costante nella storia d’Italia che la mancata modernizzazione del paese ha aggravato al punto che oggi è in discussione la stessa unità nazionale.

Il punto (di nuovo, la questione etico-politica) è che oggi solo la leadership può essere una risposta alla crisi di legittimazione. Gian Enrico Rusconi nei giorni scorsi ha osservato:«ogni ipotesi di riforma istituzionale che evochi il “presidenzialismo” in qualunque forma, è motivo di sospetto prima ancora che di ragionata opposizione. Ma quello che sta accadendo da mesi è la prova evidente della necessità di dotare il nostro sistema politico di competenze di governo che abbiano la legittimità e la forza di aggregare decidendo, soprattutto di fronte alla crescente dispersione delle rappresentanze degli interessi». Ma, allora, visto che bisogna ricostruire il sistema dei checks and balances tra poteri e istituzioni dello stato, perché non è il centrosinistra ad avanzare e precisare il tema del (semi)presidenzialismo (non è forse una «strada europea»?) come complemento necessario dell’Italia «federale»?

Ora che, dopo vent’anni di progetti e di discorsi inconcludenti, la credibilità del federalismo è sfumata, non sarebbe male tenere a mente che quella di nuove regole e di nuove istituzioni è una strada (imposta da emergenze e fratture) che abbiamo scelto proprio per «sanare il contrasto tra società e Stato, fra società e politica». Un contrasto che non è risolto per il fatto che ora (anche) la Lega è colpita dagli scandali.

Enrico Berlinguer, nella celebre intervista concessa a Eugenio Scalfari nel luglio del 1981, espresse con parole appassionate la sua condanna del sistema dei partiti e della loro degenerazione. Ma denunciando la «questione morale» come la questione più importante del paese, senza avanzare contemporaneamente proposte ed ipotesi per la riforma delle istituzioni che, per dirla con uno slogan, «restituissero lo scettro» ai cittadini, Enrico Berlinguer condannò se stesso e il suo partito ad una pura azione di denuncia e testimonianza, altissima certo ma sterile. Oggi come allora quel che occorre è un’ipotesi di riforma delle istituzioni in grado di scongiurare davvero il rischio di un decadimento della democrazia.

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GIORNALI2012

Il Foglio, 19 aprile 2012 – Se i cittadini non decidono chi governa, chi potrà governare?

La nostra Repubblica è cambiata da un pezzo e, da un pezzo, la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta (o come se diretta) il perno attorno al quale ruota il sistema, senza, peraltro, introdurre alcun serio contrappeso. Sono passati diciannove anni da quando i cittadini hanno risposto inequivocabilmente alla domanda alla base del referendum del ’93: sono i partiti o i cittadini a scegliere il governo, e questo risponde ai partiti o ai cittadini? È dal ’93 che ci siamo abituati ad eleggere direttamente sindaci, presidenti di provincia e (poi) di regione. Nel frattempo, nella considerazione degli italiani, i partiti e il Parlamento hanno toccato il punto più basso. Nel 2001, i nomi di Rutelli e Berlusconi erano indicati sulla scheda elettorale; con le primarie scegliamo ormai d’abitudine i candidati per le cariche monocratiche e abbiamo scelto il segretario nazionale e i segretari regionali del Pd, facendo volare le decisioni individuali di moltissimi cittadini là dove non erano mai arrivate, nella scelta dei massimi dirigenti. Inoltre, il quadro che emerge dalle trasformazioni degli ultimi vent’anni assegna ai vertici dell’esecutivo italiano il predominio e la regia della produzione legislativa, autosufficienza ed espansione organizzativa e il crocevia dei rapporti con gli enti locali e la comunità internazionale. Insomma, la politica presidenziale è diventata ormai parte integrante della nostra scena nazionale, anche se ancora non si è trasformata in un nuovo equilibrio istituzionale. E oggi che la classe politica (tutta) e la politica come attività, sono completamente delegittimate agli occhi dei cittadini, si pensa davvero di poter ripristinare il vecchio sistema con un intervento di restauro? Too late, too little. Il vecchio sistema dei partiti non torna più, neppure ripristinando proporzionale e preferenze. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta. Non si tratta di una questione tecnico-istituzionale, ma di una questione etico-politica. Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile? Non è per questo che abbiamo scelto le primarie? Oggi solo la leadership può essere una risposta alla crisi di legittimazione. «Ogni ipotesi di riforma istituzionale che evochi il “presidenzialismo” in qualunque forma – ha osservato Gian Enrico Rusconi – è motivo di sospetto prima ancora che di ragionata opposizione. Ma quello che sta accadendo da mesi è la prova evidente della necessità di dotare il nostro sistema politico di competenze di governo che abbiano la legittimità e la forza di aggregare decidendo, soprattutto di fronte alla crescente dispersione delle rappresentanze degli interessi». Perché, allora, non è il centrosinistra ad avanzare e precisare il tema del (semi) presidenzialismo come complemento necessario dell’Italia «federale»? Enrico Berlinguer, nella celebre intervista concessa a Eugenio Scalfari nel 1981, espresse con parole appassionate la sua condanna della degenerazione del sistema dei partiti. Ma denunciando la «questione morale» come la questione più importante del paese, senza avanzare contemporaneamente proposte per la riforma delle istituzioni che «restituissero lo scettro» ai cittadini, Berlinguer condannò se stesso e il suo partito ad una mera azione di testimonianza, altissima certo, ma sterile. Oggi come allora occorre è un’ipotesi di riforma delle istituzioni in grado di scongiurare il rischio di un decadimento della democrazia.

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GIORNALI2012

Il Gazzettino, 1 maggio 2012 – ‘Scelta dell’anti–Tondo. Maran mette fretta al Pd’

Intervista con il deputato, uno dei papabili per la corsa regionale: «Non bisogna avere paura di un conflitto trasparente tra idee diverse»

di Antonella Lanfrit

UDINE – «Prima ci diamo una mossa e meglio è», perché per scegliere la leadership «è già tardi, dobbiamo procedere il prima possibile». E se «il Pd fosse costretto ad esternalizzare la scelta, significherebbe certificare una  sconfitta».  A sollecitare un cambio di passo per i Democratici del Friuli Venezia Giulia per le regionali del 2013 è il deputato del partito Alessandro Maran. Una sollecitazione interessata, si potrebbe dire, posto che il suo è uno dei nomi più volte indicato tra i papabili per la corsa alla presidenza della Regione, ma il suo input è la conseguenza di un ragionamento più ampio.

«Il Pd nacque da un presupposto  – spiega il deputato – : che i cittadini potessero cambiare idea. Che il voto cioè non fosse predefinito, perché non più legato alle vecchie appartenenze. Ne consegue che anche il Pd deve cambiare idee e mentalità». La questione del candidato, cioè, «non è solo affare di facce, ma di teste nuove». E se ciò comporta uno «scontro creativo» all’interno del partito su «diverse visioni di futuro», non è un male. Perché «è solo dal confronto fra diverse opzioni che può maturare la leadership». E’ il processo che in seno ai Democratici americani ha fatto emergere Obama, ricorda Maran, ed è la tensione dei maggiori partiti europei cui il Pd dovrebbe guardare.

«La scelta del candidato non è un concorso di bellezza – rincara -, significa individuare cosa fare e, soprattutto, come realizzare gli obiettivi. L’idea guida non può essere la relativa notorietà del nome da far scendere in campo». La crisi di fiducia nei confronti dei partiti e l’ombra di un assenteismo dilagante non scoraggiano Maran, perché «dobbiamo scommettere sulla responsabilità della scelta. La politica è proprio lo spazio della scelta – sottolinea – e perciò l’affermazione dell’attuale presidente della Regione, Renzo Tondo, non è inevitabile. Le sue riforme, per ora, sono solo chiacchiere».

Ma proprio in virtù di questo ragionamento, occorre che il Pd dia agli elettori materia per scegliere. «La gente è smarrita, avrebbe bisogno di una leadership, che però non può più uscire da accordi tra capi bastone o da segrete stanze e non può neanche essere presentata nelle ultime settimane».  Pensare che funzioni una simile strategia «è un’illusione». Perciò la scelta di una moratoria per salvare l’unitarietà del partito ha fatto il suo tempo. E il «rimprovero» che Maran muove al Pd friulgiuliano è quello di «una discussione interna sottotraccia». Le diverse ipotesi di futuro «debbono emergere. Un conflitto trasparente è positivo. Un conflitto sottaciuto non si capisce ed è derubricato ad interessi di bottega, fa parte di quell’armamentario dei partiti che i cittadini non accettano più». Tra una settimana «potrebbero esserci notizie positive», conclude Maran, con la possibile vittoria di Hollande in Francia e «lusinghieri risultati» alle amministrative. Dal suo punto di vista motivi in più per il tempo della scelta.

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GIORNALI2012

Il Gazzettino, 5 maggio 2012 – Debora scelta obbligata o il Pd non avrà più senso

Intervista.

Attesta che per natura gli schieramenti sono permeabili, che vincere la Regione nel 2013 è possibile. Ma non con Riccardo Illy, che considera un film già visto e senza lieto fine, bensì con la segretaria regionale del Pd Debora Serracchiani, che ormai impersona «una candidatura obbligata».
Alessandro Maran, eletto a Gorizia, vicecapogruppo dei Democratici alla Camera e intellettuale della famiglia Pd, ha appena finito una partitella di calcio sul campo della Casa Faidutti a Bagni di Lusnizza, nelle Alpi Giulie. È l’epilogo dell’ormai collaudato seminario di geopolitica organizzato ogni anno dagli amici dell’Università di Trieste, dove ti insegnano a guardare la storia della frontiera sul campo eanche dall’altra parte. Ha una caviglia gonfia, s’è fatto male all’ultimo minuto. Come tutti gli anni. Lo fasciano con l’ossido di zinco, ma appena gli parli di politica il dolore non esiste più.
Onorevole Maran, lei dice Serracchiani e non Illy. Ma pare che nel Centrodestra temano più Illy.
«Se Debora non si candidasse – e credo lo annuncerà a breve – dovremmo ammainare definitivamente la bandiera di referenti del Centrosinistra, posto che quello sia ancora il nostro progetto».
D’accordo: Serracchiani. Ma con quale cartello elettorale?
«Esistono due opzioni. La prima: assemblare un’alleanza “da Bertinotti a Mastella”, come si diceva una volta, con l’esclusivo denominatore comune dell’avversario da battere: Renzo Tondo».
Oppure?
«Condividere le idee “per” e non “contro”. Occorrono tre cose: consenso, programma, leader».
Nobili parole. Ma fra la ragion pura e la ragion pratica il guado è profondo.
«La questione non è conquistare il Centrosinistra, non è lì che si vince. È imprescindibile fare breccia nelle coscienze e nella testa di chi ha votato per il Centrodestra».
E Sergio Bolzonello, lo ha archiviato tout court?
«Tutt’altro. Lui impersona la dimensione civica, penso a una grande lista civica da lui guidata, o meglio a più liste civiche locali».
Per poi fare tandem Serracchiani presidente e Bolzonello suo vice plenipotenziario?
«Non mi pare una cattiva idea».
Ma sia sincero: perché non Illy? Non è in politica, è un bel nome. La rivincita – ma lui non vuole chiamarla così – sarebbe una finale da Champions League.
«La verità è che appartiene a una stagione passata. Nel 2003 partimmo da una Lista Illy e tutti lavorarono attorno . Ma noi esercitammo allora un passivo servizio alla leadership . In realtà Illy, al di là di quanto ha detto al Gazzettino , non accetta il Pd ma piuttosto l’idea di un contenitore dove si riproduca la logica dell’Unione».
E perché non andrebbe bene?
«Perché allora la scelta di Illy fu dettata soprattutto dalla necessità di depotenziare il conflitto destra-sinistra: niente cosacchi alla fontana di San Pietro. Questo era il messaggio, per intenderci».
Oggi invece di “rosso” nel Pd non c’è più nessuno, dice lei.
«Oggi il Pd ha senso per conquistare il voto degli altri reggendo la guida della coalizione, niente servizi ad altri. Ma abbiamo stentato ad adeguare l’offerta – cioè le cose da fare per i cittadini – all’evoluzione della società».
Se è per questo, il nodo resta irrisolto. Massimo Cacciari afferma in questi giorni che il Pd non riesce a rispondere alle istanze del Nord nemmeno dopo la grande crisi di Pdl e Lega.
«Siamo in forte ritardo. Il Pd non è riuscito ad adeguarsi, ripeto. Non ha fatto come i New Labour in Gran Bretagna, la Spd in Germania. Obama con i Dem».
Cronache di una nuova Caporetto elettorale?
«Non necessariamente. Certo, c’è Grillo con cui fare i conti. E vale 10 punti percentuali se va bene. Ma non si tradiscono gli operai se si mettono in campo misure contro la burocrazia (e la corruzione). Se si punta a tagliare le troppe tasse del Nord».
Quasi quasi parla da Centrodestra.
«Ecco il punto: dobbiamo essere noi il nuovo Centro, certo non con i valori degli altri ma con i nostri. Il Centro non è soltanto cattolico: il vero Centro è la parte innovativa del Paese, quella che continua la conoscenza».
Già, ma come convincerete un elettore moderato a votarvi?
«Aggredendo i problemi reali con la testa al futuro e al mondo reale, cementando i programmi nella figura del leader. Più competenze regionali sul lavoro, più integrazione fra università, scuola gestita in Friuli Venezia Giulia. E meno carte. È vero: possiamo fare da apripista nazionale. Se invece assembleremo ancora entità troppo eterogenee, magari vinciamo anche. Ma non governeremo affatto: l’alleanza imploderà».

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