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qdR magazine settimanale di propaganda riformista, numero 89 del 18 dicembre 2012 – La variabile Monti

Come ha osservato domenica Renato Mannheimer sul Corriere della Sera ( Discesa in campo di Monti, sì dal 30% Più tra i votanti pd che nel Pdl), una possibile candidatura di Mario Monti nelle prossime elezioni sconvolgerebbe infatti alleanze e preferenze degli italiani: «una presenza diretta di Monti nella competizione elettorale muterebbe completamente – in positivo per alcuni, in negativo per altri – l’atteggiamento (anche emotivo e psicologico) degli elettori nei confronti dell’offerta politica. Mobilitando ad esempio, in un senso o nell’altro, i molti indecisi (la cui quantità è comunque diminuita negli ultimi giorni). Da questo punto di vista, una candidatura effettiva potrebbe rendere in qualche misura obsolete diverse delle stime ipotizzate sin qui».

Le pressioni attorno al Professore sono fortissime. E come si è visto giovedì a Bruxelles, non soltanto nazionali, a cominciare dai giornali anglosassoni come il Financial Times e l’Economist Italian politics in turmoil: Run, Mario, run»). Non resta, dunque, che attendere la decisione del Professore.

Non c’è dubbio che, come ha detto Massimo D’Alema nella sua intervista (vagamente minatoria) al Corriere della Sera ( «Il premier contro chi lo sostiene? Sarebbe moralmente discutibile»), «Monti potrà continuare a svolgere un ruolo importante per tutti noi. Prima di lasciare Palazzo Chigi potrebbe indicare quali sono le cose utili da fare per il paese e le forze politiche si misurerebbero su questo programma».  Ma – mi chiedo – c’è davvero ragione di temere la sua discesa in campo? Accantoniamo, per un momento, alcune questioni  di  fondo (ci sono davvero le condizioni per un ritorno pieno della politica «com’era prima»?) e le preoccupazioni personali su chi farebbe il premier. Che, con l’implosione del partito personale inventato e portato al successo da Berlusconi, la ristrutturazione del centrodestra italiano prenda (sul serio) a modello il Ppe («La derecha europea apadrina a Monti», scrive El País) e provi a gettare le basi, con Monti, di una formazione in qualche modo riconducibile al centrodestra europeo, ponendo un argine alle forze estreme e antieuropee e sanando l’anomalia rappresentata da Berlusconi, non è un processo che andrebbe incoraggiato nell’interesse del paese? E che l’area centro-moderata abbia una figura capace di coagulare consenso, attraendo elettori e limitando le uscite in direzione dei partiti antisistema, verso quel che resta del Pdl o verso l’astensione,non dovrebbe interessare anche il Pd? Sbaglierò, ma non trovo «illogico» e neppure «moralmente discutibile» che il Professore scenda in campo per favorire questo processo. Ma non si era detto, lamentando il bipolarismo «forzoso e incivile», che il problema fondamentale dell’Italia era l’«emergenza democratica»? Possibile che in Italia dobbiamo rassegnarci all’alternativa tra «comunisti» e «farabutti» ?

Oltretutto, mi sembra che, anche dal punto di vista del Pd, poter contare su una formazione (europea) con la quale (se occorre) allearsi e, comunque, condividere gli sforzi nel corso dei mesi che verranno, non sarebbe poi male. Specie se si considera che, in ogni caso, Berlusconi e Lega potrebbero aggiudicarsi il premio regionale (al Senato) in Veneto e Lombardia e, dunque, non è affatto detto che ci sia una maggioranza in quella camera. Tutto considerato, un Pd che potrebbe vincere le elezioni, e che dovrebbe guardare al buon funzionamento del sistema, ha interesse ad avere di fronte un centro solido e non frammentato, con cui poi collaborare.

Non per caso, gli osservatori rilevano una più accentuata presenza di favorevoli alla possibile candidatura di Mario Monti non solo nell’elettorato dell’Udc, «ma anche in quello stesso del Pd: quasi metà (44%) dei votanti per il partito di Bersani dichiara di auspicare la candidatura del Professore, nonostante il parere contrario del segretario».

Del resto, da tempo il Presidente Napolitano non fa che ripetere che «l’Italia non può ritrovare la sua strada in un clima di guerra politica» e non perde occasione per ribadire che «è indispensabile un riavvicinamento tra i campi politici contrapposti, il che non significa confondersi, non significa rinunciare alle rispettive identità, ma significa condividere gli sforzi che sono indispensabili per riaprire all’Italia una prospettiva di sviluppo e anche per ridare all’Italia il ruolo e il prestigio che le spetta nella comunità europea e nella comunità internazionale».

Lo ha sintetizzato Sergio Fabbrini qualche tempo fa sul Sole 24 Ore (Riconoscere le priorità ): «se l’Italia vuole crescere di nuovo, allora la competizione tra leader e partiti, pur dura, dovrà basarsi sul comune riconoscimento dei problemi strutturali che dobbiamo risolvere». L’Italia non può sopravvivere mantenendo lo status quo (che equivale alla legittimazione del nostro declino morale oltre che economico: alti tassi di disoccupazione giovanile, alti tassi di non-occupazione femminile, alti tassi di corruzione pubblica e privata, alti tassi di fiscalità sulle imprese e sul lavoro, alti tassi di evasione fiscale, ecc.); e, per tornare a crescere, non basteranno, misure contingenti e di breve periodo. Non basterà, come direbbe Bersani, «stringere i bulloni». Per risolvere i nostri guai c’è bisogno di un’azione continuativa per almeno una legislatura e bisognerà mettere in discussione interessi consolidati, rendite di posizione, corporativismi diffusi. «Come in guerra – scrive Fabbrini – nell’Italia di oggi la lealtà reciproca tra le principali forze politiche è una necessità, non già un’opzione». Anche perché l’Italia non potrà ritornare a crescere senza un sistema decisionale riformato; senza cioè mettere mano finalmente ad un sistema istituzionale slabbrato e farraginoso.

In fondo, come ha scritto Mark Gilbert su Foreign Affairs ( Mario Monti and Italy’s Generational Crisis), «the real question facing Italy, then, is not whether “Super Mario” can save Italy but whether any non-technocratic government can continue his work».

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