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GIORNALI2012

Il Foglio, 2 novembre 2012 – Perché voto Renzi, l’unica alternativa possibile a questa sinistra fallimentare

Bassi salari, alta disoccupazione, diseguaglianza crescente rischiano di trasformare le preoccupazioni economiche in risentimento. Prima che le difficoltà e il risentimento crescano ulteriormente, l’Italia deve optare per le riforme. E dobbiamo offrire un cambiamento nelle politiche e nel modo di fare politica. Stavolta non basterà attendere che passi la nottata. La destra ha fallito la prova di governo, ma i quieti equilibri del passato non si possono ricreare. E il problema del Pd rimane quello di costruire un’alternativa credibile: il centrodestra, infatti, si sta via via sfaldando senza che i consensi per il centrosinistra aumentino. Per il Pd il punto irrisolto è sempre lo stesso. L’incapacità del centrosinistra di promuovere un’aperta battaglia culturale all’interno del proprio «mondo di riferimento» in difesa di quelle idee che molte volte ha annunciato come l’orizzonte della propria azione politica. Da qui la continua riproposizione di una sorta di strategia dei «due tempi»: prima bisogna risolvere il problema della guida del partito (e del Paese) e solo in un secondo tempo, l’effetto carismatico di quella guida trascinerà il partito su nuove coordinate di cultura politica. Ma non ha funzionato e non può funzionare. Che fare dunque?

Voterò per Matteo Renzi. Sono dell’opinione che il centrosinistra ha bisogno di una rigenerazione, sia pure al prezzo di qualche scossa. C’è bisogno di una sincera e coraggiosa competizione con la vecchia sinistra: il tabù dell’unità del partito e del suo governo dal «centro» (tagliando le ali) ha fatto il suo tempo e, come abbiamo visto, è una modalità che consente solo deboli adattamenti e non innovazione duratura. E bisogna che le primarie sciolgano il nodo del posizionamento di fondo del Pd nella crisi italiana ed europea. Fare una campagna elettorale di opposizione dopo un anno in maggioranza è schizoide. Resto dell’opinione che il Pd deve rivendicare con orgoglio di aver partecipato (da protagonista) allo sforzo per salvare l’Italia, non vergognarsene; e deve prendersi il merito della popolarità di Monti in Europa, non accreditarsi come quello che non vede l’ora di toglierselo dai piedi.

Si può pensare quello che si vuole di Matteo Renzi, ma non c’è dubbio che nei suoi discorsi (e nel suo programma) il sindaco di Firenze abbia ripreso quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale; e non c’è dubbio che è con queste idee che prova a sfidare la maggioranza del Pd.  Senza contare che la vera rupture rispetto agli ultimi anni di vita del Pd, più forte della stessa rottamazione, è il suo appello agli elettori delusi da Berlusconi. E, a ben guardare, ci voleva qualcuno che mettesse apertamente in discussione la continuità burocratica del gruppo dirigente e una concezione del partito e della politica che ha al centro proprio la funzione del «gruppo dirigente».

Dovesse prevalere Renzi alle primarie, non finiremmo nell’anarchia, ma il Pd diventerebbe un partito un po’ più simile a quelli (di sinistra) presenti nelle democrazie europee. Mentre le sinistre europee rompono anche simbolicamente con il loro passato (Hollande compie scelte di governo contro le quali Melenchon organizza mobilitazioni di piazza e l’Spd sceglie Steinbrück come proprio candidato alla cancelleria, per tacere degli inglesi), perché sono obbligate a considerare nuovi problemi e nuovi traguardi, il Pd si auto-confina nel recinto della sinistra tradizionale. Ma quella sinistra non è «la» sinistra. Anzi, se c’è un’esigenza in Italia, è proprio quella di costruire la sinistra come crogiuolo dei diversi filoni che si sono variamente intrecciati nella sinistra europea. Il rischio della sinistra italiana è di morire di nostalgia: tutto quel che è accaduto nel passato ha valore, tutto ciò che è presente, è corrotto. Ma il passato diventa motivo di forza e di vanto solo per un equivoco: lo si idealizza; lo si rende perfetto. E a forza di pensare nostalgico ci si dimentica che il futuro si forgia, si costruisce, non lo si aspetta mica. Per conquistare la credibilità necessaria per costruire una alternativa di governo, il Pd deve definire la propria identità e la propria cultura politica. E proprio perché non ha ancora completato il suo processo di conversione a un liberalismo sociale, il Pd ha bisogno di una riflessione ancora più vasta e profonda su cosa significa essere di (centro) sinistra oggi. In discussione, in altre parole, è la «versione dei fatti» fin qui proposta dal gruppo dirigente. Ma non c’è verso: il partito non ha altra possibilità che quella di provare a conquistare quegli elettori delusi dal centrodestra, che ora possono volgere lo sguardo altrove in cerca di una nuova speranza, facendo proprie le loro istanze. Facendo proprie, cioè (sulla base dei nostri valori), quelle domande, quelle aspirazioni – sul fisco, sulla giustizia, sulle libertà economiche – che esse esprimono e che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte. Non è scritto da nessuna parte che il declino, la decadenza siano un esito inevitabile. La tecnologia, il ruolo dell’immigrazione, i miglioramenti nella sanità pubblica, norme che incoraggino una partecipazione più grande delle donne nell’economia, sono solo alcune delle misure che potrebbero cambiare la traiettoria delle tendenze attuali che puntano a un possibile declino. Il ruolo della leadership sarà cruciale circa gli esiti. I leader e le loro idee contano. Ma serve coraggio, che, come scriveva Robert Kennedy, «è la dote indispensabile per chi voglia cambiare un mondo che accetta così faticosamente il cambiamento».

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 84 del 13 novembre 2012 – Il nuovo corso di Obama

A quanto pare, la strategia elettorale di Obama ha funzionato benissimo. Tutti gli elementi della «Obama coalition» si sono tradotti in numeri clamorosi: donne, ispanici, afro-americani, giovani, gay e lesbiche e «highly educated professionals». E i messaggi molto mirati in Ohio (il salvataggio dell’industria automobilistica) e in Florida (Medicare) hanno ripagato. Secondo l’exit-poll della CNN, Obama ha perso il voto bianco per più del 15%, ma non ha pesato. Per una volta, scrive il New Yorker, Bill O’Reilly (opinionista conservatore, conduttore del talk show The O’Reilly Factor su Fox News Channel) aveva visto giusto: «Obama vince perché non è più un americano tipico, tradizionale».

La rielezione di Obama mostra un paese frammentato. I ricchi hanno votato Romney, mentre gli americani più poveri hanno votato prevalentemente per Obama. Restano anche nette le divisioni tra gli elettori per genere, età, razza e religione. Gli afro-americani e gli ispanici hanno sostenuto largamente Obama. I bianchi hanno votato per Romney, che vince tra quelli che proclamavano di opporsi ai matrimoni gay, volevano mettere fuorilegge l’aborto o incoraggiavano la deportazione di massa degli immigrati clandestini. Ma, scrive il New York Times, «nessuna di queste, al giorno d’oggi, sono più posizioni maggioritarie negli Usa» e la vittoria di Obama «è stata un forte sostegno alle politiche economiche che mettono l’accento sulla creazione di posti di lavoro, la riforma sanitaria, l’aumento delle tasse e la riduzione bilanciata del deficit – e su politiche moderate sull’immigrazione, l’aborto e il matrimonio tra persone dello stesso sesso. E’ stata il rifiuto dei luoghi comuni della ‘Regan-era’ sul taglio delle tasse e le ricadute favorevoli in economia e delle politiche fondate sulla paura, l’intolleranza e la disinformazione».

Il Washington Post ha posto l’accento invece su quel ci hanno insegnato queste elezioni e sugli elementi che hanno consentito al Presidente Obama di ottenere, in modo relativamente facile, un secondo mandato. In primo luogo, non è stato esclusivamente un referendum sull’economia. L’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, ha costruito la sua intera campagna sul presupposto che l’unica domanda a contare davvero per gli elettori fosse:«Stai meglio oggi di quattro anni fa?» L’obiettivo era quello di trasformare le elezioni in un referendum sulla gestione, da parte di Obama, di una economia ancora in difficoltà. Non ha funzionato. Quasi 6 elettori su 10 sostenevano che l’economia fosse per loro la questione principale; e tra quel gruppo Romney era in vantaggio: 51 a 47. Ciò nonostante Romney ha perso. Perché? «Obama – osserva il Post – ha trasformato efficacemente la sfida in una scelta tra qualcuno che gli elettori pensavano potesse capirli, e capire i loro problemi, e qualcuno che non sembrava in grado di poterlo fare». Un elettore su cinque ha dichiarato che un candidato al quale «importasse la gente come me» sarebbe stato un elemento cruciale della loro decisione; Obama li ha conquistati con l’82% contro il 17%.

In secondo luogo, i Repubblicani hanno un enorme problema ispanico. Gli elettori ispanici comprendono il 10% del totale degli elettori. Obama ha ottenuto il 69% dei loro voti mentre Romney ha ottenuto solo il 29%. In Florida, i Latinos rappresentano un elettore su cinque e Obama li ha conquistati con 21 punti in più. Il Partito repubblicano, molto semplicemente, non può perdere 7 elettori ispanici su 10 e aspettarsi di essere un partito nazionale in salute, un partito che funziona e può crescere nel 2016, nel 2020 ed oltre. L’incremento della comunità ispanica probabilmente farà dell’Arizona uno swing state nelle prossime elezioni presidenziali ed il Texas potrebbe allo stesso modo diventare uno swing state entro il 2020, a meno che i repubblicani non trovino il modo di farsi largo nella comunità ispanica. «Romney – scrive il NY Times – ha commesso un errore fatele, come si è visto, durante le primarie nel sostenere una linea dura sull’immigrazione, che gli è costata un clamoroso rifiuto da parte dei Latinos. Adottando la posizione spietata che gli immigrati clandestini dovrebbero essere costretti alla deportazione e lodando la crudele legge sull’immigrazione dell’Arizona, Romney ha reso il suo cammino in Florida, e in diversi altri stati cruciali, parecchio più impervio. Solo un terzo degli elettori sostiene che gli immigrati clandestini dovrebbero essere deportati, mentre due terzi sostengono una qualche strada per la residenza legale e la cittadinanza. L’approccio repubblicano, se rimane invariato, potrebbe costare loro molto caro in futuro».

In terzo luogo, il voto dei giovani non è più ignorabile. Secondo gli exit-polls, il 19% dell’elettorato era di età compresa tra i 18 e i 29 anni e Obama ha conquistato quel gruppo con 24 punti di scarto. Era accaduto anche nel 2008, con 34 punti di scarto. «Una volta è un’anomalia; due volte è una nuova realtà politica», osserva il Washington Post. Ora quel che resta da chiedersi è se il voto dei giovani è legato unicamente al presidente Obama o se, più in generale, è un vantaggio per i Democrats.

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 85 del 20 novembre 2012 – Quel conservatorismo «progressista»

Mancano più di dieci mesi da qui alle elezioni in Germania, ma il clima, anche a Berlino, comincia a scaldarsi. Si fanno congetture su una nuova coalizione, qualcosa di mai sperimentato a livello nazionale: una alleanza «Nero-Verde» tra la Cdu del cancelliere Angela Merkel, il cuore dell’attuale governo conservatore, e i Grünen, ambientalisti e tradizionalmente anti-establishment. Ne ha parlato anche il Financial Times, mercoledì scorso.

Una coalizione «Nero-Verde» rappresenterebbe una riconciliazione degna di nota tra la  generazione protestataria e di sinistra degli anni 60 e i loro (perplessi) genitori conservatori. I due partiti non hanno mai governato assieme a livello nazionale (quando i primi verdi arrivarono al Bundestag nel 1983, furono accolti con aperta ostilità dai banchi dei conservatori) e neppure in un grande land come il Baden-Württemberg o il Nordrhein-Westfalen. I tentativi compiuti ad Amburgo e nella Saarland sono finiti in un nulla di fatto e con parecchia acredine. Ma il gran parlare di una alleanza «Nero-Verde» è solo aria fritta? Le opinioni divergono. Ma quello che divide i due partiti, scrive Quentin Peel, «è più lo stile della sostanza». Entrambi i partiti concordano sulla politica ambientale, sulla severa disciplina fiscale e su una più stretta integrazione per risolvere la crisi dell’eurozona. Queste sono senza dubbio le tre questioni principali in ogni agenda di governo in Germania. Possono differenziarsi sulla politica migratoria, i diritti dei gay e altri atteggiamenti sociali, ma queste sono urgenze meno importanti. Alcuni analisti ritengono che una combinazione «Nero-Verde» potrebbe essere il governo più conservatore dalla fondazione della Repubblica federale tedesca. «La conservazione è un argomento profondamente conservatore», ha detto al Financial Times, Andreas Busch, professore all’Università di Göttingen, riferendosi al cuore di qualunque programma Verde.  Va da sé che una maggioranza «Rosso-Verde» potrebbe scacciare la Signora Merkel. Ma se questa non c’è, allora quella «Nero-Verde» è una possibilità.

Alle prese con i guai di casa nostra e le elezioni che verranno, il più delle volte finiamo per trascurare quel che succede intorno a noi. Eppure, i partiti di centrodestra in Europa stanno ottenendo un successo elettorale significativo aggiornando pragmaticamente il loro appeal e cercando di posizionarsi al «centro» del sistema politico (quello che inglesi e americani chiamano «triangulation»), fuori dal solco consueto, «sopra» ed «oltre» la destra e la sinistra dello spettro politico tradizionale.

Insomma, c’è una nuova agenda conservatrice «progressista» che sta rimodellando la politica del centrodestra in buona parte d’Europa. E lo sviluppo del conservatorismo «progressista» rappresenta una sfida rilevante al tradizionale modo di pensare dei socialdemocratici. Com’è evidente soprattutto nelle strategie di governo dei partiti di centrodestra in Germania, in Svezia e nel Regno Unito, il conservatorismo «progressista» cerca di controllare il «centro» del terreno politico attraverso una reputazione di competenza economica, una rinnovata diffidenza circa il ruolo dello stato e l’efficienza del settore pubblico e la fiducia nel ruolo dei valori tradizionali nel contesto delle società contemporanee.

Policy Network, il think tank inglese, in questi mesi sta cercando meritoriamente di promuovere una migliore comprensione della nuova agenda conservatrice «progressista» tra i socialdemocratici, delineando le implicazioni elettorali per il centrosinistra e i riflessi sulle strategie per il futuro. Specie se si considera che, nei paesi avanzati, si vince con il consenso degli elettori di «centro».

Rimarrebbe da osservare che il «centro» non è un luogo geometrico da sempre e per sempre immobile, da occupare con una forza centrista e moderata che aspira al ruolo di ago della bilancia. Che non è al centro politico che bisogna guardare, ma al «centro sociale», cioè alle forze dinamiche e potenzialmente «centrali» della società. Che gli elettori di «centro» li si conquista adeguando l’offerta politica. Ogni volta. Sia in Germania sia in Gran Bretagna e in Svezia, il centro dell’elettorato è stato conquistato da partiti capaci di presentare proposte innovative dai lineamenti culturali espansivi. Ma in Italia, purtroppo, sembra fiato sprecato.

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l’Unità, 6 dicembre 2012 – La lezione della destra europea. Il centro non è dei centristi

Come si affanna a ripetere Patrick Diamond del think tank inglese Policy Network, c’è una nuova agenda conservatrice «progressista» e sta rimodellando la politica del centrodestra in buona parte d’Europa. L’implosione del centrodestra che abbiamo conosciuto in Italia (e del partito personale inventato e portato al successo da Berlusconi) rischia (comprensibilmente) di relegarla in secondo piano. Resta però il fatto che i partiti di centrodestra in Europa stanno ottenendo un significativo successo elettorale aggiornando pragmaticamente il loro appeal e cercando di posizionarsi al «centro» del sistema politico (quello che inglesi e americani chiamano «triangulation»), fuori dal solco consueto, «sopra» ed «oltre» la destra e la sinistra dello spettro politico tradizionale.

Il conservatorismo «progressista» rifiuta l’individualismo liberale degli anni 80 e, tuttavia, manifesta una rinnovata diffidenza circa il ruolo dello Stato e l’efficienza del settore pubblico; il che ha permesso ai partiti di centrodestra, specialmente ai conservatori di Cameron nel Regno Unito, alla Cdu della Merkel in Germania e ai moderati di Reinfeld in Svezia, di strappare agli avversari il «centro» del terreno politico abbracciando una nuova concezione di conservatorismo «compassionevole».

Questo drastico spostamento politico è ancora poco compreso dai partiti socialdemocratici nonostante le sconfitte elettorali degli anni recenti. La reazione istintiva è quella di contestare il nuovo atteggiamento pragmatico e compassionevole dei conservatori, ribadendo che i politici del centrodestra, al solito, sono solo dei lupi travestiti da agnelli. Tuttavia, i socialdemocratici farebbero bene a diffidare di chi tende a liquidare sbrigativamente questo nuovo approccio del centrodestra come una riedizione dell’individualismo Thatcheriano degli anni 80.  Dopo la storica vittoria dei conservatori nel 1979, la sinistra inglese ha faticato parecchio a rendersi conto del potenziale incisivo del Thatcherismo: della sua capacità di riprogettarsi come puntello di un nuovo patto tra capitale e lavoro per fermare il declino economico relativo della Gran Bretagna.

La storia può ripetersi. Il primo ministro svedese è stato l’apripista tra i politici conservatori europei. Dopo il disastroso risultato elettorale del 2002, Reinfeld ha conquistato la leadership del partito e lo ha trasformato da capo a piedi. I moderati hanno immediatamente addolcito le politiche liberali tradizionali come il taglio delle tasse e le regole pro-business, adottando programmi che hanno fatto propri il modello di welfare svedese e una nuova «work-first policy» che ha combinato tagli delle tasse per i redditi medio-bassi con tagli nei benefits per la disoccupazione e la malattia. Così Reinfled, ottenendo due vittorie elettorali consecutive nel 2006 e nel 2010, ora sfida la tradizione egemonica della socialdemocrazia nella storia svedese.

Nel suo penetrante libro sui conservatori inglesi, «The Conservative Party from Thatcher to Cameron» (Polity Press, Cambridge, 2009), Tim Bale mostra come anche i Tories hanno riscoperto le loro possibilità di vittoria ritornando al «centro». E la Cdu tedesca da tempo è propensa a svoltare a sinistra (fino a non molto tempo fa ha governato con la Spd); senza contare che la crisi finanziaria ha rafforzato la determinazione dei politici tedeschi, al di là delle divisioni politiche, di distinguere il modello tedesco dagli eccessi peggiori del capitalismo anglo-americano e dalla globalizzazione neo-liberale. Ci sono, insomma, almeno tre modelli distinti di conservatorismo «progressista» in Europa, ma, per dirla con i conservatori inglesi,  tendono tutti alla creazione di «una società in cui la forza motrice del progresso è la responsabilità sociale, non il controllo statale».

Il risultato è che i partiti conservatori del centrodestra sono più affidabili che in passato. Questa concezione del conservatorismo «progressista» raggiunge i gruppi con reddito basso e medio, abbracciando la competenza e l’idoneità a governare, piuttosto che l’ideologia. La nuova politica del conservatorismo «progressista», insomma, rappresenta una sfida rilevante ai partiti e alle ideologie di centrosinistra. Specie se si considera che, nei Paesi avanzati, si vince con il consenso degli elettori di «centro»; e gli elettori di «centro» (cioè le forze dinamiche e potenzialmente «centrali» della società) li si conquista adeguando l’offerta politica. Va da se che per far questo, bisogna definitivamente prendere atto, anche qui da noi, che il «centro» non è un luogo geometrico da sempre e per sempre immobile, da occupare con una forza centrista e moderata che aspira al ruolo di ago della bilancia.

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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 89 del 18 dicembre 2012 – La variabile Monti

Come ha osservato domenica Renato Mannheimer sul Corriere della Sera ( Discesa in campo di Monti, sì dal 30% Più tra i votanti pd che nel Pdl), una possibile candidatura di Mario Monti nelle prossime elezioni sconvolgerebbe infatti alleanze e preferenze degli italiani: «una presenza diretta di Monti nella competizione elettorale muterebbe completamente – in positivo per alcuni, in negativo per altri – l’atteggiamento (anche emotivo e psicologico) degli elettori nei confronti dell’offerta politica. Mobilitando ad esempio, in un senso o nell’altro, i molti indecisi (la cui quantità è comunque diminuita negli ultimi giorni). Da questo punto di vista, una candidatura effettiva potrebbe rendere in qualche misura obsolete diverse delle stime ipotizzate sin qui».

Le pressioni attorno al Professore sono fortissime. E come si è visto giovedì a Bruxelles, non soltanto nazionali, a cominciare dai giornali anglosassoni come il Financial Times e l’Economist Italian politics in turmoil: Run, Mario, run»). Non resta, dunque, che attendere la decisione del Professore.

Non c’è dubbio che, come ha detto Massimo D’Alema nella sua intervista (vagamente minatoria) al Corriere della Sera ( «Il premier contro chi lo sostiene? Sarebbe moralmente discutibile»), «Monti potrà continuare a svolgere un ruolo importante per tutti noi. Prima di lasciare Palazzo Chigi potrebbe indicare quali sono le cose utili da fare per il paese e le forze politiche si misurerebbero su questo programma».  Ma – mi chiedo – c’è davvero ragione di temere la sua discesa in campo? Accantoniamo, per un momento, alcune questioni  di  fondo (ci sono davvero le condizioni per un ritorno pieno della politica «com’era prima»?) e le preoccupazioni personali su chi farebbe il premier. Che, con l’implosione del partito personale inventato e portato al successo da Berlusconi, la ristrutturazione del centrodestra italiano prenda (sul serio) a modello il Ppe («La derecha europea apadrina a Monti», scrive El País) e provi a gettare le basi, con Monti, di una formazione in qualche modo riconducibile al centrodestra europeo, ponendo un argine alle forze estreme e antieuropee e sanando l’anomalia rappresentata da Berlusconi, non è un processo che andrebbe incoraggiato nell’interesse del paese? E che l’area centro-moderata abbia una figura capace di coagulare consenso, attraendo elettori e limitando le uscite in direzione dei partiti antisistema, verso quel che resta del Pdl o verso l’astensione,non dovrebbe interessare anche il Pd? Sbaglierò, ma non trovo «illogico» e neppure «moralmente discutibile» che il Professore scenda in campo per favorire questo processo. Ma non si era detto, lamentando il bipolarismo «forzoso e incivile», che il problema fondamentale dell’Italia era l’«emergenza democratica»? Possibile che in Italia dobbiamo rassegnarci all’alternativa tra «comunisti» e «farabutti» ?

Oltretutto, mi sembra che, anche dal punto di vista del Pd, poter contare su una formazione (europea) con la quale (se occorre) allearsi e, comunque, condividere gli sforzi nel corso dei mesi che verranno, non sarebbe poi male. Specie se si considera che, in ogni caso, Berlusconi e Lega potrebbero aggiudicarsi il premio regionale (al Senato) in Veneto e Lombardia e, dunque, non è affatto detto che ci sia una maggioranza in quella camera. Tutto considerato, un Pd che potrebbe vincere le elezioni, e che dovrebbe guardare al buon funzionamento del sistema, ha interesse ad avere di fronte un centro solido e non frammentato, con cui poi collaborare.

Non per caso, gli osservatori rilevano una più accentuata presenza di favorevoli alla possibile candidatura di Mario Monti non solo nell’elettorato dell’Udc, «ma anche in quello stesso del Pd: quasi metà (44%) dei votanti per il partito di Bersani dichiara di auspicare la candidatura del Professore, nonostante il parere contrario del segretario».

Del resto, da tempo il Presidente Napolitano non fa che ripetere che «l’Italia non può ritrovare la sua strada in un clima di guerra politica» e non perde occasione per ribadire che «è indispensabile un riavvicinamento tra i campi politici contrapposti, il che non significa confondersi, non significa rinunciare alle rispettive identità, ma significa condividere gli sforzi che sono indispensabili per riaprire all’Italia una prospettiva di sviluppo e anche per ridare all’Italia il ruolo e il prestigio che le spetta nella comunità europea e nella comunità internazionale».

Lo ha sintetizzato Sergio Fabbrini qualche tempo fa sul Sole 24 Ore (Riconoscere le priorità ): «se l’Italia vuole crescere di nuovo, allora la competizione tra leader e partiti, pur dura, dovrà basarsi sul comune riconoscimento dei problemi strutturali che dobbiamo risolvere». L’Italia non può sopravvivere mantenendo lo status quo (che equivale alla legittimazione del nostro declino morale oltre che economico: alti tassi di disoccupazione giovanile, alti tassi di non-occupazione femminile, alti tassi di corruzione pubblica e privata, alti tassi di fiscalità sulle imprese e sul lavoro, alti tassi di evasione fiscale, ecc.); e, per tornare a crescere, non basteranno, misure contingenti e di breve periodo. Non basterà, come direbbe Bersani, «stringere i bulloni». Per risolvere i nostri guai c’è bisogno di un’azione continuativa per almeno una legislatura e bisognerà mettere in discussione interessi consolidati, rendite di posizione, corporativismi diffusi. «Come in guerra – scrive Fabbrini – nell’Italia di oggi la lealtà reciproca tra le principali forze politiche è una necessità, non già un’opzione». Anche perché l’Italia non potrà ritornare a crescere senza un sistema decisionale riformato; senza cioè mettere mano finalmente ad un sistema istituzionale slabbrato e farraginoso.

In fondo, come ha scritto Mark Gilbert su Foreign Affairs ( Mario Monti and Italy’s Generational Crisis), «the real question facing Italy, then, is not whether “Super Mario” can save Italy but whether any non-technocratic government can continue his work».

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Messaggero Veneto, 30 dicembre 2012 – Maran: «Non sarebbe male per i democratici collaborare con Monti»

Dunque, Mario Monti «sale» in politica, impegnandosi direttamente nella sfida delle urne. Ma, mi chiedo, che ragione c’è di temere la «salita in politica» di Monti? Accantoniamo, per un momento, alcune questioni fondamentali e le preoccupazioni personali su chi farebbe il premier. Che, con l’implosione del partito personale inventato e portato al successo da Berlusconi, la ristrutturazione del centrodestra italiano prenda (sul serio) a modello il Ppe e provi a gettare le basi, con Monti, di una formazione in qualche modo riconducibile al centrodestra europeo, ponendo un argine alle forze populiste e antieuropee e sanando l’anomalia rappresentata da Berlusconi, non è un processo che andrebbe incoraggiato nell’interesse del paese? E che l’area moderata abbia una figura capace di coagulare consenso, attraendo elettori e limitando le uscite in direzione dei partiti antisistema, verso quel che resta del Pdl o verso l’astensione, non dovrebbe interessare anche il Pd? Sbaglierò, ma non trovo «illogico» e neppure «moralmente discutibile» che il Professore scenda in campo per favorire questo processo. Ma non si era detto, lamentando un bipolarismo «forzoso e incivile», che il problema fondamentale dell’Italia era l’«emergenza democratica»? Possibile che in Italia dobbiamo rassegnarci all’alternativa tra «comunisti» e «farabutti»? Oltretutto, mi sembra che, anche dal punto di vista del Pd, poter contare su una formazione (europea) con la quale (se occorre) allearsi e, comunque, condividere gli sforzi nel corso dei mesi che verranno, non sarebbe poi male. Specie se si considera che, in ogni caso, Berlusconi e Lega potrebbero aggiudicarsi il premio regionale (al Senato) in Veneto e Lombardia e, dunque, non è affatto detto che ci sia una maggioranza in quella Camera. Tutto considerato, un Pd che potrebbe vincere le elezioni, e che dovrebbe preoccuparsi del buon funzionamento del sistema, ha interesse ad avere di fronte un centro solido e non frammentato, con cui poi collaborare. Specie se si considera che le indicazioni dell’«agenda per un impegno comune» presentata da Mario Monti sono certamente compatibili con gli orientamenti programmatici di un grande partito europeo di centrosinistra quale è il Pd. Non per caso, gli osservatori rilevano una più accentuata presenza di favorevoli alla possibile candidatura di Mario Monti non solo nell’elettorato dell’Udc, «ma anche in quello stesso del Pd: quasi metà (44%) dei votanti per il partito di Bersani dichiara di auspicare la candidatura del professore». Del resto, da tempo il presidente Napolitano non fa che ripetere che «l’Italia non può ritrovare la sua strada in un clima di guerra politica» e non perde occasione per ribadire che è indispensabile un riavvicinamento tra i campi politici contrapposti, il che non significa confondersi, non significa rinunciare alle rispettive identità, ma significa condividere gli sforzi che sono indispensabili per riaprire all’Italia una prospettiva di sviluppo e anche per ridare all’Italia il ruolo e il prestigio che le spetta nella comunità europea e internazionale.

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Il Gazzettino, 10 gennaio 2013 – Maran: «Mi hanno buttato fuori»

 

Il deputato goriziano del Pd Alessandro Maran, in uscita dal Parlamento dopo 12 annni perché ha deciso di non partecipare alle primarie, non nasconde una «una pausa di riflessione» attorno ai Democratici, una pausa che ha «un senso». Non dice se lascerà il partito dopo che martedì aveva smentito le notizie nazionali che lo davano in direzione Monti. A chiedergli se sosterrà il suo partito nella corsa a guadagnarsi la guida della Regione il 21 aprile risponde: «Ho sempre sostenuto il Pd». Tuttavia, la parte finale di questa legislatura e quest’ultimo frangente della sua storia nel Pd paiono gravide di conseguenze. «Una sconfitta in sé non è grave», premette per motivare la sua pausa di riflessione. «Altra cosa,invece, è prendere atto che vogliono sbatterti fuori» dal partito. Perché questo secondo lui è quello che è successo all’area liberal dei Democratici, attraverso le modalità con cui si sono svolte le primarie prima e con la composizione delle liste poi, frutto di equilibri fra correnti interne. «Hanno buttato fuori tutti quelli che hanno sottoscritto l’appello di luglio», analizza Maran, cioè il documento di cui lui era il primo firmatario e in cui si chiedeva che «il Pd portasse l’Agenda Monti nella prossima legislatura». In sostanza, «hanno silenziato l’ala destra del partito», aggiunge, ricordando che dei 15 firmatari è rimasto in gara solo Giorgio Tonini che corre a Bolzano. Tra i sottoscrittori c’era anche Pietro Ichino, che ha abbandonato il Pd ed è considerato possibile candidato per Monti. Continuo a pensare necessaria un’evoluzione del partito nel senso degli schieramenti socialisti/laburisti europei, con la consapevolezza che il socialismo in Europa è un compromesso liberal-socialista e che la competizione si gioca al centro – spiega Maran – . Devo però prendere atto che nel Pd sostenere questa posizione è difficile». Di più. Che «per i riformisti che stavano attorno all’area liberal non c’è più posto». Pacato nei toni ma pungente nelle considerazioni, Maran ritiene che le primarie per il Parlamento siano state «una grande corrida». Inoltre, «c’è stato un appello al popolo per legittimare la leadership esistente, facendo rotolare le teste degli oppositori». E’ dispiaciuto che ci sia stata una radicalizzazione del voto militante e ritiene verosimile la preoccupazione espressa da Prodi che si possa verificare lo scenario del 2006, con il centrosinistra privo di maggioranza al Senato.

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GIORNALI2013

Il Piccolo, 11 gennaio 2013 – «Il Pd mi ha tradito. E ho detto sì a Ichino»

 

Assicura che «nulla è ancora definitivo». Ma, in serata, scioglie le riserve: «Ho accettato la proposta di Pietro Ichino di correre come capolista al Senato per “Scelta civica” di Mario Monti in Friuli Venezia Giulia». Alessandro Maran, deputato goriziano uscente del Pd, è la sorpresa maggiore delle liste in regione. E spiega perché, in due giorni, è cambiato tutto. Maran, aveva appena detto di credere nel progetto del Pd, e invece? Ho preso atto che mi hanno sbattuto fuori. Ma il partito non è oggetto di un atto di fede. Non è casa, chiesa e famiglia. Va con Monti, dunque, perché è stato escluso dalle liste del Pd? Non è un caso personale, ci hanno messo alla porta. Bersani ha scelto di «silenziare» l’ala destra del partito. C’è la volontà di restringere i confini del Pd marcando una frontiera netta con Monti. Rivelando oltretutto una concezione limitata del pluralismo interno. Per i «montiani» non c’è più posto nel Pd. Se n’è accorto in ritardo? È il fatto nuovo delle ultime ore. Intollerabile. Com’è arrivata la proposta della lista Monti? Da Ichino, un amico. Ci ho pensato e ho deciso di accettare. Perché non ha partecipato alle primarie? Il metodo presupponeva un consenso territorialmente molto concentrato e il sostegno della corrente di maggioranza. Non è il mio caso. Un esito già scritto? Collegi provinciali con effetti localistici, tre giorni di campagna elettorale, limitata solo all’elettorato di appartenenza, mobilitabile dagli eletti locali o dal principale sindacato di riferimento. La scelta della commissione nazionale di consentire al lettiano Brandolin di gareggiare, liberando così un posto in Consiglio regionale, ha poi chiuso la partita. Il partito le aveva prospettato una soluzione? Neppure una telefonata. Deluso? Ho avuto il privilegio di servire l’Italia in uno dei periodi più difficili. E mi sono battuto coerentemente per dar vita, con il Pd, a un grande partito riformista, capace di svolgere la stessa funzione politica che nei principali Paesi europei è dei partiti socialdemocratici. Sono orgoglioso e ringrazio gli elettori e i militanti per la fiducia che mi hanno accordato. Giusto rinnovare? Certo che bisogna rinnovare. Ma non abbiamo bisogno di nuovi interpreti delle vecchie idee. Abbiamo bisogno di idee nuove. Di teste nuove, non di facce nuove. Il modo è un imbroglio. L’appello al popolo ha rilegittimato il gruppo dirigente «centrale», che si è garantito e resta intatto, tanto che si dice che D’Alema sarà ministro, facendo rotolare le teste degli oppositori interni e di qualche dirigente periferico. Come in Cina. Come ha agito Debora Serracchiani? Ha fatto quel che poteva. E le correnti sono accontentate. Perché Monti ha fatto bene a scendere in campo?Vogliamo mettere una argine alla destra antieuropea, sì o no? Vogliamo mettere in mora il conservatorismo che si nasconde sia a destra che a sinistra? Sono le condizioni per far ripartire il Paese. Che cosa auspica dal punto di vista elettorale? Comunque vada, non si potrà prescindere da un rapporto positivo tra le uniche due realtà dotate di cultura di governo, il Pd e Monti, di fronte alle tre proposte populiste di Ingroia, Grillo e Berlusconi. Il futuro del Pd? Il Pd è distante dal partito aperto e plurale che si era immaginato all’inizio. Ha trovato consenso su una deriva identitaria. Lo slogan congressuale di Bersani («Trovare un senso a questa storia»), dove l’uso della storia è al singolare, era rivelatore. È prevalsa la logica di chi, per paura, sotterra i talenti, ripiega sulle tradizioni consolidate. Un tradimento.

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Messaggero Veneto, 13 gennaio 2013 – «LA DIFFICILE SCELTA DI MARAN»

 

di Tommaso Cerno

Ho letto, come tutti, sul Messaggero Veneto le reazioni, abbastanza scontate e prevedibili, alla candidatura di Alessandro Maran come capolista al Senato con la lista del premier Mario Monti. Detto che, in politica, ognuno la pensa come vuole (ma anche che chi sta da una parte attacca chi sta dall’altra, ed è normale), mi pare che il Pd stia liquidando con troppa fretta e sicumera l’addio, sofferto, di uno dei suoi esponenti di maggiore prestigio. Voglio dire: se Maran lascia il partito che contribuì a fondare, figlio di quei Ds che guidò ormai più di un decennio fa, padre della discesa in campo di Riccardo Illy – assieme al suo successore alla segreteria regionale del Ds, Carlo Pegorer – non credo si possa banalizzare tutto tirando in ballo il trasformismo o, peggio, il voltagabbanismo. Certo è la risposta più populista e facile da dare, ma è anche una risposta imprecisa, semplicistica e deleteria per un partito che si appresta a fare una campagna elettorale dove ha l’imperativo categorico di vincere, almeno stavolta, le elezioni. Io credo che il Pd abbia piuttosto il dovere di chiedersi perché Maran ha fatto questa scelta e di scorgere, dietro l’addio del vicecapogruppo alla Camera, una questione politica che non riguarda solo la poltrona di tizio o di caio, ma le scelte che il Pd ha fatto dall’indizione delle primarie Bersani-Renzi fino alla chiusura delle liste, passando per le parlamentarie che, come si è visto, porteranno in Parlamento sostanzialmente un monocolore, pur benedetto dal Pd locale e dai suoi leader o sindaci rampanti. Per prima cosa va sgombrato il campo da una bugia: Maran non esce dal Pd in quanto renziano deluso, ma in quanto persuaso che l’area liberal del partito, quella che ai tempi di Togliatti e Berlinguer si chiamava area migliorista (e che fondò il Pd assieme agli allora fassiniani del Ds e ai rutelliani della Margherita, quando Renzi ancora non esisteva come fenomeno politico) sia stata espulsa dall’agenda del partito, dalla sua cultura politica, dal dibattito interno. Se questo fosse vero, c’è da temere che – come Maran – anche una parte degli elettori che si riconoscono in quella visione (europeista, aperturista sul lavoro, sull’articolo 18, sui diritti civili, sul concetto di sinistra in generale) possano guardare altrove. Sarebbe gravissimo, anche in vista delle elezioni regionali dell’aprile 2013. Secondo punto controverso. Ricordiamo le parole con cui, poco prima di Natale, l’economista Pietro Ichino ha scelto di lasciare il Pd seguendo Monti: «La risposta negativa di Bersani al bellissimo discorso di Monti di ieri è per me decisiva. Non c’è nessun mistero, né alcun giallo: tutto è stato fatto alla luce del sole. Molte delle tesi esposte nel manifesto di Monti sono le stesse di un documento che ho presentato il 29 settembre scorso in un’assemblea pubblica e sottoscritto da diversi parlamentari del Pd». Bene, fra i firmatari di quel documento, c’era anche Maran che, in tempi non sospetti, si era schierato per rappresentare la destra del Pd, proprio come fece Napolitano negli anni Ottanta e Novanta, premiato con la presidenza della Camera, senza tirare in ballo in Quirinale, non certo con l’epurazione. Terzo e ultimo punto: da quel che si capisce, in Italia il fenomeno dei riformisti che guardano a Monti – da Ichino ad Adinolfi – è ampio. E va dunque inserito in questo contesto il gesto di Maran. La questione non è quella di perdere una poltrona, magari la sua, ma la presa d’atto che sostanzialmente tutto il gruppo che firmò quel documento è fuori, fatto salvo Giorgio Tonini, ma solo perché in Trentino si vota con il Mattarellum e c’era bisogno di incassare il sostengo dei centristi. In questo scenario, la scelta di Maran di continuare a percorrere la linea politica filo-montiana che aveva connotato il suo impegno parlamentare nell’ultimo anno potrà essere criticabile, ma non tacciabile di trasformismo. Anche perché mamma Roma insegna che un vicecapogruppo a Montecitorio, 52 anni, per cui giovane, se aveva come obiettivo la riconferma a tutti i costi avrebbe potuto giocare una partita molto diversa. E più semplice: stare con la maggioranza.

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Messaggero Veneto, 17 gennaio 2013 – «Il Pd non vuole tra i piedi i riformisti dell’area liberal»

 

di ALESSANDRO MARAN

Comprendo il nervosismo che si cela dietro le scomuniche e i giudizi sprezzanti che, come nei tempi andati, lasciano intendere che «anche nella criniera di un nobile cavallo da corsa si possono sempre trovare due o tre pidocchi». E potrei ironizzare a lungo su quanto le «scelte personali» abbiano contato nelle decisioni della segretaria del Pd. Ma la questione è molto semplice: se avessi pensato unicamente alla «busta paga» in questi anni mi sarebbe bastato stare con la maggioranza e sostenere Bersani. Come hanno fatto in tanti. Anche quelli che si erano schierati dalla parte opposta, prima con Veltroni e poi con Franceschini. Avrei potuto adeguarmi alla maggioranza e tenere la bocca chiusa anziché battermi apertamente con l’iniziativa per l’agenda Monti e una ingente quantità di interventi e proposte. Senza contare che, come in molti lasciano intendere, se avessi fatto il bravo, mi avrebbero «recuperato» in qualche modo. Ma io non voglio fare il bravo. La politica è lo spazio della scelta. Che per me non ci sia posto in lista passi, ma che non ci sia posto per un’intera area politico-culturale è inammissibile. E di questo ho preso atto solo dopo la riunione della direzione nazionale. Il che spiega l’incoerenza tra le due dichiarazioni (e rivela anche che non avevo architettato la fuga). Ma questi sono dettagli. La sola cosa che conta, il fatto «politico», è che il Pd ha scelto di bandire una precisa area politico culturale dal suo stesso progetto politico. Dire, come fa Serracchiani, che comunque all’interno del Pd è rappresentata l’area moderata è una sciocchezza. L’area liberal non ha niente a che vedere con Fioroni. È l’area liberal-socialista del partito, erede della tradizione migliorista di Napolitano. L’area che più di ogni altra si è battuta per dare vita al Pd, per la convergenza delle diverse culture riformiste nella costruzione di una cultura politica comune e per costruire la sinistra italiana come crogiuolo dei diversi filoni (liberalismo, socialismo, personalismo cristiano) che si sono variamente intrecciati nella sinistra europea. È questa l’area che il Pd, preda ormai di una deriva identitaria allontana come «altro da sé». E non intenderne la portata rivela una imperdonabile inconsapevolezza della vicenda storica del nostro Paese, di cosa sia la sinistra in Italia (e non solo in Italia) e svela la determinazione a restringere il perimetro del Pd. La mia battaglia dentro la sinistra e nel Pd l’ho combattuta per anni. Ma ho perso. E ora l’area liberal è stata messa a tacere. Può anche darsi che la componente possa ricostruirsi, ma nella situazione in cui siamo l’Italia ha bisogno di cambiamento, di fiducia, di riforme; e non può permettersi i ritardi culturali della sinistra. Sostenere, come ha fatto Serracchiani, che Monti non è un riformista è un’altra sciocchezza. Grazie a Monti l’Italia è riuscita a rompere lo stallo in cui versava la politica europea: rimettendo in moto il processo comunitario per la condivisione delle politiche economiche. E chi sta a Bruxelles dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro. Di più: oggi «Riformismo versus Populismo» è la dicotomia che spiega il tempo che ci è dato vivere. Si tratta di un tema strategico. Non per caso proprio Mario Monti ha proposto un vertice europeo per discutere dei populismi. Il campo del populismo non coincide con il campo della destra o della sinistra: è un campo mobile. E il vero discrimine della politica italiana oggi non è quello tra la sinistra di Bersani-Vendola e la destra di Berlusconi-Maroni. Il vero discrimine è tra chi è convinto della strategia che abbiamo concordato con i nostri partner europei per uscire insieme dalla crisi, e quanti, (come Vendola, Berlusconi, Maroni e alcuni dirigenti del Pd) sono convinti che proprio quella strategia sia la causa dei nostri mali. Queste sono le due alternative tra cui gli italiani devono scegliere il 24 febbraio. E la formazione che nasce con Monti mira a creare un nuovo bipolarismo positivo. Aggiungo che solo dalla collaborazione tra Bersani e il polo riformatore di Monti è possibile immaginare che il governo del Paese resti orientato in direzione del riformismo contrastando il populismo diffuso in tutti gli altri partiti in gara (Berlusconi, Grillo, Ingroia) e neutralizzando le spinte conservatrici. E il Pd farebbe bene a tenerlo a mente. Potrà non piacere a molti nel Pd, ma la strada da seguire è quella dell’iniziativa di quest’anno del presidente Monti. Come l’area liberal ha, appunto, cercato di indicare con l’appello del luglio scorso. Quei riformisti che il Pd non ama e non vuole tra i piedi.

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